Cassazione: 'Raccomandato', dirlo a qualcuno fa scattare la multa |
Attenzione a dare del 'raccomandato'. D'ora in poi, infatti, rivolgersi a qualcuno con l'epiteto tipico di chi ha ricevuto una spintarella costera' una multa per il reato di ingiuria. L'avvertimento arriva dalla Corte di Cassazione che ha reso defintiva la condanna a 680 euro di multa (comprensiva di500 euro per i danni morali) inflitta ad un commerciante di Peschici, 'reo' di aver dato del 'raccomandato' ad un vigile che era intervenuto nel suo negozio per ricomporre una lite con un cliente. Per la Suprema Corte, dare a qualcuno del 'raccomandato' e' reato. L'espressione, infatti, va classificata tra le 'ingiurie' perche' e' come dire che la persona e' affidata ''alla protezione di qualcuno nell'assunzione dell'incarico'' che riveste. Dunque ha valore di ''offesa''. Il caso analizzato dalla Quinta sezione penale, sentenza 37455, riguarda un commerciante 35enne di Peschici, Nicola O., che era stato rimproverato dal vice comandante dei vigili, Giuseppe F., ''per essersi rifiutato di cambiare ad un cliente del proprio esercizio una banconota da 20 euro per un acquisto minimo''. L'intervento del vigile, dunque, era stato finalizzato a ricomporre la lite, ma di tutta risposta Nicola O. si era rivolto al pizzardone dicendogli ''raccomandato, raccomandato, te la insegno io la legge, vai a scuola''. Immediata la denuncia del vigile che si era sentito offeso da quel 'raccomandato' rivoltogli dal negoziante. |
SE IL LAVORATORE DIVENUTO
FISICAMENTE INIDONEO VIENE ASSEGNATO A MANSIONI INFERIORI, IL DATORE DI
LAVORO DEVE PROVARE DI NON AVER POTUTO EVITARE LA DEQUALIFICAZIONE
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Per
non dover rispondere del risarcimento del danno (Cassazione Sezione
Lavoro n. 19686 del 10 ottobre 2005, Pres. Ciciretti, Rel. Celentano).
Sergio V., dipendente dalla s.n.c. Invernizzi Presse, con mansioni di operaio si è assentato dal lavoro per malattia, in quanto affetto da dolori alla spalla destra, per trauma distorsivo. L’azienda ha accertato, mediante investigatori, che durante l’assenza per malattia egli aveva svolto lavori agricoli in un terreno di sua proprietà, trasportando oggetti pesanti, tra cui un grosso trave di legno, e zappando il campo per oltre un’ora, per poi percorrere una strada di montagna con una mountain bike; conseguentemente lo ha licenziato. Nel giudizio che ne è seguito, il Tribunale di Lecco, dopo aver sentito alcuni testimoni, che hanno confermato i fatti accertati dall’azienda, ha ritenuto legittimo il licenziamento, in quanto giustificato dall’inadempimento del lavoratore all’obbligo, previsto anche dal contratto collettivo, di astenersi da comportamenti anche solo parzialmente idonei a ritardare la guarigione e di rispettare il riposo necessario nel periodo di malattia. In seguito ad impugnazione proposta dal lavoratore, la Corte di Appello di Milano ha nominato un consulente tecnico che ha escluso che l’attività svolta dal lavoratore durante l’assenza avesse avuto come conseguenza un aggravamento della malattia o un ritardo nella guarigione. Questa valutazione è stata condivisa dal consulente di parte nominato dall’azienda. Conseguentemente la Corte ha escluso l’esistenza di una giusta causa di risoluzione del rapporto ed ha annullato il licenziamento, osservando che comunque la sanzione applicata dall’azienda appariva sproporzionata per una condotta non motivata da intento speculativo. L’azienda ha proposto ricorso per cassazione, censurando la sentenza della Corte di Appello per vizi di motivazione e violazione di legge; essa ha richiamato, tra l’altro, il contratto collettivo di categoria, secondo cui la mancata osservanza del riposo terapeutico e dell’obbligo del lavoratore di permanenza nel proprio domicilio durante il periodo di malattia era causa di licenziamento disciplinare. La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 19414 del 6 ottobre 2005, Pres. Mattone, Rel. Filadoro) ha rigettato il ricorso. L’unico punto da decidere – ha osservato la Cassazione – era se lo svolgimento di altre attività fisiche fosse o meno pregiudizievole ad un pronto recupero psichico e fisico del lavoratore; poiché il consulente tecnico d’ufficio, con parere condiviso dal consulente di parte, ha escluso il rischio di un aggravamento della patologia, la Corte di Appello ha correttamente ritenuto insussistente la giusta causa di licenziamento. |
L’inclusione della maggiorazione
per turno notturno nella retribuzione per le ferie deve essere prevista dal
contratto collettivo – Non deriva dalla legge –
La
giurisprudenza di legittimità ha costantemente sottolineato la mancanza nel
nostro ordinamento di un principio generale e inderogabile di
onnicomprensività della retribuzione ai fini della determinazione della
retribuzione spettante per i cosiddetti istituti indiretti. In particolare con
riferimento all’istituto delle ferie, i singoli elementi della retribuzione in
tanto possono riflettersi, quale base di calcolo, sulla retribuzione del
periodo feriale, in quanto ciò sia prescritto (in assenza di previsioni
legislative in proposito) dalla contrattazione collettiva, nel senso che
questa deve far riferimento, per la determinazione di tale ultimo emolumento,
alla retribuzione “normale o ordinaria o di fatto o globale di fatto”; con la
precisazione che deve trattarsi di uno specifico riferimento, non essendo
sufficiente il silenzio sul punto della normativa collettiva.
Ai fini del riconoscimento del diritto al computo, nella base di
calcolo della retribuzione per il periodo feriale, della maggiorazione per
lavoro notturno, non basta la constatazione della normalità della prestazione
notturna in turni periodici e della erogazione della relativa indennità
(reintroducendosi altrimenti il criterio della onnicomprensività, non
legittimato in via generale dal legislatore), in quanto occorre anche che la
contrattazione collettiva faccia riferimento, al fine considerato, alla
retribuzione normale (o altrimenti indicata con i sinonimi sopra
esemplificati, ricorrenti nella citata giurisprudenza) (Cassazione Sezione
Lavoro n. 20150 del 18 ottobre 2005, Pres. Sciarelli, Rel. Balletti).
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L’ATTIVITA’ DELLA CASALINGA E’
SUSCETTIBILE DI VALUTAZIONE ECONOMICA
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Con
conseguente configurabilità di un danno patrimoniale in caso di invalidità che
impedisca di svolgerla (Cassazione Sezione Terza Civile n. 20324 del 20
ottobre 2005, Pres. Vittoria, Rel. Spirito).
Maria D. è stata investita da un
autoveicolo ed ha riportato nell’incidente gravi lesioni fisiche. Ella ha
chiesto al Tribunale di Verona il riconoscimento del suo diritto al
risarcimento del danno, facendo presente tra l’altro che, a causa
dell’invalidità derivata dall’incidente, ella non poteva più svolgere
l’attività di casalinga. Il Tribunale ha condannato la compagnia assicuratrice
dell’autoveicolo investitore al risarcimento del danno biologico e morale; ha
rigettato invece la domanda relativa alle conseguenze dell’incidente sulla
possibilità di svolgere l’attività di casalinga. Questa decisione è stata
confermata dalla Corte di Appello di Venezia. Maria D. ha proposto ricorso per
cassazione censurando la decisione della Corte di Venezia per vizi di
motivazione e violazione di legge.
La Suprema Corte (Sezione Terza Civile n.
20324 del 20 ottobre 2005, Pres. Vittoria, Rel. Spirito) ha accolto il
ricorso. Chi svolge attività domestica (attività tradizionalmente attribuita
alla “casalinga”) – ha osservato la Corte – benché non percepisca reddito
monetizzato, svolge tuttavia un’attività suscettibile di valutazione
economica; sicché il pregiudizio subito in conseguenza della riduzione della
propria capacità lavorativa, se provato, va legittimamente inquadrato nella
categoria del danno patrimoniale (come tale risarcibile, autonomamente
rispetto al danno biologico, nelle componenti del danno emergente ed,
eventualmente, anche del lucro cessante). Il fondamento di tale diritto – che
compete a chi svolge lavori domestici sia nell’ambito di un nucleo familiare
(legittimo o basato su una stabile convivenza), sia soltanto in favore di se
stesso – è difatti pur sempre di natura costituzionale, a differenza dal danno
biologico, che si fonda sul principio della tutela della salute (art. 32 Cost.),
riposa sui principi di cui agli artt. 4, 36 e 37 Costituzione (che tutelano,
rispettivamente, la scelta di qualsiasi forma di lavoro ed i diritti del
lavoratore e della donna lavoratrice). La Corte ha richiamato la sua
giurisprudenza (Cass. n. 15580/2000 e n. 4567/2005) che ha posto in evidenza:
la configurabilità, in generale, di siffatto danno patrimoniale solo in
relazione ai lavori domestici che il danneggiato svolge in suo stesso favore
(fatte salve le eccezioni come quella ipotizzata nell’impresa familiare ex
art. 230 bis c.c.), posto che, nel caso in cui detti lavori siano svolti
gratuitamente in favore di altri, soggetti danneggiati possono essere
considerati solo questi ultimi; la necessità che sia provata la sussistenza
delle due componenti del danno patrimoniale; l’impossibilità, in via generale,
di ravvisare un danno patrimoniale (salve le eventuali eccezioni) nel caso in
cui il soggetto danneggiato già prima dell’incidente non svolgesse lavori
domestici (espressione da intendersi in senso ampio e quindi comprensivo anche
di quell’attività di coordinamento, in senso lato, della vita familiare)
perché questi erano integralmente devoluti a collaboratori o per altri
ragioni.
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Il termine di decadenza di 60
giorni deve essere rispettato anche in caso di impugnazione del licenziamento
di un pubblico impiegato – Sussiste l’interesse dell’amministrazione
all’eliminazione di una situazione di incertezza –
Il termine di decadenza di 60 giorni previsto dall’art. 6 della legge 15
luglio 1966 n. 604 per l’impugnazione del licenziamento, si applica anche in
caso di licenziamento disciplinare di un pubblico impiegato. Le disposizioni
in tema di sanzioni disciplinari contenute nel decreto legislativo 3 febbraio
1993 n. 29 (privatizzazione del pubblico impiego) prevedono che il dipendente
possa impugnare la sanzione irrogatagli entro venti giorni dalla sua
applicazione davanti al Collegio arbitrale di disciplina dell’amministrazione
in cui egli lavora (articolo 59 comma 7). In alternativa, come previsto
dall’articolo 59 bis del decreto legislativo 29/93, introdotto dall’articolo
28 del decreto legislativo 80/98, la sanzione disciplinare può essere
impugnata davanti al collegio di conciliazione di cui all’articolo 69 bis
dello stesso decreto, ossia davanti allo stesso collegio cui è demandato lo
svolgimento del tentativo obbligatorio di conciliazione. Quanto a modalità e
ad effetti dell’impugnazione l’articolo 59 bis richiama i commi 6 e 7 della
legge 20 maggio 1970, n. 300. Si deve quindi osservare che le due disposizioni
menzionate (articolo 59 comma 7, e articolo 59 bis del decreto legislativo
29/93 come modificato dal decreto legislativo 80/98) attribuiscono al
lavoratore sanzionato disciplinarmente una facoltà di impugnazione in sedi di
carattere arbitrale (facoltà oggi disciplinata in maniera organica dal
contratto collettivo nazionale quadro 23 gennaio 2001 in materia di procedure
di conciliazione ed arbitrato). Il termine entro il quale questa facoltà può
essere esercitata è assai più breve del termine previsto dall’articolo 6 della
legge 604/66. Qualora il lavoratore eserciti una tale facoltà, poiché essa ha
come contenuto l’impugnazione della sanzione disciplinare e quindi, se del
caso, del recesso per motivi disciplinari, non viene in diretto rilievo il
problema dell’applicabilità del termine ex articolo 6 della legge se 604/66,
dal momento che licenziamento viene impugnato. Il problema si pone invece
quando il lavoratore non si avvalga dei sistemi anzidetti e preferisca
rivolgersi all’autorità giudiziaria. L’esistenza delle disposizioni che
attribuiscono la facoltà di impugnare di fronte ad arbitri la sanzione
disciplinare non è incompatibile con l’applicazione del termine di decadenza
previsto dalla legge n. 604, perché l’applicazione di tale termine non
restringe le facoltà di impugnazione in sede arbitrale attribuite dalla legge
al dipendente. Infatti se il dipendente segue la strada dell’impugnazione
arbitrale il termine assegnatogli a tale fine è più ristretto di quello
previsto dalla legge 604/66. Ne deriva che quando si avvalga tempestivamente
della strada del giudizio arbitrale il lavoratore necessariamente rispetta
anche il termine di cui al citato articolo 6. Quindi, fra l’altro,
l’incompatibilità non può essere argomentata affermando che l’applicazione del
termine di decadenza si risolva in un trattamento più sfavorevole
dell’impugnazione davanti al giudice ordinario rispetto a quella da proporsi
in sede arbitrale. D’altra parte neppure è corretto argomentare dalla
normativa in tema di impugnazione innanzi ai collegi arbitrali (quello di
disciplina dell’amministrazione e quello di volta in volta istituito ex
articolo 69 bis) per ricavare conseguenze circa il regime dell’impugnazione
dinanzi al giudice ordinario.
Deve essere considerato infatti che il termine di decadenza, previsto
dall’articolo 6 della legge se 604/66, potrebbe dirsi non operante nell’ambito
del rapporto di lavoro con le pubbliche amministrazioni qualora le regole
speciali di tale rapporto, contenute nel decreto legislativo, consentissero di
dedurre il principio per cui nel licenziamento del dipendente di una pubblica
amministrazione non è ritenuta meritevole di tutela l’esigenza del datore di
lavoro di conoscere in termini brevi la eventualità che il proprio recesso non
si consolidi e non vada in sostanza a buon fine. Ma che nel rapporto di lavoro
alle pubbliche amministrazioni una siffatta esigenza non sia meritevole di
tutela non risulta da alcuna norma (Cassazione Sezione Lavoro n. 18621 del 22
settembre 2005, Pres. Ravagnani, Rel. Curcuruto).