Cassazione: 'Raccomandato', dirlo a qualcuno fa scattare la multa

Attenzione a dare del 'raccomandato'. D'ora in poi, infatti, rivolgersi a qualcuno con l'epiteto tipico di chi ha ricevuto una spintarella costera' una multa per il reato di ingiuria. L'avvertimento arriva dalla Corte di Cassazione che ha reso defintiva la condanna a 680 euro di multa (comprensiva di500 euro per i danni morali) inflitta ad un commerciante di Peschici, 'reo' di aver dato del 'raccomandato' ad un vigile che era intervenuto nel suo negozio per ricomporre una lite con un cliente. Per la Suprema Corte, dare a qualcuno del 'raccomandato' e' reato. L'espressione, infatti, va classificata tra le 'ingiurie' perche' e' come dire che la persona e' affidata ''alla protezione di qualcuno nell'assunzione dell'incarico'' che riveste. Dunque ha valore di ''offesa''. Il caso analizzato dalla Quinta sezione penale, sentenza 37455, riguarda un commerciante 35enne di Peschici, Nicola O., che era stato rimproverato dal vice comandante dei vigili, Giuseppe F., ''per essersi rifiutato di cambiare ad un cliente del proprio esercizio una banconota da 20 euro per un acquisto minimo''. L'intervento del vigile, dunque, era stato finalizzato a ricomporre la lite, ma di tutta risposta Nicola O. si era rivolto al pizzardone dicendogli ''raccomandato, raccomandato, te la insegno io la legge, vai a scuola''. Immediata la denuncia del vigile che si era sentito offeso da quel 'raccomandato' rivoltogli dal negoziante.


 

 

SE IL LAVORATORE DIVENUTO FISICAMENTE INIDONEO VIENE ASSEGNATO A MANSIONI INFERIORI, IL DATORE DI LAVORO DEVE PROVARE DI NON AVER POTUTO EVITARE LA DEQUALIFICAZIONE Per non dover rispondere del risarcimento del danno (Cassazione Sezione Lavoro n. 19686 del 10 ottobre 2005, Pres. Ciciretti, Rel. Celentano).
            Angelo M. dipendente dell’Azienda Napoletana Mobilità, dopo aver lavorato come conducente di linea, con inquadramento nel sesto livello contrattuale, è divenuto fisicamente inidoneo allo svolgimento delle mansioni di guida. L’azienda lo ha mantenuto in servizio, ma lo ha destinato a mansioni inferiori, proprie del nono livello. Egli ha chiesto al Pretore di Napoli di accertare l’illegittimità del provvedimento con il quale era stato destinato a mansioni inferiori a quelle previste per il sesto livello, di dichiarare il suo diritto di svolgere mansioni di sesto livello equivalenti a quelle di conducente e di condannare l’azienda al risarcimento del danno. Il giudice, dopo avere disposto una consulenza tecnica, ha affermato che il lavoratore era idoneo a mansioni del sesto livello, diverse da quelle di conducente e aveva diritto di svolgerle; conseguentemente ha condannato l’azienda al risarcimento del danno. In grado di appello, il Tribunale di Napoli ha riformato la decisione del Pretore, affermando che il lavoratore non avrebbe dovuto limitarsi a sostenere di essere in grado di svolgere mansioni di sesto livello, diverse da quelle di conducente, ma avrebbe dovuto dedurre e provare l’esistenza di posti in organico scoperti per addetti a tali diverse mansioni. Il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione, censurando la sentenza impugnata per difetto di motivazione e violazione di legge.
            La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 19686 del 10 ottobre 2005, Pres. Ciciretti, Rel. Celentano) ha accolto il ricorso, cassando la decisione del Tribunale di Napoli e rinviando la causa, per nuovo esame alla Corte di Appello di Napoli, per la quale ha stabilito il seguente principio di diritto: “Il datore di lavoro che adibisca il lavoratore, divenuto inidoneo alle mansioni da ultimo espletate, a mansioni di livello inferiore, con il consenso del dipendente, ha l’onere di provare, a norma dell’art. 2697 cod. civ., pur con le ragionevoli limitazioni imposte dal caso concreto e dalle mancate allegazioni del dipendente, l’impossibilità o la non convenienza aziendale di adibire il lavoratore ad altre mansioni equivalenti a quelle da ultimo espletate o a mansioni di livello intermedio”.
            Nella motivazione della sua decisione, la Suprema Corte ha ricordato che con sentenza n. 7755 del 7 agosto 1998 le Sezioni Unite, componendo il contrasto insorto nella Sezione Lavoro in ordine alla licenziabilità del dipendente diventato parzialmente inidoneo alla prestazione per la quale era stato assunto, hanno affermato che la sopravvenuta infermità permanente e la conseguente impossibilità della prestazione lavorativa possono giustificare oggettivamente il recesso del datore di lavoro dal contratto di lavoro subordinato, ai sensi degli artt. 1 e 3 legge n. 604/66 (normativa specifica in relazione a quella generale dei contratti sinallagmatici di cui agli artt. 1453, 1455, 1463 e 1464 cod. civ.) se risulti ineseguibile non soltanto l’attività svolta in concreto dal prestatore, ma sia esclusa anche la possibilità, alla stregua di un’interpretazione del contratto secondo buona fede, di svolgere altra attività riconducibile alle mansioni assegnate o ad altre equivalenti ai sensi dell’art. 2103 cod. civ. e, persino, in difetto di altre soluzioni, a mansioni inferiori, purché l’attività compatibile con l’idoneità del lavoratore sia utilizzabile nell’impresa senza mutamenti dell’assetto organizzativo insindacabilmente scelto dall’imprenditore.
            Nella stessa sentenza – ha rilevato la Corte – è stato riaffermato che è il datore di lavoro che ha l’onere di provare il giustificato motivo di licenziamento, ai sensi dell’art. 5 della legge n. 604 del 1966, dimostrando che nell’ambito delle mansioni assegnate e di quelle equivalenti (come tali riconducibili all’art. 2103 cod. civ.) non è possibile, o comunque compatibile con il buon andamento dell’impresa, un conveniente impiego dell’infermo; salva la (ovvia) possibilità del lavoratore di contrastare tale prova, indicando specificamente le mansioni esercitabili e provando la sua idoneità ad esse. La sentenza citata – ha osservato la Corte – accoglie l’orientamento favorevole alla conservazione del posto di lavoro pur con il cd. “patto di dequalificazione”, vale a dire con l’attribuzione di mansioni inferiori, sempre che vi sia il consenso del lavoratore; l’orientamento favorevole alla validità del cd. “patto di dequalificazione”, autorevolmente avallato dalle Sezioni Unite, quale unico mezzo per conservare il rapporto di lavoro, muove, peraltro, dalla premessa che in realtà non si tratta di una deroga all’art. 2103 cod. civ., norma diretta alla regolamentazione dello jus variandi del datore di lavoro e, come tale, inderogabile secondo l’espresso disposto del secondo comma dell’articolo, ma di un adeguamento del contratto alla nuova situazione di fatto. L’adeguamento deve essere, quindi, sorretto dal consenso, oltre che dall’interesse, dello stesso lavoratore. Da tali considerazioni – ha affermato la Corte – discende che il datore di lavoro è tenuto a giustificare oggettivamente il recesso anche con l’impossibilità di assegnare mansioni non equivalenti nel solo caso in cui il lavoratore abbia, sia pure senza forme rituali, manifestato la sua disponibilità ad accettarle. Nella fattispecie in esame il lavoratore, pur mostrandosi disposto ad accettare il demansionamento al fine di conservare il posto di lavoro, ha impugnato la decisione del datore di adibirlo a mansioni di nono livello ed ha lamentato la mancata valutazione della possibilità di essere adibito a mansioni di sesto livello o, in via subordinata a mansioni proprie di un livello intermedio.
            Così come, in caso di eventuale licenziamento – ha osservato la Corte – sarebbe stato onere del datore di lavoro dimostrare la impossibilità di adibire il dipendente, divenuto inidoneo alle mansioni di conducente, a mansioni equivalenti o, attesa la disponibilità del lavoratore, a mansioni inferiori, così il datore di lavoro che abbia adibito il lavoratore, divenuto inidoneo alle mansioni di conducente di sesto livello, a mansioni di nono livello, ha l’onere di dimostrare la impossibilità, o la non convenienza aziendale, di utilizzare il dipendente in mansioni equivalenti, nello stesso livello, o in mansioni intermedie fra le precedenti e quelle di fatto attribuite.
   
  

 

 

 



L’ATTIVITA’ LAVORATIVA SVOLTA DURANTE UN’ASSENZA PER MALATTIA NON COSTITUISCE INADEMPIENZA SE NON HA CAUSATO UN RITARDO NELLA GUARIGIONE Va esclusa la configurabilità di una giusta causa di licenziamento (Cassazione Sezione Lavoro n. 19414 del 6 ottobre 2005, Pres. Mattone, Rel. Filadoro).
           Sergio V., dipendente dalla s.n.c. Invernizzi Presse, con mansioni di operaio si è assentato dal lavoro per malattia, in quanto affetto da dolori alla spalla destra, per trauma distorsivo. L’azienda ha accertato, mediante investigatori, che durante l’assenza per malattia egli aveva svolto lavori agricoli in un terreno di sua proprietà, trasportando oggetti pesanti, tra cui un grosso trave di legno, e zappando il campo per oltre un’ora, per poi percorrere una strada di montagna con una mountain bike; conseguentemente lo ha licenziato.
           Nel giudizio che ne è seguito, il Tribunale di Lecco, dopo aver sentito alcuni testimoni, che hanno confermato i fatti accertati dall’azienda, ha ritenuto legittimo il licenziamento, in quanto giustificato dall’inadempimento del lavoratore all’obbligo, previsto anche dal contratto collettivo, di astenersi da comportamenti anche solo parzialmente idonei a ritardare la  guarigione e di rispettare il riposo necessario nel periodo di malattia. In seguito ad impugnazione proposta dal lavoratore, la Corte di Appello di Milano ha nominato un consulente tecnico che ha escluso che l’attività svolta dal lavoratore durante l’assenza avesse avuto come conseguenza un aggravamento della malattia o un ritardo nella guarigione. Questa valutazione è stata condivisa dal consulente di parte nominato dall’azienda. Conseguentemente la Corte ha escluso l’esistenza di una giusta causa di risoluzione del rapporto ed ha annullato il licenziamento, osservando che comunque la sanzione applicata dall’azienda appariva sproporzionata per una condotta non motivata da intento speculativo. L’azienda ha proposto ricorso per cassazione, censurando la sentenza della Corte di Appello per vizi di motivazione e violazione di legge; essa ha richiamato, tra l’altro, il contratto collettivo di categoria, secondo cui la mancata osservanza del riposo terapeutico e dell’obbligo del lavoratore di permanenza nel proprio domicilio durante il periodo di malattia era causa di licenziamento disciplinare.
           La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 19414 del 6 ottobre 2005, Pres. Mattone, Rel. Filadoro) ha rigettato il ricorso. L’unico punto da decidere – ha osservato la Cassazione – era se lo svolgimento di altre attività fisiche fosse o meno pregiudizievole ad un pronto recupero psichico e fisico del lavoratore; poiché il consulente tecnico d’ufficio, con parere condiviso dal consulente di parte, ha escluso il rischio di un aggravamento della patologia, la Corte di Appello ha correttamente ritenuto insussistente la giusta causa di licenziamento.
 


L’inclusione della maggiorazione per turno notturno nella retribuzione per le ferie deve essere prevista dal contratto collettivo – Non deriva dalla legge – La giurisprudenza di legittimità ha costantemente sottolineato la mancanza nel nostro ordinamento di un principio generale e inderogabile di onnicomprensività della retribuzione ai fini della determinazione della retribuzione spettante per i cosiddetti istituti indiretti. In particolare con riferimento all’istituto delle ferie, i singoli elementi della retribuzione in tanto possono riflettersi, quale base di calcolo, sulla retribuzione del periodo feriale, in quanto ciò sia prescritto (in assenza di previsioni legislative in proposito) dalla contrattazione collettiva, nel senso che questa deve far riferimento, per la determinazione di tale ultimo emolumento, alla retribuzione “normale o ordinaria o di fatto o globale di fatto”; con la precisazione che deve trattarsi di uno specifico riferimento, non essendo sufficiente il silenzio sul punto della normativa collettiva.
         Ai fini del riconoscimento del diritto al computo, nella base di calcolo della retribuzione per il periodo feriale, della maggiorazione per lavoro notturno, non basta la constatazione della normalità della prestazione notturna in turni periodici e della erogazione della relativa indennità (reintroducendosi altrimenti il criterio della onnicomprensività, non legittimato in via generale dal legislatore), in quanto occorre anche che la contrattazione collettiva faccia riferimento, al fine considerato, alla retribuzione normale (o altrimenti indicata con i sinonimi sopra esemplificati, ricorrenti nella citata giurisprudenza) (Cassazione Sezione Lavoro n. 20150 del 18 ottobre 2005, Pres. Sciarelli, Rel. Balletti).



La riduzione della capacità lavorativa generica è risarcibile come danno biologico – Non vi è presunzione di pregiudizio da lucro cessante – In caso di illecito lesivo dell’integrità psicofisica della persona, la riduzione della capacità lavorativa generica, quale potenziale attitudine all’attività lavorativa da parte di un soggetto che non svolge attività produttive di reddito, né è in procinto presumibilmente di svolgerla, è risarcibile quale danno biologico, che ricomprende tutti gli effetti negativi del fatto lesivo che incidono sul bene della salute in sé considerato. Qualora, invece, a detta riduzione della capacità lavorativa generica si associ una riduzione della capacità lavorativa specifica che, a sua volta, dia luogo ad una riduzione della capacità di guadagno, detta diminuzione della produzione di reddito integra un danno patrimoniale. Ne consegue che non può farsi discendere in modo automatico dall’invalidità permanente la presunzione del danno da lucro cessante, derivando esso solo da quella invalidità che abbia prodotto una riduzione della capacità lavorativa specifica. Tale danno patrimoniale deve essere accertato in concreto attraverso la dimostrazione che il soggetto leso svolgesse – o presumibilmente in futuro avrebbe svolto – un’attività lavorativa produttiva di reddito, ed inoltre attraverso la prova della mancanza di persistenza, dopo l’infortunio, di una capacità di attendere ad altri lavori, confacenti alle attitudini e condizioni personali ed ambientali dell’infortunato, ed altrimenti idonei alla produzione di altre fonti di reddito, in luogo di quelle perse o ridotte. La prova del danno grava sul soggetto che chiede il risarcimento, e può essere anche presuntiva, purché sia certa la riduzione della capacità lavorativa (Cassazione Sezione Terza Civile  n. 20321 del 20 ottobre 2005, Pres. Vittoria, Rel. Segreto).

 


L’ATTIVITA’ DELLA CASALINGA E’ SUSCETTIBILE DI VALUTAZIONE ECONOMICA Con conseguente configurabilità di un danno patrimoniale in caso di invalidità che impedisca di svolgerla (Cassazione Sezione Terza Civile n. 20324 del 20 ottobre 2005, Pres. Vittoria, Rel. Spirito).
          Maria D. è stata investita da un autoveicolo ed ha riportato nell’incidente gravi lesioni fisiche. Ella ha chiesto al Tribunale di Verona il riconoscimento del suo diritto al risarcimento del danno, facendo presente tra l’altro che, a causa dell’invalidità derivata dall’incidente, ella non poteva più svolgere l’attività di casalinga. Il Tribunale ha condannato la compagnia assicuratrice dell’autoveicolo investitore al risarcimento del danno biologico e morale; ha rigettato invece la domanda relativa alle conseguenze dell’incidente sulla possibilità di svolgere l’attività di casalinga. Questa decisione è stata confermata dalla Corte di Appello di Venezia. Maria D. ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione della Corte di Venezia per vizi di motivazione e violazione di legge.
          La Suprema Corte (Sezione Terza Civile n. 20324 del 20 ottobre 2005, Pres. Vittoria, Rel. Spirito) ha accolto il ricorso. Chi svolge attività domestica (attività tradizionalmente attribuita alla “casalinga”) – ha osservato la Corte – benché non percepisca reddito monetizzato, svolge tuttavia un’attività suscettibile di valutazione economica; sicché il pregiudizio subito in conseguenza della riduzione della propria capacità lavorativa, se provato, va legittimamente inquadrato nella categoria del danno patrimoniale (come tale risarcibile, autonomamente rispetto al danno biologico, nelle componenti del danno emergente ed, eventualmente, anche del lucro cessante). Il fondamento di tale diritto – che compete a chi svolge lavori domestici sia nell’ambito di un nucleo familiare (legittimo o basato su una stabile convivenza), sia soltanto in favore di se stesso – è difatti pur sempre di natura costituzionale, a differenza dal danno biologico, che si fonda sul principio della tutela della salute (art. 32 Cost.), riposa sui principi di cui agli artt. 4, 36 e 37 Costituzione (che tutelano, rispettivamente, la scelta di qualsiasi forma di lavoro ed i diritti del lavoratore e della donna lavoratrice). La Corte ha richiamato la sua giurisprudenza (Cass. n. 15580/2000 e n. 4567/2005) che ha posto in evidenza: la configurabilità, in generale, di siffatto danno patrimoniale solo in relazione ai lavori domestici che il danneggiato svolge in suo stesso favore (fatte salve le eccezioni come quella ipotizzata nell’impresa familiare ex art. 230 bis c.c.), posto che, nel caso in cui detti lavori siano svolti gratuitamente in favore di altri, soggetti danneggiati possono essere considerati solo questi ultimi; la necessità che sia provata la sussistenza delle due componenti del danno patrimoniale; l’impossibilità, in via generale, di ravvisare un danno patrimoniale (salve le eventuali eccezioni) nel caso in cui il soggetto danneggiato già prima dell’incidente non svolgesse lavori domestici (espressione da intendersi in senso ampio e quindi comprensivo anche di quell’attività di coordinamento, in senso lato, della vita familiare) perché questi erano integralmente devoluti a collaboratori o per altri ragioni.


 


Nella valutazione delle mansioni superiori svolte dal lavoratore, ai fini della promozione automatica, si deve applicare il criterio della prevalenza qualitativa – In base all’art. 2103 cod. civ. – In base all’art. 2103 cod. civ. la promozione automatica alla qualifica superiore si verifica quando il lavoratore svolga, in misura prevalente, le relative mansioni per tre mesi. La prevalenza non va individuata sulla base di una mera contrapposizione quantitativa tra le mansioni svolte, bensì tenendo conto della mansione maggiormente significativa sul piano professionale, applicandosi il criterio della prevalenza qualitativa (Cassazione Sezione Lavoro n. 18659 del 23 settembre 2005, Pres. Mattone, Rel. Di Cerbo).


 


LA RIVALUTAZIONE MONETARIA VA APPLICATA ANCHE IN CASO DI CONDANNA AL RISARCIMENTO DEL DANNO PER LICENZIAMENTO ILLEGITTIMO In base all’art. 429 cod. proc. civ. (Cassazione Sezione Lavoro n. 18624 del 22 settembre 2005, Pres. Ravagnani, Rel. Cuoco).
            In base all’art. 429 cod. proc. civ. il giudice, quando pronuncia sentenza di condanna al pagamento di somme di denaro per crediti di lavoro, deve determinare, oltre gli interessi nella misura legale, il maggior danno eventualmente subito dal lavoratore per la diminuzione di valore del suo credito, condannando al pagamento della somma relativa con decorrenza dal giorno della maturazione del diritto. Il principio contenuto nell’articolo 429 terzo comma cod. proc. civ. in tema di rivalutazione monetaria dei crediti di lavoro trova applicazione anche nel caso di crediti liquidati ai sensi dell’art. 18 della legge 20 maggio 1970 n. 300 a titolo di risarcimento del danno da licenziamento illegittimo, i quali, sebbene non siano sinallagmaticamente collegati con una prestazione lavorativa, rappresentano pur sempre l’utilità economica che da questa il lavoratore avrebbe tratto ove la relativa esecuzione non gli fosse stata impedita dall’ingiustificato recesso della controparte.



LE CAUSE DI LAVORO DEVONO ESSERE DEFINITE PIU’ RAPIDAMENTE DI QUELLE ORDINARIE – Perché la loro durata possa essere ritenuta ragionevole (Cassazione Sezione Prima Civile n. 18923 del 28 settembre 2005, Pres. ed Est. Criscuolo).
         Nel luglio 1994 Serena C. ha convenuto in giudizio davanti al Giudice del Lavoro di Roma Alfonso C. chiedendo la condanna del convenuto al pagamento di differenze di retribuzione in misura di lire 35 milioni circa per attività lavorativa da lei prestata dal novembre 1988 al novembre 1993. Il ricorso è stato depositato il 26 luglio 1994. La prima udienza è stata fissata per il 28 maggio 1997 e successivamente rinviata d’ufficio al 27 ottobre 1998. Dopo lo svolgimento dell’istruttoria, il processo è stato definito in primo grado con sentenza pronunciata l’8 marzo 2001 e depositata il 22 marzo 2001, che ha rigettato la domanda proposta dalla lavoratrice. Alfonso C., con ricorso depositato il 18 ottobre 2001 ha chiesto alla Corte di Appello di Perugia l’equa riparazione prevista dalla legge n. 89 del 2001 per la durata non ragionevole del processo da lui subito  con conseguente violazione dell’art. 6 della convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. La Corte di Appello di Perugia, con decreto depositato il 6 giugno 2002, ha liquidato ad Alfonso C. a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale l’importo di euro duemila. Nella motivazione di questa decisione la Corte ha affermato che la durata ragionevole del processo di primo grado deve essere in genere determinata, anche in base alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, in anni tre, ma che nel caso in esame, attesa la particolare difficoltà della controversia (per la necessità di assumere mezzi istruttori) tale durata doveva essere stabilita in anni quattro; inoltre dall’esame dei verbali di causa risultavano ritardi per quasi un anno ascrivibili a comportamenti delle parti. La Corte di Perugia ha quindi concluso che, pur essendosi il processo di primo grado protratto per circa sette anni, la durata non ragionevole della causa da considerare ai fini dell’equa riparazione andava individuata in anni due e il risarcimento andava determinato in mille euro per ogni anno eccedente la durata ragionevole. Alfonso C. ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione della Corte di Appello di Perugia per vizi di motivazione e violazione di legge.
         La Suprema Corte (Sezione Prima Civile n. 18923 del 28 settembre 2005, Pres. ed Est. Criscuolo) ha accolto il ricorso. E’ vero – ha osservato la Cassazione – che la giurisprudenza della Corte europea adotta come parametro per individuare la durata media di un processo (ordinario) il termine di tre anni in I grado, ma è vero del pari che questo termine (orientativo) si riduce in presenza di controversie di lavoro, che richiedono una trattazione più sollecita avuto riguardo alla natura e alla consistenza degli interessi in esse implicati. Nel caso di specie – ha affermato la Corte – il decreto impugnato ha trascurato in toto  questo pur rilevante profilo, ed anzi – con riferimento alla vicenda di cui si tratta – ha considerato ragionevole una durata del processo pari ad anni quattro, “attesa la particolare difficoltà della controversia”, individuata nella necessità di assumere mezzi istruttori (costituiti, a quanto si desume dal tenore del provvedimento, da una prova testimoniale); il che per la verità risulta incongruo sul piano logico (e si risolve, quindi, in una motivazione del tutto insufficiente), in difetto di ogni elemento valutativo circa le difficoltà presentate dal mezzo istruttorio, il numero dei testi e l’oggetto del mezzo stesso. Considerazioni analoghe – ha aggiunto la Corte – valgono per i “ritardi relativi alla richiesta od articolazione di mezzi istruttori addebitabili all’istante” e per i rinvii da questo richiesti o accettati. Quanto alla richiesta o articolazione di mezzi istruttori, come si desume dal decreto impugnato le prove furono ammesse alla prima udienza, che ebbe luogo il 27 ottobre 1998; quanto ai rinvii, essi almeno in parte risultano disposti per la prosecuzione delle prove testimoniali ammesse, onde non è dato comprendere (in mancanza di una sufficiente motivazione al riguardo) a quale titolo essi possano essere addebitati interamente all’istante. Ne deriva – ha concluso la Corte – che il periodo eccedente il termine ragionevole di durata del processo a quo (di cui all’art. 2, comma 3, lett. a della legge n. 89 del 2001) deve formare oggetto di nuova determinazione; pertanto, in accoglimento del ricorso, la Corte ha cassato il decreto impugnato ed ha rinviato la causa per nuovo esame alla Corte di Appello di Perugia, in diversa composizione.



Il termine di decadenza di 60 giorni deve essere rispettato anche in caso di impugnazione del licenziamento di un pubblico impiegato – Sussiste l’interesse dell’amministrazione all’eliminazione di una situazione di incertezza – Il termine di decadenza di 60 giorni previsto dall’art. 6 della legge 15 luglio 1966 n. 604 per l’impugnazione del licenziamento, si applica anche in caso di licenziamento disciplinare di un pubblico impiegato. Le disposizioni in tema di sanzioni disciplinari contenute nel decreto legislativo 3 febbraio 1993 n. 29 (privatizzazione del pubblico impiego) prevedono che il dipendente possa impugnare la sanzione irrogatagli entro venti giorni dalla sua applicazione davanti al Collegio arbitrale di disciplina dell’amministrazione in cui egli lavora (articolo 59 comma 7). In alternativa, come previsto dall’articolo 59 bis del decreto legislativo 29/93, introdotto dall’articolo 28 del decreto legislativo 80/98, la sanzione disciplinare può essere impugnata davanti al collegio di conciliazione di cui all’articolo 69 bis dello stesso decreto, ossia davanti allo stesso collegio cui è demandato lo svolgimento del tentativo obbligatorio di conciliazione. Quanto a modalità e ad effetti dell’impugnazione l’articolo 59 bis richiama i commi 6 e 7 della legge 20 maggio 1970, n. 300. Si deve quindi osservare che le due disposizioni menzionate (articolo 59 comma 7, e articolo 59 bis del decreto legislativo 29/93 come modificato dal decreto legislativo 80/98) attribuiscono al lavoratore sanzionato disciplinarmente una facoltà di impugnazione in sedi di carattere arbitrale (facoltà oggi disciplinata in maniera organica dal contratto collettivo nazionale quadro 23 gennaio 2001 in materia di procedure di conciliazione ed arbitrato). Il termine entro il quale questa facoltà può essere esercitata è assai più breve del termine previsto dall’articolo 6 della legge 604/66. Qualora il lavoratore eserciti una tale facoltà, poiché essa ha come contenuto l’impugnazione della sanzione disciplinare e quindi, se del caso, del recesso per motivi disciplinari, non viene in diretto rilievo il problema dell’applicabilità del termine ex articolo 6 della legge se 604/66, dal momento che licenziamento viene impugnato. Il problema si pone invece quando il lavoratore non si avvalga dei sistemi anzidetti e preferisca rivolgersi all’autorità giudiziaria. L’esistenza delle disposizioni che attribuiscono la facoltà di impugnare di fronte ad arbitri la sanzione disciplinare non è incompatibile con l’applicazione del termine di decadenza previsto dalla legge n. 604, perché l’applicazione di tale termine non restringe le facoltà di impugnazione in sede arbitrale attribuite dalla legge al dipendente. Infatti se il dipendente segue la strada dell’impugnazione arbitrale il termine assegnatogli a tale fine è più ristretto di quello previsto dalla legge 604/66. Ne deriva che quando si avvalga tempestivamente della strada del giudizio arbitrale il lavoratore necessariamente rispetta anche il termine di cui al citato articolo 6. Quindi, fra l’altro, l’incompatibilità non può essere argomentata affermando che l’applicazione del termine di decadenza si risolva in un trattamento più sfavorevole dell’impugnazione davanti al giudice ordinario rispetto a quella da proporsi in sede arbitrale. D’altra parte neppure è corretto argomentare dalla normativa in tema di impugnazione innanzi ai collegi arbitrali (quello di disciplina dell’amministrazione e quello di volta in volta istituito ex articolo 69 bis) per ricavare conseguenze circa il regime dell’impugnazione dinanzi al giudice ordinario.
         Deve essere considerato infatti che il termine di decadenza, previsto dall’articolo 6 della legge se 604/66, potrebbe dirsi non operante nell’ambito del rapporto di lavoro con le pubbliche amministrazioni qualora le regole speciali di tale rapporto, contenute nel decreto legislativo, consentissero di dedurre il principio per cui nel licenziamento del dipendente di una pubblica amministrazione non è ritenuta meritevole di tutela l’esigenza del datore di lavoro di conoscere in termini brevi la eventualità che il proprio recesso non si consolidi e non vada in sostanza a buon fine. Ma che nel rapporto di lavoro alle pubbliche amministrazioni una siffatta esigenza non sia meritevole di tutela non risulta da alcuna norma (Cassazione Sezione Lavoro n. 18621 del 22 settembre 2005, Pres. Ravagnani, Rel. Curcuruto).