L’INDENNITA’ DI ACCOMPAGNAMENTO PUO’ ESSERE ATTRIBUITA A UNA PERSONA CHE, PUR ESSENDO CAPACE DI COMPIERE GLI ATTI ELEMENTARI DELLA VITA QUOTIDIANA, SIA AFFETTA DA GRAVI DISTURBI DELLA SFERA INTELLETTIVA – E necessita perciò di assistenza (Cassazione Sezione Lavoro n. 1268 del 21 gennaio 2005, Pres. Ianniruberto, Rel. Vidiri).
           Giuseppina C. ha chiesto al Pretore di Napoli l’accertamento del suo diritto all’indennità di accompagnamento. Il consulente tecnico nominato dal Giudice ha accertato che la ricorrente era affetta da ritardo mentale di grado medio, emicrania ed epilessia farmaco-resistente con crisi secondarie generalizzate in trattamento; egli ha ravvisato una menomata capacità di astrazione e di concettualizzazione, una carenza di progettualità, una lacunosità della memoria, sia di rievocazione che di fissazione, ed ancora una suggestionabilità e difficoltà a discriminare tra soggetti estranei e familiari. Soggetti portatori di patologie analoghe a quelle della ricorrente – ha affermato il consulente – difficilmente progrediscono, negli studi, oltre il livello della seconda elementare.
           Sia il Pretore che, in grado di appello, il Tribunale di Napoli, hanno escluso il diritto della ricorrente alla indennità di accompagnamento. Il Tribunale ha affermato che tale diritto sorge quando lo svolgimento anche dei più semplici e frequenti atti della vita quotidiana sia suscettibile di creare concreti, seri e gravi pericoli all’integrità fisica dell’individuo, mentre nel caso in esame era risultato che l’interessata era in condizioni di svolgere, in condizioni di accettabile autonomia, la quasi totalità degli atti del vivere quotidiano. Giuseppina C. ha proposto ricorso per cassazione, censurando la sentenza del Tribunale di Napoli per difetto di motivazione e violazione di legge.
           La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 1268 del 21 gennaio 2005, Pres. Ianniruberto, Rel. Vidiri), ha accolto il ricorso ricordando la sua giurisprudenza secondo cui le condizioni previste dall’art. 1 della legge n. 18 del 1980 per l’attribuzione dell’indennità di accompagnamento consistono alternativamente nella impossibilità di deambulare senza l’aiuto permanente di un accompagnatore, oppure nella incapacità di compiere gli atti quotidiani della vita senza continua assistenza. La situazione di non autosufficienza, che è alla base del riconoscimento del diritto in esame – ha osservato la Corte – è caratterizzata, pertanto, dalla permanenza dell’aiuto fornito dall’accompagnatore per la deambulazione, o dalla quotidianità degli atti che il soggetto non è in grado di svolgere autonomamente; in tale ultimo caso è la cadenza quotidiana che l’atto assume per la propria natura a determinare la permanenza del bisogno, che costituisce la ragione stessa del diritto. La concessione dell’indennità di accompagnamento – ha precisato la Cassazione –si configura come prestazione del tutto peculiare in cui l’intervento assistenziale non è indirizzato, come avviene per la pensione di inabilità, al sostentamento del soggetto minorato nelle sue capacità di lavoro (tanto è vero che l’indennità può essere concessa anche ai minori degli anni diciotto ed a soggetti che, pur non essendo in grado di deambulare senza l’aiuto di un terzo, svolgano tuttavia un'attività lavorativa al di fuori del proprio domicilio), ma è rivolto principalmente a sostenere il nucleo familiare onde incoraggiarlo a farsi carico dei suddetti soggetti, evitando così il ricovero in istituti ed assistenza, con conseguente diminuzione della relativa spesa sociale. Non assume alcuna rilevanza ai fini del riconoscimento di tale indennità – ha affermato la Corte – la circostanza che la necessità di un concreto e fattivo aiuto fornito da terzi sia perdurante per l’intera giornata, potendo anche momenti di attesa, qualificabili come assistenza passiva, alternarsi nel corso della giornata a momenti di assistenza attiva, nei quali la prestazione dell’accompagnatore deve concretizzarsi in condotte commissive (cfr. Cass. 11 aprile 2003 n. 5784); questi principi devono trovare applicazione in presenza di quelle malattie che, per incidere notevolmente sulle capacità intellettive ed, in genere, cognitive, trovano nella famiglia, per i suoi naturali vincoli solidaristici, l’ambiente più favorevole ad alleviare le sofferenze di quanti sono da esse colpiti. E’ pertanto configurabile un diritto all’indennità di accompagnamento in relazione a tutte quelle malattie che, per il grado di gravità espresso, comportano una consistente degenerazione del sistema nervoso ed una limitazione delle facoltà cognitive (ad es. Alzheimer o gravi forme di vasculopatia cerebrale), o impedimenti dell’apparato motorio (ad es. Parkinson), o che cagionano infermità mentali con limitazioni dell’intelligenza e che, nello stesso tempo, richiedono una giornaliera assistenza farmacologia al fine di evitare aggravamenti delle già precarie condizioni psicofisiche nonché incombenti pericoli per sé e per altri (es. psicopatie con incapacità di integrarsi nel proprio contesto sociale, o forme di epilessia con ripetute crisi convulsive, controllabili solo con giornaliere terapie farmacologiche). Queste condizioni patologiche – ha osservato la Corte – rendono a diverso titolo necessaria una continua assistenza giornaliera, giustificante il riconoscimento dell’indennità di accompagnamento, in attuazione di quegli obblighi di assistenza sociale, il cui adempimento si mostra indispensabile per infermità che, come attesta la realtà fattuale, sono sempre più spesso destinate a gravare sulla vita delle famiglie che vedono uno dei loro componenti colpiti dalle suddette malattie. 
           La Cassazione ha rinviato la causa, per nuovo esame, alla Corte d’Appello di Salerno ed ha stabilito, per il giudice del rinvio, il seguente principio di diritto: “L’indennità di accompagnamento, prevista quale misura assistenziale diretta anche a sostenere il nucleo familiare, va riconosciuta, alla stregua dell’art. 1 della legge 11 febbraio 1980 n. 18, a coloro che, pur capaci di compiere materialmente gli atti elementari della vita quotidiana (quali il mangiare, il vestirsi, il pulirsi, ecc.), necessitano di un accompagnatore per versare – in ragione di gravi disturbi della sfera intellettiva e cognitiva addebitabili a forme avanzate di gravi stati patologici – nella incapacità di rendersi conto della portata dei singoli atti che vanno a compiere e dei modi e tempi in cui gli stessi debbano essere compiuti, di comprendere la rilevanza di condotte volte a migliorare – o, quanto meno, a stabilizzare o non aggravare – il proprio stato patologico (condotte volte ad osservare un giornaliero trattamento farmacologico), e di valutare la pericolosità di comportamenti suscettibili di arrecare danni a sé o ad altri.

 

LA TRATTENUTA IRPEF VA APPLICATA SULL’INDENNITA’ DI BUONUSCITA ANCHE SE IL PAGAMENTO VIENE EFFETTUATO CON BUONI POSTALI – L’esenzione fiscale riguarda i titoli e non le operazioni per le quali essi vengono utilizzati (Cassazione Sezione Tributaria n. 1331 del 21 gennaio 2005, Pres. Cristarella Orestano, Rel. Monaci).
           Il Consiglio Nazionale delle Ricerche ha corrisposto alla sua dipendente prof. Anna M. l’indennità di buonuscita in buoni fruttiferi postali, assoggettando il relativo importo alla ritenuta Irpef. L’ex dipendente ha chiesto all’amministrazione finanziaria il rimborso dell’Irpef sulla somma corrispostale in buoni postali, sostenendo che tali titoli non erano soggetti ad imposizione fiscale. Poiché la domanda non è stata accolta ella si è rivolta alla Commissione Tributaria di primo grado, che ha accolto il suo ricorso. Questa decisione è stata riformata dalla Commissione Tributaria Regionale del Lazio che ha ritenuto che l’impiego di buoni postali per il pagamento della buonuscita non comportava esenzione dall’Irpef. La prof. Anna M. ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione impugnata per violazione di legge, affermando che doveva applicarsi in materia la normativa secondo cui i buoni postali erano esenti da ogni forma di imposizione; essa ha rilevato che i titoli, all’atto dell’acquisto, erano stati cointestati a lei e al presidente dell’ente per poi esserle consegnati al momento della cessazione del rapporto.
           La Suprema Corte (Sezione Tributaria n. 1331 del 21 gennaio 2005, Pres. Cristarella Orestano, Rel. Monaci) ha rigettato il ricorso. Le parti (collettive o individuali) possono concordare – ha affermato la Corte – che l’obbligazione nei confronti del prestatore di lavoro, liquidata in denaro, possa essere soddisfatta, invece che mediante moneta contante, anche con titoli rappresentativi del denaro, e, tra l’altro, anche con buoni postali. Alcuni di questi titoli, tra cui appunto i buoni fruttiferi postali, sono, di per sé stessi, esenti per legge da ogni forma di tassazione: ciò non significa, però, che la loro utilizzazione renda esenti dalla tassazione anche le operazioni economiche che vengono effettuate per loro mezzo. Altro è l’esenzione da ogni imposta e tassa dei titoli in sé ed altro è la tassazione delle operazioni in cui vengono impiegati. L’esenzione da ogni tassa ed imposta presente e futura dei buoni fruttiferi postali (e più in generale di tutti i titoli di Stato o garantiti dallo Stato) – ha affermato la Corte – riguarda soltanto i titoli in sé stessi e non le operazioni cui vengano destinati; ad esempio, è possibile corrispondere in titoli di Stato, o in buoni fruttiferi postali, se il venditore lo accetta, il prezzo della compravendita di un immobile; ciò non toglie che l’atto di trasferimento rimanga soggetto all’imposta di registro ed alle altre imposte riscosse contestualmente, come quelle ipotecarie e catastali.
            Altrettanto vale per il pagamento del prezzo di un pacchetto azionario, o di qualsiasi altro bene. Anche queste operazioni rimangono soggette alle imposte cui sono assoggettate normalmente. Allo stesso modo – ha osservato la Corte – è certamente possibile, sempre su accordo delle parti, corrispondere in buoni fruttiferi postali l’importo del trattamento di fine rapporto, o comunque della corrispondente indennità, dovuti al prestatore di lavoro al termine di un rapporto di lavoro subordinato privato o pubblico; ciò non toglie che l’indennità cui si riferisce il pagamento rimanga soggetta alla normale tassazione Irpef. Né può rilevare la circostanza – ha osservato la Corte – che nel caso di specie i buoni fruttiferi postali fossero cointestati anche al dipendente (oltre che al presidente del Consiglio Nazionale delle Ricerche) dato che tale intestazione congiunta ai due nomi aveva solamente la funzione di specificare la destinazione finale del titolo al pagamento dell’indennità finale al dipendente, ed insieme a garantire quest’ultimo – non solo dal punto di vista economico, ma anche sotto il profilo specificamente giuridico – che la somma di cui il titolo è rappresentativo sarebbe utilizzata effettivamente a questo scopo e non stornata per coprire altre spese; finché il rapporto era in corso il dipendente, però, non aveva il possesso materiale e l’effettiva disponibilità del titolo, che rimaneva invece in mano del Consiglio Nazionale delle Ricerche. 
 
 


Il licenziamento per inidoneità fisica è legittimo quando non è prevedibile il recupero dell’idoneità in un tempo ragionevole – Se si tratta di malattia potenzialmente reversibile – La malattia del lavoratore e la sua inidoneità al lavoro sono cause di impossibilità della prestazione lavorativa che hanno natura e disciplina giuridica diverse: la prima ha carattere temporaneo, implica la totale impossibilità della prestazione e determina, ai sensi dell’art. 2110 cod. civ., la legittimità del licenziamento quando ha causato l’astensione dal lavoro per un tempo superiore al periodo di comporto; la seconda ha carattere permanente o, quanto meno, durata indeterminata o determinabile, non implica necessariamente l’impossibilità totale della prestazione e consente la risoluzione del contratto ai sensi degli artt. 1256 e 1463 cod. civ., eventualmente previo accertamento di essa con la procedura stabilita dall’art. 5 della legge 20 maggio 1970 n. 300 (procedura peraltro non necessaria, ben potendo l’inidoneità fisica posta a base del licenziamento risultare, oltre che dalla obiettiva frequenza delle assenze per malattia, anche dalla documentazione prodotta dal lavoratore), indipendentemente dal superamento del periodo di comporto. Naturalmente, quando la inidoneità sopravvenuta non dipende da menomazioni fisiche definitive, ma da una malattia potenzialmente reversibile causa della inidoneità, il giudizio sulla durata della inidoneità è meramente prognostico, ed occorre allora che decorra un congruo lasso di tempo per accertare che non è prevedibile la cessazione della inidoneità fisica in un termine ragionevole (Cassazione Sezione Lavoro n. 1373 del 24 gennaio 2005, Pres. Mercurio, Rel. De Matteis).

 

 


 

Nel procedimento disciplinare devono essere rispettate le esigenze sostanziali del diritto di difesa – Ai fini dell’applicazione del termine di cinque giorni previsto dall’art. 7  St. Lav. – La portata delle garanzie apprestate dall’art. 7 Stat. Lav., secondo cui “il datore di lavoro non può adottare alcun provvedimento disciplinare nei confronti del lavoratore senza avergli preventivamente contestato l’addebito e senza averlo sentito a sua difesa” (secondo comma) e “in ogni caso, i provvedimenti disciplinari più gravi del rimprovero verbale non possono essere applicati prima che siano trascorsi cinque giorni dalla contestazione per iscritto del fatto che vi ha dato causa” (quinto comma) deve essere verificata alla luce dell’indirizzo espresso, con riguardo alla funzione del termine previsto da questa ultima disposizione, dalle Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza 26 aprile 1994 n. 3965, e ribadito con la più recente decisione n. 6900 del 7 maggio 2003. Con tali pronunzie si è affermato che il provvedimento disciplinare può essere legittimamente irrogato anche prima della scadenza del termine suddetto allorché il lavoratore abbia esercitato pienamente il proprio diritto di difesa facendo pervenire al datore di lavoro le proprie giustificazioni, senza manifestare alcuna esplicita riserva di ulteriori produzioni documentali o motivazioni difensive; ciò in considerazione della ratio della normativa in esame, rivolta ad impedire che la irrogazione della sanzione possa avvenire senza che l’incolpato abbia avuto la possibilità di raccogliere e di fornire le prove e gli argomenti a propria giustificazione, sicché il termine previsto indica il tempo massimo che si ritiene presuntivamente idoneo a consentire le difese. In questa prospettiva, in cui acquista rilevanza decisiva la valutazione delle effettive esigenze di difesa, (realizzabili compiutamente anche prima della scadenza del detto termine) l’ulteriore attesa, prima della conclusione del procedimento disciplinare, di un tempo superiore a quello massimo indicato – al fine di consentire su richiesta del dipendente uno sviluppo delle difese già presentate con le giustificazioni scritte – può ritenersi imposta al datore di lavoro da una esigenza di rispetto sostanziale del diritto di difesa dell’incolpato, nel senso che la necessità di accogliere la richiesta di dilazione della conclusione dell’indagine disciplinare si prospetta, come rilevato da Cass. n. 4187/2002, quando l’esigenza suddetta non possa essere soddisfatta altrimenti, in relazione alla incompiutezza – per motivi oggettivi, estranei alla volontà del lavoratore – delle giustificazioni già presentate. La ricostruzione del sistema di garanzie dell’art. 7 Stat. Lav. fornita dalle citate pronunzie delle Sezioni Unite consente di risolvere, indipendentemente dalla questione della modalità temporale di applicazione della sanzione (in relazione alla necessità o meno del decorso del termine di cinque giorni) il diverso problema, che, sotto il profilo sostanziale della garanzia del contraddittorio tra datore di lavoro e dipendente, riguarda l’obbligo del primo di consentire – pur dopo la scadenza del termine suddetto – supplementi di difesa dell’incolpato, anche se la stessa si sia già svolta con l’audizione personale o con la presentazione di giustificazioni scritte. 
           La risposta a questo quesito si fonda sul rilievo, già richiamato, della funzione della norma, finalizzata ad impedire che la sanzione venga applicata senza che il lavoratore abbia potuto fornire le prove e gli argomenti a propria discolpa (con conseguente possibilità di adottare il provvedimento disciplinare quando tale garanzia si sia comunque realizzata); dovendosi considerare, d’altro canto, che la legge non assegna alcun rilievo alla valutazione di queste difese da parte del datore di lavoro, perché il sindacato in ordine alla legittimità della sanzione resta in ogni caso affidato al controllo del giudice.
           Si deve quindi concludere, alla stregua del principio affermato dalla citata sentenza n. 4187/2002, che l’obbligo del datore di lavoro di dar seguito alla richiesta del dipendente di integrare le proprie giustificazioni sussiste solo quando la stessa risponda ad esigenze di difesa non altrimenti tutelabili, in quanto non sia stata possibile la piena realizzazione della garanzia apprestata dalla legge; e la regola enunciata dai precedenti giurisprudenziali richiamati – che esclude la irrogazione della sanzione prima della scadenza del termine di cinque giorni, quando il lavoratore si sia riservato di integrare le proprie giustificazioni – va precisata nel senso che la presentazione di ulteriori difese dopo la scadenza del tempo massimo deve essere consentita solo nell’ipotesi in cui entro questo termine il lavoratore non sia stato in grado di presentare compiutamente la propria confutazione dell’addebito. La valutazione di questo presupposto va operata, come ricordato ancora da Cass. 4187/2002 cit., alla stregua dei principi di correttezza e buona fede che devono regolare l’esercizio del potere disciplinare del datore di lavoro (Cassazione Sezione Lavoro n. 488 del 13 gennaio 2005, Pres. Mercurio, Rel. Miani Canevari).