Protezione dei dati personali ed obbligo di formazione
Ancora una
volta, il legislatore si è reso conto che la formazione degli incaricati,
addetti al trattamento di dati personali, rappresenta una misura di sicurezza
fondamentale.
È questa la ragione per cui nell'allegato B al decreto legislativo numero
196/2003, viene posta in particolare evidenza la obbligatorietà di avviare un
percorso formativo per tutti coloro, che trattano dati personali (punto 19.7).
Questo percorso formativo deve mirare a sensibilizzarli sui rischi, cui i dati
sono soggetti, e sulle misure specifiche che sono in atto nell'azienda.
Ecco il testo letterale della obbligatoria disposizione legislativa: (è
obbligatoria) “la previsione di interventi formativi degli incaricati del
trattamento, per renderli edotti dei rischi che incombono sui dati, delle
misure disponibili per prevenire eventi dannosi, dei profili della disciplina
sulla protezione dei dati personali più rilevanti in rapporto alle relative
attività, delle responsabilità che ne derivano e delle modalità per
aggiornarsi sulle misure minime adottate dal titolare. La formazione è
programmata già al momento dell’ingresso in servizio, nonché in occasione di
cambiamenti di mansioni, o di introduzione di nuovi significativi strumenti,
rilevanti rispetto al trattamento di dati personali”
Come si vede, il legislatore non solo ha imposto l'obbligo di formazione, ma
ha anche dato una scaletta sufficientemente dettagliata delle modalità, con
cui tale percorso formativo deve essere impostato.
Per soddisfare queste esigenze può essere un valido aiuto un supporto
audiovisivo interattivo, che permette di controllare, al termine del percorso
formativo, la efficacia della formazione e la piena comprensione, da parte
dell'incaricato, di tutti i più significativi temi, afferenti alla sicurezza
nel trattamento di dati personali.
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IL PREGIUDIZIO DERIVANTE
AL LAVORATORE DALLA DEQUALIFICAZIONE PROFESSIONALE COMPRENSIVO DELLA LESIONE
DELL’IMMAGINE E DELLA PERDITA DI CHANCES, COSTITUISCE UN DANNO NON
PATRIMONIALE – Il risarcimento deve essere determinato in via
equitativa (Cassazione Sezione Lavoro n. 10157 del 26 maggio 2004, Pres.
Senese, Rel. D’Agostino).
Giuseppe M. dipendente della S.p.A. Autogrill con qualifica
di quadro A, ha svolto l’incarico di direttore del negozio Motta Duomo di
Milano sino all’ottobre del 1991, quando è stato trasferito al più piccolo
esercizio Alemagna di Via Manzoni, con mansioni inferiori a quelle in
precedenza svolte, per ritenuta incompatibilità ambientale derivante da un
procedimento disciplinare, conclusosi successivamente con l’applicazione di
una sanzione conservativa. Sia il trasferimento che il procedimento
disciplinare sono stati dichiarati illegittimi dal Tribunale di Milano con
sentenza n. 5638 del 1995, confermata dalla Cassazione con sentenza n. 3207
del 1998. Successivamente, dopo essersi dimesso, il lavoratore ha chiesto al
Pretore di Milano, tra l’altro, di condannare l’azienda al risarcimento per
l’ingiusta dequalificazione subita. Il Pretore ha rigettato la domanda. Il
Tribunale ha confermato questa decisione, rilevando che il lavoratore non
aveva offerto la prova del danno patrimoniale derivatogli dalla
dequalificazione. Giuseppe M. ha proposto ricorso per cassazione sostenendo
che, essendo stata accertata la dequalificazione da lui subita, il Tribunale
avrebbe dovuto riconoscergli sia il danno alla professionalità in senso
soggettivo, avendo l’illegittimo provvedimento aziendale leso il suo diritto
fondamentale alla libera esplicazione della personalità nel luogo di lavoro,
sia il danno alla professionalità in senso oggettivo, per la minore dimensione
e la minore importanza dell’unità produttiva di destinazione rispetto a quelle
dell’unità di provenienza e per il conseguente irrimediabile impoverimento del
patrimonio professionale; egli ha anche censurato la decisione del Tribunale
di Milano perché non ha riconosciuto il danno alla sua immagine e alla sua
dignità per le modalità umilianti del trasferimento e per la perdita di
autostima ed eterostima, nonché il danno conseguente alla perdita di chances
professionali sia nell’ambito della società, sia sul mercato del lavoro.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 10157 del 26 maggio
2004, Pres. Senese, Rel. D’Agostino) ha accolto il ricorso affermando che il
Tribunale di Milano è incorso in errore negando l’applicazione del criterio
equitativo per la liquidazione del risarcimento e pretendendo dal danneggiato
la prova specifica della diminuzione patrimoniale sofferta. La Corte ha
richiamato la sua giurisprudenza secondo cui la dequalificazione non solo
viola lo specifico divieto dell’art. 2103 cod. civ., ma si traduce in lesione
di un diritto fondamentale del lavoratore avente ad oggetto la libera
esplicazione – garantita dagli artt. 1 e 2 della Costituzione – della sua
personalità anche nel luogo del lavoro, con la conseguenza che il pregiudizio
correlato a siffatta lesione, spiegandosi nella vita professionale e di
relazione dell’interessato, ha un’indubbia dimensione patrimoniale che lo
rende suscettibile di risarcimento, per la cui determinazione e liquidazione
da parte del giudice, può trovare applicazione il criterio equitativo ex art.
1226 cod. civ.
Il danno da dequalificazione (nel quale possono essere
ricompresi come specifici aspetti sia la perdita di chances che il danno
all’immagine) - ha affermato la Corte - rientra, come il danno biologico, nel
danno non patrimoniale; quest’ultimo secondo la più recente giurisprudenza è
infatti comprensivo del danno biologico (inteso come lesione dell’integrità
psico fisica della persona secondo i canoni fissati dalla scienza medica), del
danno morale (tradizionalmente inteso come sofferenza psichica e patema
d’animo sopportati dal soggetto passivo dell’illecito) e della lesione di
interessi costituzionalmente protetti. Infatti - ha osservato la Corte -
secondo tale giurisprudenza, nel vigente assetto dell’ordinamento, nel quale
assume posizione preminente la Costituzione, che all’art. 2 riconosce i
diritti inviolabili dell’uomo, il danno non patrimoniale deve essere inteso
come categoria ampia, comprensiva di ogni ipotesi in cui sia leso un valore
inerente alla persona, che non si esaurisca nel danno morale e che non sia
correlato alla qualifica di reato del fatto illecito ex art. 185 cod. pen.;
unica possibile forma di liquidazione del danno privo delle caratteristiche
della patrimonialità, ha precisato la Corte, è quella equitativa, sicché la
ragione del ricorso a tale criterio è insita nella natura di tale danno e
nella funzione del risarcimento realizzato mediante la dazione di una somma di
danaro che non è reintegratrice di una diminuzione patrimoniale, ma
compensativa di un pregiudizio non economico (cfr. Cass. n. 8827 del 2003,
Cass. n. 8828 del 2003).
I provvedimenti del datore di lavoro che illegittimamente
ledono il diritto del lavoratore alla libera esplicazione della sua
personalità nel luogo di lavoro secondo le mansioni e con la qualifica
spettantigli per legge – ha affermato la Corte – vengono immancabilmente a
ledere l’immagine professionale, la dignità personale e la vita di relazione
del lavoratore, sia in tema di autostima e di eterostima nell’ambiente di
lavoro ed in quello socio familiare, sia in termini di perdita di chances per
futuri lavori di pari livello; la valutazione di siffatto pregiudizio, per sua
natura privo delle caratteristiche della patrimonialità, non può che essere
effettuata dal giudice che alla stregua di un parametro equitativo, essendo
difficilmente utilizzabili parametri economici o reddituali.
PER OTTENERE IL RISARCIMENTO
DEL DANNO DERIVATO DA UN INTERVENTO CHIRURGICO NON E’ NECESSARIO SPECIFICARE I
VARI ASPETTI TECNICI DELLA RESPONSABILITA’ PROFESSIONALE – E’
sufficiente indicare i profili di colpa (Cassazione Sezione Terza Civile n.
9471 del 19 maggio 2004, Pres. Fiduccia, Rel. Travaglino).
A.B., dopo avere subito un
intervento chirurgico di cambiamento di sesso mediante l’asportazione del pene
e la contestuale creazione di una vagina artificiale, ha promosso davanti al
Tribunale Civile di Orvieto un giudizio per accertamento di responsabilità
professionale nei confronti del chirurgo esecutore dell’operazione e della Usl
di appartenenza ed ha chiesto la loro condanna al risarcimento del danno per
le conseguenze negative dell’operazione, sostenendo, in particolare, che la
vagina realizzata era risultata di profondità insufficiente, con conseguente
impossibilità di intrattenere normali rapporti sessuali. I convenuti si sono
difesi sostenendo che il risultato ottenuto era il migliore possibile. I
periti nominati dal Tribunale hanno ravvisato la responsabilità del chirurgo
per varie disfunzioni, tra cui la scarsa aderenza della neovagina ai tessuti
sottostanti. Il Tribunale, in base all’esito dell’accertamento peritale, ha
accolto la domanda, rilevando tra l’altro che non risultava che A.B. avesse
avuto una preventiva informazione circa possibili conseguenze negative
dell’intervento; l’importo del risarcimento è stato determinato,
equitativamente, in misura di duecento milioni di lire. In grado di appello,
la Corte di Perugia ha integralmente riformato questa decisione, rigettando la
domanda di risarcimento, in quanto ha ritenuto che il Tribunale sia incorso in
un vizio procedurale accertando l’esistenza di disfunzioni diverse da quella
specificata nell’atto di citazione, costituita dall’insufficiente lunghezza
della vagina. A.B. ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione
impugnata per difetto di motivazione e violazione di legge.
La Suprema Corte
(Sezione Terza Civile
n. 9471 del 19 maggio 2004, Pres. Fiduccia, Rel.
Travaglino) ha accolto il ricorso. La sentenza, di cui riportiamo il testo
integrale nella Sezione Documenti, ha affrontato,
con ampia motivazione, i temi della responsabilità professionale e dei poteri
del giudice di merito investito della decisione in questa materia. Pur
gravando sull’attore l’onere di allegare i profili concreti di colpa medica
posti a fondamento della proposta azione risarcitoria – ha osservato la Corte
– tale onere non si spinge sino alla necessità di enucleazione ed indicazione
di specifici e peculiari aspetti tecnici di responsabilità professionale,
conosciuti e conoscibili soltanto dagli esperti del settore (chè, diversamente
opinando, si finirebbe per gravare il richiedente di un onere supplementare,
quanto inammissibile, quale quello di richiedere, sempre e comunque, un
accertamento tecnico preventivo onde supportare l’atto introduttivo del
giudizio delle necessarie connotazioni tecnico-scientifiche). E’ sufficiente
la contestazione dell’aspetto colposo dell’attività medica secondo quelle che
si ritengano essere, in un dato momento storico, le cognizioni ordinarie di un
non-professionista che, espletando, peraltro, la professione di avvocato,
conosca (o debba conoscere) l’attuale stato dei possibili profili di
responsabilità del sanitario (omessa informazione delle conseguenze
dell’intervento, adozione di tecniche non sperimentate in luogo di protocolli
ufficiali e collaudati, mancata conoscenza dell’evoluzione, in una
determinata branca, della metodica interventistica nota invece al constans
atque diligens homo, ecc., oltre ai classici criteri di imprudenza,
imperizia e negligenza dell’operatore, i cui aspetti sono, oggi, a loro volta
profondamente mutati sotto l’aspetto definitorio-contenutistico, se si pensa
che la negligenza è comunemente definita come violazione di regole sociali – e
non più, o non soltanto, mera disattenzione consistente nello scarso uso dei
poteri attivi dell’individuo; l’imprudenza è, a sua volta, violazione delle
modalità imposte dalle regole sociali per l’espletamento di certe attività - e
non più, o non soltanto, mancata adozione delle necessarie cautele suggerite
dall’esperienza; l’imperizia, infine, è violazione di regole tecniche di
settori determinati della vita di relazione – e non più, o non soltanto,
l’insufficiente attitudine all’esercizio di arti o professioni). La Cassazione
ha ritenuto che nel caso in esame la domanda iniziale contenesse, quantunque
in nuce, l’indicazione dei profili di colpa poi accertati in
extensum dalla consulenza specialistica disposta in primo grado.
La Suprema
Corte ha rinviato la causa, per nuovo esame, alla Corte di Appello di Perugia.
Il lavoratore può chiedere direttamente all’amministrazione finanziaria il rimborso di trattenute fiscali non dovute, eseguite dall’azienda – Entro il termine di 18 mesi stabilito dalla legge - Ove il lavoratore ritenga che l’azienda abbia operato su somme versategli trattenute per imposte non dovute, egli potrà richiedere direttamente all’amministrazione finanziaria il relativo rimborso, in quanto tale facoltà non è riservata esclusivamente al datore di lavoro. La richiesta di rimborso dovrà essere avanzata nel termine di 18 mesi dall’effettuazione della ritenuta, in base all’art. 38 D.P.R. n. 602/1073 (Cassazione Sezione Tributaria n. 9714 del 21 maggio 2004, Pres. Papa, Rel. Ebner).
SE LA GRAFIA DEL GIUDICE
NON E’
INTELLIGIBILE, LA SENTENZA DEVE ESSERE DICHIARATA NULLA - Per
mancanza di motivazione (Cassazione Sezione Seconda Penale n. 12931 del 17
marzo 2004, Pres. Sirena, Rel. Fumu).
E’ nulla la sentenza la cui motivazione sia
incomprensibile perché vergata a mano con grafia non intelligibile. Invero la
motivazione, che è requisito formale e sostanziale di ogni sentenza, deve
essere idonea a soddisfare l’esigenza di consentire il controllo
sull’itinerario e sugli approdi decisori: ciò al fine di permettere alle parti
che ne hanno diritto di utilizzare consapevolmente gli strumenti di gravame
offerti dalla legge ed al giudice sovraordinato di verificare la fondatezza
dell’impugnazione. A tal fine, nel redigere la parte motiva della decisione,
il giudice deve rendere ostensibili le ragioni delle sue scelte, attraverso
una chiara e completa (ancorché “concisa”) esposizione dei motivi di fatto e
di diritto che le hanno giustificate, dando atto dei risultati acquisiti e dei
criteri adottati nella valutazione delle prove pose a base della decisione,
che devono essere indicate insieme alle ragioni per le quali non sono state
ritenute attendibili quelle contrarie (artt. 192.1 e 546.1, lett. e), cod.
proc. pen.).
Ciò impone che la sentenza
sia redatta con segni grafici di univoca ed agile interpretazione, ancorché
non necessariamente con l’uso della dattilografica o della videoscrittura, che
non è imposto da alcuna norma di legge; ne deriva che l’impossibilità di
intendere, per l’incompresibilità del segno, l’iter argomentativo che ha
condotto al comando concreto del giudice espresso nel dispositivo, equivale
alla mancanza assoluta della motivazione, correlata alla violazione dell’art.
125.3 e sanzionata da nullità denunciabile ai sensi dell’art. 606.1 lett. e),
cod. proc. pen.
LA RIDUZIONE DEI POTERI
DECISIONALI DI UN DIRIGENTE PUO’ COSTITUIRE GIUSTA CAUSA
DI DIMISSIONI – Perché comporta dequalificazione (Cassazione
Sezione Lavoro n. 8589 del 5 maggio 2004, Pres. Mileo, Rel. Lamorgese).
Francesco L., dipendente della banca S.p.A. Sanpaolo IMI
con qualifica di dirigente, ha svolto sino all’ottobre 1997 le mansioni di
direttore della sede milanese e di direttore centrale preposto all’area di
Milano. Successivamente l’azienda lo ha privato dell’incarico di capo area di
Milano assegnandogli le mansioni di vicario del direttore di un’altra area;
egli ha lasciato l’incarico di direttore della sede milanese, ma con riduzione
dei poteri di materia di concessione di crediti. In seguito a ciò egli si è
dimesso senza preavviso. L’azienda gli ha trattenuto, sulle spettanze di fine
rapporto, una somma pari all’indennità sostitutiva del preavviso. Egli ha
chiesto al Pretore di Milano di dichiarare illegittima la trattenuta e di
condannare la banca a pagargli l’indennità sostitutiva del preavviso,
sostenendo di avere subito una dequalificazione tale da costituire giusta
causa di dimissioni, in base all’art. 2119 cod. civ.. L’azienda ha negato
l’esistenza della giusta causa, facendo presente che Francesco L. era rimasto
direttore della sede di Milano, incarico corrispondente alla sua qualifica. Il
Pretore ha accolto le domande in quanto ha ritenuto che i nuovi compiti
assegnati al dirigente fossero meno importanti dei precedenti e che i suoi
poteri decisionali avessero subito una riduzione in ampiezza. La Corte di
Appello di Milano ha confermato questa decisione e la sua motivazione. La
banca ha proposto ricorso per cassazione censurando la sentenza della Corte di
Appello per falsa applicazione dell’art. 2119 cod. civ. e per difetto di
motivazione.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 8589 del 5 maggio
2004, Pres. Mileo, Rel. Lamorgese) ha rigettato il ricorso. La sentenza
impugnata – ha osservato la Corte – ha correttamente affermato la
dequalificazione di Francesco L. in base alla riduzione dei suoi poteri e al
mutamento sostanziale in peius del suo ruolo di dirigente, derivanti dal
passaggio da una posizione di vertice all’incarico di vicario della nuova area
di Milano, con il mantenimento dell’altro incarico di direttore di sede, ma
con facoltà ridotte nella concessione dei fidi alla clientela. La Cassazione
ha ricordato la sua giurisprudenza secondo cui, nell’accertamento della
dequalificazione, deve farsi riferimento all’incidenza della riduzione delle
mansioni sul livello professionale raggiunto dal dipendente e sulla sua
collocazione nell’ambito aziendale (Cass. 19 maggio 2001 n. 6856, Cass. 4
agosto n. 10284); per il dirigente – ha affermato la Corte – occorre
considerare anche la rilevanza del ruolo, tenendo conto che determinate
mansioni per la loro elevatezza non sono suscettibili di essere svolte da più
lavoratori senza scadimento del proprio livello qualitativo.