IL GIUDIZIO DI LEGITTIMITA’ DEL LICENZIAMENTO NON PUO’ ESSERE MOTIVATO CON RIFERIMENTO A CIRCOSTANZE, EMERSE DAL PROCESSO, DIVERSE DA QUELLE ORIGINARIAMENTE CONTESTATE AL LAVORATORE – Anche se vi siano analogie (Cassazione Sezione Lavoro n. 428 del 12 gennaio 2005, Pres. Ciciretti, Rel. Lupi).
            La Bayer s.p.a. ha sottoposto il dipendente Calogero C. a procedimento disciplinare addebitandogli “di non avere effettuato le visite e le percorrenze chilometriche indicate nella Sua richiesta di rimborso spese viaggio e di avere esposto la relativa diaria con particolare riguardo lunedì 26,  mercoledì 28 e venerdì 30 durante i quali Lei non si è recato a Licata, Capobello e Gela essendo invece rimasto a Caltanisetta; di non avere effettuato, nella giornata di giovedì 29 aprile, le visite da Lei indicate nel foglio attività del messe di aprile 1999 e di avere esposto chilometri non percorsi per motivi di lavoro”.
            Il lavoratore si è difeso contestando gli addebiti, ma l’azienda lo ha licenziato. Il Tribunale di Milano, al quale Calogero C. si è rivolto, ha accertato che il lavoratore aveva esposto, nella richiesta di rimborso spese, l’uso di un’auto più grande di quella effettivamente adoprata, circostanza che comportava un maggior rimborso chilometrico. In considerazione di ciò il Tribunale ha ritenuto legittimo il licenziamento osservando che il dipendente si era comunque reso responsabile di “esposizione mendace” dei dati su cui era basata la richiesta di rimborso spese, in tal modo recando lesione irreparabile al rapporto fiduciario con l’azienda. Calogero C. ha proposto appello rilevando, tra l’altro, che  la legittimità del licenziamento non poteva essere affermata con riferimento a fatti diversi da quelli contestatigli nel procedimento disciplinare. La Corte di Appello di Milano ha rigettato l’impugnazione, osservando che il lavoratore era stato licenziato per esposizione mendace di percorrenze chilometriche non eseguite e che in effetti aveva mentito all’azienda, in quanto aveva dichiarato di aver utilizzato un auto più grande di quella effettivamente impiegata. Calogero C. ha proposto ricorso per cassazione censurando la sentenza della Corte di Appello di Milano per vizi di motivazione e violazione di legge.
            La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 428 del 12 gennaio 2005, Pres. Ciciretti, Rel. Lupi) ha accolto il ricorso, in quanto ha ritenuto che la sentenza impugnata si sia posta in contrasto con il principio della immutabilità dei fatti contestati: la valutazione della sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo del licenziamento – ha affermato la Cassazione – non può avvenire su fatti diversi da quelli contestati ed emersi nel corso del giudizio; il rilievo che vi sia un aspetto comune tra i fatti contestati e quelli valutati del giudice non esclude che essi fossero diversi; il giudizio della legittimità del licenziamento deve avere per oggetto i fatti posti a giustificazione del recesso; se all’esito delle indagini istruttorie non risultano provati tali fatti ma altri diversi, la giusta causa dedotta per il recesso va ritenuta insussistente. Il giudice di merito – ha osservato la Cassazione – valutando fatti non contestati, oltre a ledere il diritto di difesa del lavoratore, si è sostituita al datore di lavoro nella valutazione dell’inadempimento. La Suprema Corte ha pertanto cassato la decisione impugnata ed ha rinviato la causa, per nuovo esame alla Corte di Appello di Brescia, fissando per il giudice del rinvio il seguente principio di diritto: “Il controllo del giudice sul corretto esercizio del potere disciplinare, a sensi degli artt. 3 della legge n. 604 del 1966 e 7 della legge n. 300 del 1970, non può avere oggetto fatti , diversi da quelli contestati e recepiti nella motivazione del licenziamento, che siano emersi nella istruzione della causa anche se essi abbiano delle analogie con quelli contestati”.

 

 
IL PATTO DI PROVA DEVE FARE RIFERIMENTO A SPECIFICHE MANSIONI – Non è sufficiente la precisazione di una qualifica se per essa il contratto collettivo prevede diversi profili professionali (Cassazione Sezione Lavoro n. 427 del 12 gennaio 2005, Pres. Sciarelli, Rel. Filadoro).
          Michela C. è stata assunta dalla s.r.l. Mados con patto di prova e con l’attribuzione della qualifica di quinto livello in base al contratto collettivo del settore del commercio. Prima della scadenza del periodo di prova l’azienda ha posto termine al rapporto. La lavoratrice ha impugnato il licenziamento davanti al Pretore di Padova, sostenendo che il patto di prova doveva ritenersi nullo perché la lettera di assunzione non conteneva la specifica indicazione delle mansioni da svolgere. L’azienda si è difesa rilevando che le mansioni erano state indicate con riferimento a quelle previste dalla qualifica di inquadramento. Il Pretore ha annullato il licenziamento, ordinando la reintegrazione della lavoratrice nel posto di lavoro e condannando l’azienda al risarcimento del danno. Questa decisione è stata confermata, in grado di appello, dal Tribunale di Padova che ha rilevato che il quinto livello del commercio indicato nella lettera di assunzione prevedeva ben 28 diversi profili professionali, alcuni dei quali, tra l’altro, articolati in sottoprofili: il riferimento al livello contrattuale, contenuto nella lettera di assunzione, non era pertanto sufficiente ad integrare il requisito della specificazione delle mansioni oggetto del patto di prova. L’azienda ha proposto ricorso per cassazione censurando la sentenza impugnata, tra l’altro, per avere ritenuto che il requisito della forma scritta per il patto di prova dovesse ritenersi esteso anche alla specificazione delle mansioni.
          La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 427 del 12 gennaio 2005, Pres. Sciarelli, Rel. Filadoro) ha rigettato il ricorso, rilevando che il Tribunale di Padova ha correttamente accertato l’impossibilità di individuare il contenuto delle mansioni che la lavoratrice era chiamata ad espletare nel corso del periodo di prova. Il patto di prova apposto al contratto di lavoro – ha affermato la Corte – deve non solo risultare da atto scritto, ma contenere anche la specifica indicazione delle mansioni da espletare, atteso che la facoltà del datore di lavoro di esprimere la propria insindacabile valutazione sull’esito della prova, presuppone che questa debba effettuarsi in ordine a mansioni esattamente identificate ed indicate. A tal fine il riferimento al sistema classificatorio della contrattazione collettiva è sufficiente ad integrare il requisito della specificità dell’indicazione delle mansioni del lavoratore, solo se rispetto alla scala definitoria di categorie, qualifiche, livelli professionali, il richiamato contenuto nel patto di prova è fatto alla nozione più dettagliata

La sottrazione di  clienti, nei rapporti tra avvocati, non configura concorrenza sleale – L’art. 2598 cod. civ. si applica solo agli imprenditori - La sottrazione di clienti, nei rapporti tra avvocati, non può configurare concorrenza sleale in base agli artt. 2598 e segg. cod. civ.  Queste norme infatti sono dirette a reprimere condotte scorrette tenute da soggetti che abbiano la qualità di imprenditori. Nel nostro ordinamento sussiste una netta distinzione tra la libera professione e l’attività di impresa; ciò è desumibile, tra l’altro, con riguardo alla professione di avvocato, dal regime delle incompatibilità di cui all’art. 3, primo comma della legge professionale (n. 36 del 22 gennaio 1934) comprendente, tra gli altri, il divieto di esercizio del commercio in nome proprio o altrui (Cassazione Sezione Terza Civile n. 560 del 13 gennaio 2005, Pres. Duva, Rel. Sabatini).
 

La prescrizione del diritto al risarcimento del danno da omicidio colposo è decennale – Si fa riferimento alla pena massima prevista dal codice penale, senza considerare le attenuanti – In caso di omicidio colposo la prescrizione al diritto al risarcimento del danno è decennale. Infatti, a norma dell’art. 157 n. 3 c.p., si prescrive in dieci anni il reato per il quale la legge stabilisce la pena della reclusione non inferiore ad anni cinque. A norma dell’art. 589 c.p., il massimo della pena per il reato di omicidio colposo è appunto di anni cinque di reclusione. Solo se all’imputato viene concessa una qualche attenuante (anche quelle generiche), la pena massima scende al di sotto dei cinque anni di reclusione, con l’effetto che la prescrizione penale del reato, si matura in anni cinque. Tuttavia detta concessione di attenuante, che influenza il termine della prescrizione penale, è irrilevante in sede civile, poiché ai fini dell’art. 2947 cod. civ., occorre avere riferimento esclusivamente al reato, quale contestato, senza riferimento alla concessione di eventuali attenuanti (Cass. n. 4431/1997 e Cass. n. 12324/1997). Ne consegue che il termine per la prescrizione del diritto al risarcimento del danno, conseguente ad omicidio colposo è di anni dieci, ai sensi della prima parte del comma terzo dell’art. 2947 cod. civ. (Cassazione Sezione Terza Civile n. 375 dell’11 gennaio 2005, Pres. Nicastro, Rel. Segreto).

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Bollette non pagate? Non possono entrare nei sistemi di informazioni creditizie
 
Il Garante per la protezione dei dati personali (Newsletter del 20-26 dicembre 2004) ha ricordato che le informazioni relative a bollette telefoniche non pagate e contratti di telefonia in essere non possono entrare nei sistemi di informazioni creditizie. Sul punto, l'Autorita' Garante, ha reso noto di aver assunto recentemente una decisione nella quale, in accoglimento del ricorso di un cittadino, ha disposto la cancellazione delle informazioni non pertinenti negli archivi di una "centrale rischi" privata, e relative ad alcuni dati che lo riguardavano (richiesta di abbonamento ad una utenza telefonica mobile).

 
 
 
 
illegittima la sanzione amministrativa se manca l'audizione richiesta dall'interessato
La Prima Sezione Civile della Corte di Cassazione (Sent. n. 13505/2004), in riferimento all'applicazione delle sanzioni amministrative pecuniarie, ha stabilito che la mancata audizione del presunto trasgressore (che ne abbia fatto richiesta), da parte dell'Autorita' competente a ricevere il rapporto, costituendo violazione di una regola procedimentale prevista dall'art. 18 della legge 24 novembre 1981, n. 689, determina l'illegittimita' dell'ordinanza ingiunzione emanata dalla stessa autorita' amministrativa. I Giudici di Piazza Cavour hanno infatti precisato che si tratta di un vizio cagionato dalla violazione di regole procedimentali (violazione di legge) riguardanti la sua adozione e che da cio' ne consegue che "il positivo accertamento della sussistenza di tale violazione comporta l'annullamento dell'ordinanza (e non la declaratoria della sua nullita')".
 

 
Responsabilita' medica: al via lo "sportello di conciliazione
Il Presidente della Camera di Conciliazione di Roma e il Presidente dell'Ordine Provinciale di Roma dei medici chirurgici e degli odontoiatri hanno reso noto di aver sottoscritto una Convenzione che, in via sperimentale, consentira' a medici e cittadini di ricorrere ad un "patto di conciliazione" per la soluzione, in tempi rapidi, di controversie in materia sanitaria. A partire dal 1 gennaio 2005 sara' quindi aperto a Roma uno "Sportello di conciliazione" (numero verde 800.90.50.99) che si occupera' di dirimere, in via amichevole e stragiudiziale, eventuali controversie tra pazienti e medici che non operano nelle strutture pubbliche. Lo sportello, operativo per il momento solo per Roma e provincia, trattera' controversie di natura civilistica di valore non superiore a 25.000 Euro che abbiano ad oggetto casi di lamentata malasanita' verificati dopo il primo gennaio 2003.

 
Codice della strada: l'ordinanza di rigetto del prefetto deve essere motivata
La Prima Sezione Civile della Corte di Cassazione (Sent. 519/2005) ha stabilito che "ove l'interessato si sia avvalso della facolta' di proporre il ricorso al Prefetto ex articoli 203 e 204 del Cds, l'ordinanza ingiunzione, implicandone il rigetto, deve essere a pena di illegittimita', motivata, sia pure succintamente, sia in relazione alla sussistenza della violazione, sia in relazione alla infondatezza dei motivi allegati con il ricorso". I Giudici di Piazza Cavour hanno precisato che "la ratio di tale normativa e', infatti, quella di risolvere, per quanto possibile, dette controversie in sede amministrativa evitando – nell'interesse pubblico e dei soggetti direttamente interessati – l'instaurazione di processi di opposizione lunghi e costosi, secondo quanto – e nei limiti in cui – e' consentito alla Costituzione" e che "tale scopo resterebbe frustrato ove si negasse ogni rilievo alla mancata motivazione sulle doglianze fatte valere in tale sede, in difformita' dall'esplicito dettato normativo e, comunque, dal principio generale secondo il quale la violazione delle norme procedimentali attinenti alla formazione degli atti amministrativi ne determina la illegittimita'".

 Cassazione: la mancata corresponsione dell'assegno di mantenimento non determina di per se' responsabilita' penale ai sensi
La mancata o minore corresponsione dell'assegno stabilito dal giudice civile non e' di per se' sufficiente a dimostrare la responsabilita' penale ai sensi dell'art. 570 del Codice Penale se non viene fornita la prova che, in ragione della omissione, siano venuti meno i mezzi di sussistenza all'avente diritto. È quanto ha di recente stabilito la Sesta Sezione Penale della Cassazione (Sent. n. 37137/2004) precisando che l'elemento materiale del reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare consiste nel far mancare ai soggetti in esso indicati i "mezzi di sussistenza" che, per consolidata giurisprudenza, vanno individuati in cio' che e' strettamente indispensabile alla vita, come il vitto, l'abitazione, i canoni per le ordinarie utenze, i medicinali, il vestiario, le spese per l'istruzione dei figli e non si identificano con gli "alimenti" poiche' in quest'ultima nozione rientra anche cio' che e' soltanto utile o conforme alla condizione dell'alimentando oltre che proporzionale alle sostanze dell'obbligato. Non sussiste pertanto alcuna correlazione tra mezzi di sussistenza e assegno di mantenimento fissato dal giudice civile in sede di separazione.

 
Cassazione: la sostituzione della targa di un'auto e' reato di riciclaggio
La Seconda Sezione Penale della Corte di Cassazione (Sent. n. 41459/2004) ha stabilito che "la sostituzione della targa di un'autovettura, che costituisce il piu' significativo, immediato e utile dato di collegamento della res con il proprietario che ne e' stato spogliato, ovvero la manomissione del suo numero di telario, devono riternersi operazioni tese ad ostacolare l'identificazione della provenienza delittuosa della cosa ed integrano, pertanto, il reato di riciclaggio di cui all'art. 648-bis cod. pen". I Giudici del Palazzaccio hanno precisato che "con tale disposizione, infatti, il legislatore ha voluto reprimere sia le attivita' che si esplicano sul bene trasformandolo o modificandolo parzialmente, sia quelle altre che, senza incidere sulla cosa ovvero senza alterarne i dati esteriori, sono comunque di ostacolo per la ricerca della sua provenienza delittuosa".