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IL MOBBING SI ESPLICA
NELL’ATTACCO CONCENTRICO DEL GRUPPO SUL PIU’ DEBOLE – L’azienda ne
risponde se non lo impedisce (Cassazione Sezione Lavoro n. 18262 del 29 agosto
2007, Pres. Mercurio, Rel. La Terza).
Alberto L. dipendente della Banca Popolare di Novara
ha promosso, nei confronti dell’azienda, un giudizio davanti al Tribunale di
Roma diretto, tra l’altro, ad ottenere il risarcimento del danno alla salute per
essere stato oggetto di mobbing, concretatosi in continui scherzi verbali e
azioni di disturbo da parte dei colleghi, facendo presente che il suo superiore
diretto, pur essendo a conoscenza di questi comportamenti, non si era adoperato
per la loro cessazione. Il Tribunale ha rigettato la domanda. La Corte di
Appello di Roma ha emesso una prima sentenza non definitiva, con la quale ha
accertato l’illegittimità del trattamento subito da Alberto L. e la
responsabilità del datore di lavoro. Questa decisione è passata in giudicato
perché la Suprema Corte ha rigettato il ricorso proposto contro di essa alla
banca. La Corte di Roma ha quindi proseguito il giudizio, ammettendo una
consulenza tecnica medico-legale al fine di accertare l’esistenza del nesso
causale tra la situazione lavorativa e le patologie denunciate e di quantificare
il danno. Una prima consulenza si è risolta negativamente per il lavoratore. La
Corte di Roma, ritenendo che il giudizio dei periti non fosse stato
adeguatamente motivato, ne ha disposta una seconda, che si è conclusa con la
diagnosi di “disturbo post traumatico da stress” ed ha ritenuto tale patologia
compatibile con una situazione di mobbing, quantificando il danno biologico
nella misura del 10%. Il secondo collegio peritale ha tratto la prova del nesso
causale dall’assenza di antecedenti psichiatrici nella storia del lavoratore e
dalla insorgenza dei disturbi nel giugno 1996, nel quadro di una reazione
all’ambiente ed alle condizioni di lavoro particolarmente frustranti; ha
rilevato che eventuali antecedenti della personalità, tali da rendere il
lavoratore più fragile non potevano impedire il configurarsi del mobbing, che si
esplica proprio nell’assalto concentrico del gruppo sul più debole. La Corte di
Appello ha affermato poi che il danno biologico o danno alla salute cagionato
dal mobbing, attenendo alla lesione dell’integrità psico-fisica, non poteva che
essere liquidato in via equitativa, e, avuto riguardo alla percentuale di
invalidità permanente del 10% accertata dal collegio peritale, nonché alle
tabelle in uso, ha condannato la banca al pagamento a tale titolo della somma
onnicomprensiva di trentasettemila euro, oltre interessi di legge dalla data
della sentenza al saldo. La banca ha proposto ricorso per cassazione censurando
la decisione della Corte di Roma per averle, tra l’altro, attribuito il ruolo di
“mobber” e per non avere ravvisato errori e lacune nella consulenza medica.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 18262 del 29
agosto 2007, Pres. Mercurio, Rel. La Terza) ha rigettato il ricorso. La
responsabilità della banca – ha osservato la Corte – è stata correttamente
ravvisata non già in quanto soggetto direttamente agente a danno del proprio
dipendente, ma per non essersi attivata per la cessazione dei comportamenti
scorretti posti in essere dai suoi collaboratori, il che è però sufficiente per
radicare il suo obbligo al risarcimento del danno.
Per quanto attiene alla consulenza, la Cassazione ha
rilevato che il collegio peritale ha ben tenuto presente i tratti della
personalità che rendevano il periziando particolarmente fragile, ma ha anche
ritenuto che detta fragilità non valesse ad interrompere il collegamento
eziologico tra la affezione riscontrata e le molestie subite, avendo precisato
che una eventuale preesistenza di disturbi psichici poteva avere un peso
particolare e peculiare nella valutazione del danno, non nella determinazione
del nesso di casualità.
L’APPARECCHIATURA DI CONTROLLO SULLE USCITE DALL’AUTORIMESSA AZIENDALE, SE
NON E’ STATA INSTALLATA CON IL CONSENSO DELLE RAPPRESENTANZE SINDACALI, NON PUO’
ESSERE UTILIZZATA PER ACCERTARE LA VIOLAZIONE, DA PARTE DEL LAVORATORE,
DELL’OBBLIGO DI PRESENZA IN AZIENDA
– In base all’art.
4 St. Lav. (Cassazione Sezione Lavoro n. 15892 del 17 luglio 2007, Pres. Senese,
Rel. Stile).
Sergio P. dipendente
dell’Eni S.p.A. è stato sottoposto a procedimento disciplinare e licenziato per
essersi più volte allontanato dal posto di lavoro senza permesso. L’infrazione è
stata scoperta perché il lavoratore, per uscire e rientrare durante l’orario di
lavoro, ha utilizzato la sua autovettura, parcheggiata in un’autorimessa
aziendale, azionando, per superare la sbarra posta ai varchi del locale, un
apposito “badge”, i cui dati sono stati registrati da un’apparecchiatura di
controllo. Sergio P. ha impugnato il licenziamento davanti al Tribunale di
Milano sostenendo che i dati relativi alle sue uscite non erano utilizzabili, in
quanto ottenuti dall’azienda mediante un’apparecchiatura installata senza
accordo con le rappresentanze sindacali aziendali, in violazione dell’art. 4, 2°
comma, St. Lav. secondo cui gli impianti e le apparecchiature di controllo che
siano richiesti da esigenze organizzative e produttive ovvero dalla sicurezza
del lavoro, ma dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza
dell’attività dei lavoratori possono essere installati soltanto previo accordo
con le organizzazioni sindacali aziendali. Il Tribunale ha ritenuto che in
effetti l’azienda sia incorsa nella denunciata violazione dell’art. 4, 2° comma
St. Lav. e pertanto ha annullato il licenziamento, ordinando la reintegrazione
di Sergio P. nel posto di lavoro condannando l’Eni al risarcimento del danno.
L’azienda ha proposto appello sostenendo che l’apparecchiatura installata ai
varchi dell’autorimessa non poteva ritenersi rientrante tra quelle previste
dall’art. 4 St. Lav.
La Corte d’Appello di
Milano ha accolto l’impugnazione e, in totale riforma della sentenza di primo
grado, ha dichiarato legittimo il licenziamento in quanto ha ritenuto che il
controllo vietato dall’art. 4 St. Lav. sia soltanto quello “continuo del
comportamento del lavoratore o comunque attuabile in qualsiasi momento a
discrezione della direzione aziendale”. Sergio P. ha proposto ricorso per
cassazione, censurando la decisione della Corte di Milano per vizi di
motivazione e violazione di legge.
La Suprema Corte (Sezione
Lavoro n. 15892 del 17 luglio 2007, Pres. Senese, Rel. Stile) ha accolto il
ricorso. L’art. 4 legge n. 300/70, la cui violazione è penalmente sanzionata ai
sensi dell’art. 38 della stessa legge – ha affermato la Corte – fa parte di
quella complessa normativa diretta a contenere in vario modo le manifestazioni
del potere organizzativo e direttivo del datore di lavoro che, per le modalità
di attuazione incidenti nella sfera della persona, si ritengono lesive della
dignità e della riservatezza del lavoratore; detto art. 4, infatti, sancisce, al
suo primo comma, il divieto di utilizzazione di mezzi di controllo a distanza,
tra i quali, in primo luogo, gli impianti audiovisivi, sul presupposto –
espressamente precisato nella “Relazione ministeriale” – che la vigilanza sul
lavoro, ancorché necessaria nell’organizzazione produttiva, vada mantenuta in
una dimensione “umana”, e cioè non esasperata dall’uso di tecnologie che possono
rendere la vigilanza stessa continua e anelastica, eliminando ogni zona di
riservatezza e di autonomia nello svolgimento del lavoro. Lo stesso articolo,
tuttavia, al secondo comma, prevede che esigenze organizzative, produttive
ovvero di sicurezza del lavoro possano richiedere l’eventuale installazione di
impianti ed apparecchiature di controllo, dai quali derivi anche la possibilità
di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori. In tal caso – ha osservato
la Corte – è prevista una garanzia procedurale a vari livelli, essendo la
installazione condizionata all’accordo con le rappresentanze sindacali aziendali
o con la commissione interna, ovvero, in difetto, all’autorizzazione
dell’Ispettorato del lavoro; in tal modo il legislatore ha inteso contemperare
l’esigenza di tutela del diritto dei lavoratori a non essere controllati a
distanza e quello del datore di lavoro, o, se si vuole, della stessa
collettività, relativamente alla organizzazione, produzione e sicurezza del
lavoro, individuando una precisa procedura esecutiva e gli stessi soggetti ad
essa partecipi.
Nel caso di specie – ha
rilevato la Cassazione – la società, al fine di agevolare i propri dipendenti
muniti di autovettura, aveva predisposto per essi un locale garage ove
posteggiarla durante l’orario lavorativo, inserendo, tuttavia, un congegno di
sicurezza volto a consentire l’ingresso a tale garage solo mediante un
meccanismo elettronico attivato da un tesserino badge
personale assegnato a ciascun dipendente, lo stesso che attivava gli ingressi
agli uffici; oltre a consentire l’elevazione della sbarra di ingresso al (e
uscita dal) garage, il meccanismo rilevava, dal badge, e registrava l’identità
di chi passava nonché l’orario del passaggio. Il che permetteva, mediante
l’incrocio di tali dati con quelli rilevati elettronicamente all’ingresso degli
uffici, di controllare il rispetto o non degli orari di entrata e uscita e
presenza sul luogo di lavoro da parte dei dipendenti. Questa apparecchiatura di
controllo – ha osservato la Corte – pur essendo stata predisposta per il
vantaggio dei dipendenti, era utilizzabile anche in funzione di controllo
dell’osservanza da parte di questi dei loro doveri di diligenza nel rispetto
dell’orario di lavoro e della stessa correttezza della esecuzione della
prestazione lavorativa; tale apparecchiatura – a differenza di quella analoga
installata agli ingressi dell’ufficio – non era stata concordata con le
rappresentanze sindacali, né era stata autorizzata dall’Ispettorato del lavoro.
Secondo la Corte di
Appello – ha rilevato la Cassazione – la società, nel caso concreto, non avrebbe
agito in violazione del menzionato art. 4, 2° comma, poiché “la rilevazione dei
medesimi dati da altro varco non è in sé modalità occulta e insidiosa di
controllo, né invade la dignità e la riservatezza del lavoratore nello
svolgimento dell’attività; non riguarda, inoltre, aspetti della prestazione
diversi da quelli per i quali già avveniva il controllo con il medesimo badge
(nominativo, orario di entrata e uscita al varco)”; tale assunto –
fondamentalmente volto ad escludere dall’ambito del divieto del controllo a
distanza dell’attività lavorativa posto dall’art. 4 citato i meccanismi di
rilevazione dei dati di entrata ed uscita dall’azienda – non appare
condivisibile.
Ed invero – ha affermato
la Suprema Corte – posto, come sembra indubitabile, in mancanza di indicazioni
di segno contrario, che il riferimento all’attività lavorativa, oggetto della
fattispecie astratta, non riguarda solo le modalità del suo svolgimento, ma
anche il quantum della prestazione, il controllo sull’orario di lavoro,
risolvendosi in un accertamento circa la quantità di lavoro svolto, si inquadra,
per ciò stesso, in una tipologia di accertamento pienamente rientrante nella
fattispecie prevista dal secondo comma del richiamato art. 4.
Né l’insopprimibile
esigenza di evitare condotte illecite da parte dei dipendenti – ha aggiunto la
Cassazione – può assumere portata tale da giustificare un sostanziale
annullamento di ogni forma di garanzia della dignità e riservatezza del
lavoratore; consegue a tale rilievo la necessità, ex art. 4, 2° comma dello St.
Lav., che l’installazione della contestata apparecchiatura sia oggetto di
accordo con le r.s.a. o consentita dall’intervento dell’ufficio pubblico,
affinché i dipendenti ne possano avere piena conoscenza e possano eventualmente
essere stabilite in maniera trasparente misure di tutela della loro dignità e
riservatezza. Nel caso di specie – ha osservato la Corte – costituisce
circostanza divenuta pacifica, in seguito alla espletata istruttoria in sede di
merito, che nessun accordo, neppure tacito, è al riguardo intervenuto tra la
direzione aziendale e le r.s.a. e non è stato in alcun modo interessato
l’ufficio pubblico in sede di istallazione e funzionamento delle apparecchiature
in questione, che consentono, per i rilievi appena esposto, “la possibilità di
controllo a distanza dell’attività dei lavoratori”.
Per tale ragione – ha
concluso la Cassazione – il controllo operato nei confronti del ricorrente,
mediante l’incrocio dei dati, legittimamente acquisiti in quanto comunque
concordati, rilevati agli ingressi dell’ufficio con quelli registrati alla
sbarra di passaggio del garage aziendale, è stato effettuato illegittimamente e
quindi i risultati di tale controllo sull’attività di Sergio P. non possono
essere posti a fondamento dell’intimato licenziamento. La Suprema Corte ha
cassato la sentenza impugnata e pronunciando nel merito, ex art. 384 cod. proc.
civ., ha annullato il licenziamento condannando l’azienda a reintegrare il
ricorrente nel suo posto di lavoro ed a risarcirgli il danno. La Corte peraltro
ha disposto la compensazione tra le parti delle spese dell’intero processo in
considerazione della condotta tenuta dal lavoratore, definita “tutt’altro
che commendevole”.
Chi
lavora tutti i giorni della settimana ha diritto a due distinte indennità:
una per la maggiore penosità della prestazione domenicale e l’altra per non
avere fruito del riposo dopo sei giorni consecutivi di lavoro – Anche se il
contratto collettivo non lo prevede -
Al lavoratore turnista,
che esplichi la propria attività con spostamento del riposo settimanale in un
giorno diverso dalla domenica e con una cadenza variabile, per cui detto riposo
intervenga oltre il sesto giorno lavorativo, spetta, nonostante la fruizione di
riposo compensativo, una maggiorazione sia per maggiore penosità del lavoro
svolto di domenica, sia per la privazione della pausa destinata al recupero
delle energie psico-fisiche con cadenza settimanale, salvo che la disciplina
contrattuale preveda indennità o benefici destinati a compensare la maggiore
penosità sia del lavoro domenicale che di quello prestato oltre il sesto giorno.
La
maggiorazione per il lavoro prestato di domenica trova il suo fondamento
legislativo, anche in mancanza di disposizione contrattuale e nonostante il
previsto riposo compensativo, nell’art. 2109 primo comma cod. civ. il quale, nel
prescrivere che il prestatore di lavoro ha diritto ad un giorno di riposo
settimanale “di regola coincidente con la domenica”, implicitamente attribuisce
al giorno della domenica una valenza superiore a quello degli altri giorni della
settimana, recependo il consolidato costume sociale che vede nella domenica il
giorno dedicato dal lavoratore al riposo ed alle attività sociali e culturali.
Conseguentemente la giurisprudenza della Suprema Corte ha sempre riconosciuto al
lavoratore che per legittime esigenze aziendali ha prestato lavoro nel giorno di
domenica il diritto ad una maggiorazione di retribuzione per la maggiore
penosità del lavoro domenicale a titolo indennitario.
A non diverse
conclusioni deve pervenirsi in relazione al lavoro prestato oltre il sesto
giorno consecutivo. Per giurisprudenza ormai costante della Suprema Corte, il
lavoro prestato oltre il sesto giorno consecutivo ha, rispetto a quello scandito
da pause aventi la normale cadenza settimanale, una gravosità maggiore alla
quale deve corrispondere una maggiore retribuzione. Sul fondamento di tale
maggiorazione la Corte ha avuto modo di precisare, secondo un orientamento
prevalente, che essa è dovuta a titolo retributivo in base al principio di
proporzionalità di cui all’art. 36 Cost., senza che sia richiesta la prova del
danno. Secondo altro orientamento il compenso sarebbe dovuto a titolo di
risarcimento del danno per l’inadempimento contrattuale del datore di lavoro.
Secondo altro orientamento ancora, che qui si condivide, la legittimità, a norma
dell’art. 5 della legge n. 370 del 1934, dello spostamento del riposo
settimanale in un giorno diverso dalla domenica, anche con una cadenza variabile
per cui detto riposo intervenga oltre il sesto giorno lavorativo, non esclude
che al lavoratore sia dovuto, in relazione all’attività lavorativa del settimo
giorno consecutivo e nonostante il godimento di un riposo compensativo oltre
tale giorno, un compenso, determinabile anche equitativamente, a titolo non di
risarcimento, ma di indennizzo, per la privazione, pur legittima, della pausa
destinata al recupero delle energie psico-fisiche; il diritto a tale prestazione
indennitaria – che è satisfattiva di un pregiudizio diverso da quello della
particolare penosità del lavoro prestato di domenica con fruizione del riposo
compensativo in un giorno diverso nell’arco della settimana – non è escluso
dalla circostanza che la disciplina collettiva preveda un particolare
trattamento retributivo per la prestazione lavorativa domenicale, salvo che tale
trattamento risulti destinato a compensare, oltre la penosità del lavoro
festivo, anche l’usura dell’attività lavorativa prestata il settimo giorno
consecutivo; ne consegue che nella determinazione dell’indennizzo di un
peculiare sacrificio.
Nonostante le
diverse soluzioni date dalla giurisprudenza al fondamento della maggiorazione in
esame, sta di fatto che tutte le decisioni della Suprema Corte concordano nel
ritenere che, anche in mancanza di una espressa previsione contrattuale, il
lavoro prestato oltre il sesto giorno consecutivo deve essere retribuito in
misura maggiore rispetto a quello ordinario. Questa soluzione deve essere
confermata, in mancanza di nuovi argomenti che inducano ad una riconsiderazione
del problema (Cassazione Sezione Lavoro n. 18708 del 6 settembre 2007, Pres. De
Luca, Rel. D’Agostino).
Il “mobbing” può configurare il reato
di maltrattamenti – In base all’art. 572 C.P. – Con la nozione (delineatasi
nella esperienza giudiziale giuslavoristica) di mobbing si individua la
fattispecie relativa ad una condotta che si protragga nel tempo con le
caratteristiche della persecuzione, finalizzata all’emarginazione del
lavoratore, onde configurare una vera e propria condotta persecutoria posta in
essere dal preposto sul luogo di lavoro.
La condotta di mobbing suppone non tanto un singolo atto lesivo, ma
una mirata reiterazione di una pluralità di atteggiamenti, anche se non
singolarmente connotati da rilevanza penale, convergenti sia nell’esprimere
l’ostilità del soggetto attivo verso la vittima sia nell’efficace capacità di
mortificare ed isolare il dipendente nell’ambiente di lavoro.
Pertanto la prova della relativa responsabilità deve essere
verificata procedendosi alla valutazione complessiva degli episodi dedotti in
giudizio come lesivi, che può essere dimostrata per la sistematicità e durata
dell’azione nel tempo, dalle sue caratteristiche oggettive di persecuzione e
discriminazione risultanti specificamente da una connotazione emulativa e
pretestuosa.
La figura di reato maggiormente prossima ai connotati
caratterizzanti il c.d. mobbing è quella descritta dall’art. 572 codice penale
che punisce con la reclusione da 1 a 5 anni chiunque maltratta una persona
sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione,
istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio della professione o di
un arte.
Ove nel capo d’imputazione
non siano ravvisabili i parametri di frequenza e di durata nel tempo delle
azioni ostili poste in essere, non è dato valutare il loro complessivo carattere
persecutorio e discriminatorio (Cassazione Sezione Quinta Penale n. 33624 del 29
agosto 2007, Pres. Pizzati, Rel. Sandrelli).
La lunga durata
della trasferta non esclude il diritto del lavoratore a percepire la relativa
indennità – Anche se sia seguita da trasferimento –
La trasferta del
lavoratore subordinato, dalla quale consegue il diritto a percepire la relativa
indennità, si caratterizza in quanto comporta un mutamento temporaneo del luogo
di esecuzione della prestazione, nell’interesse e su disposizione unilaterale
dal datore di lavoro. Essa pertanto non è esclusa né dalla eventuale
disponibilità manifestata dal lavoratore, né dalla sua durata per un tempo
apprezzabilmente lungo e neppure dalla coincidenza del luogo della trasferta con
quello del successivo trasferimento, senza soluzione di continuità (Cassazione
Sezione Lavoro n. 16136 del 20 luglio 2007, Pres. Mattone, Rel. Balletti).
Lo
svolgimento delle mansioni superiori dà diritto alla promozione anche in
mancanza del titolo di studio previsto dal contratto collettivo per la qualifica
più elevata – In base all’art. 2103 cod. civ. –
La mancanza del titolo di
studio o altro requisito analogo previsto dal contratto collettivo per
l’attribuzione di una qualifica superiore non esclude l’acquisibilità della
medesima ai sensi dell’art. 2103, primo comma, cod. civ, nel caso di effettivo
esercizio delle relative mansioni per il periodo minimo prescritto. Tuttavia
l’esercizio delle mansioni corrispondenti alla qualifica superiore conferita
resta precluso qualora il titolo di studio o altro requisito analogo sia
richiesto, da norme inderogabili, per lo svolgimento di determinate attività
(Cassazione Sezione Lavoro n. 17940 del 23 agosto 2007, Pres. Sciarelli, Rel. De
Matteis).