LA DEQUALIFICAZIONE DEL SINDACALISTA PUO’ COSTITUIRE COMPORTAMENTO ANTISINDACALE – In base all’art. 28 St. Lav. (Cassazione Sezione Lavoro n. 17948 del 23 agosto 2007, Pres. Sciarelli, Rel. Celentano).
                   Davide V., dipendente della s.p.a. La Vigile San Marco, inquadrato nel quarto livello del c.c.l. di categoria e dirigente della rappresentanza sindacale aziendale UGL, all’inizio del 2000 è stato privato delle mansioni, in precedenza assegnategli, di addetto alla centrale operativa e destinato in via continuativa a compiti di mero piantonamento. Sia il lavoratore che il suo sindacato hanno contestato la decisione aziendale, facendo presente che essa aveva comportato una dequalificazione, anche perché i nuovi compiti non comportavano l’utilizzo della strumentazione tecnologicamente avanzata che Davide V. in precedenza azionava come addetto alla centrale operativa. L’azienda non ha revocato il provvedimento. La segreteria provinciale di Padova della UGL ha proposto davanti al Tribunale di Padova, unitamente a Davide V., un ricorso per repressione di comportamento antisindacale in base all’art. 28 St. Lav. sostenendo che il prolungato demansionamento del ricorrente era lesivo dell’immagine del sindacato da lui rappresentato e si rifletteva negativamente sulla possibilità di svolgimento delle sue funzioni di rsa. Il Tribunale ha accolto la domanda, ordinando all’azienda di cessare la condotta denunciata; l’opposizione proposta dalla società contro questo provvedimento è stata rigettata. La Corte di Appello di Venezia ha confermato la sentenza di primo grado; “il perdurare del demansionamento di un rappresentante sindacale aziendale – ha osservato la Corte – sostanzia oggettivamente una condotta antisindacale, lesiva dell’immagine del sindacato rappresentato e tale fa farlo apparire sostanzialmente privo di peso all’interno dell’azienda così inibendo, e comunque riducendo l’autorevolezza e la credibilità del medesimo e di conseguenza la possibilità di svolgimento materiale dell’attività sindacale e di proselitismo tra i lavoratori.
                   L’azienda ha proposto ricorso per cassazione, affermando, tra l’altro, che la Corte di Venezia non aveva spiegato le ragioni per le quali il demansionamento avrebbe inibito o ridotto l’attività sindacale del r.s.a. e di conseguenza del sindacato cui egli apparteneva; essa ha inoltre ha sostenuto che, per potere definire antisindacale il comportamento aziendale, la Corte di Appello avrebbe dovuto accertare l’esistenza dell’intento di nuocere il sindacato.
                   La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 17948 del 23 agosto 2007, Pres. Sciarelli, Rel. Celentano) ha rigettato il ricorso, osservando che la Corte di Venezia, riferendosi alla lesione dell’immagine del sindacato e della credibilità del sindacalista, ha adeguatamente motivato la sua decisione. Per quanto concerne il denunciato mancato accertamento dell’elemento soggettivo della condotta aziendale, la Cassazione ha confermato il suo orientamento secondo cui, per integrare gli estremi della condotta antisindacale di cui all’art. 28 della legge n. 300 del 1970, è sufficiente che il comportamento controverso leda oggettivamente gli interessi collettivi di cui sono portatrici le organizzazioni sindacali, non essendo necessario uno specifico intento lesivo da parte del datore di lavoro, né nel caso di condotte consistenti nell’illegittimo diniego di prerogative sindacali, né nel caso di condotte non tipizzate e al limite in astratto lecite, ma in concreto oggettivamente idonee, nel risultato, a limitare la libertà sindacale.

 

IL MOBBING SI ESPLICA NELL’ATTACCO CONCENTRICO DEL GRUPPO SUL PIU’ DEBOLE – L’azienda ne risponde se non lo impedisce (Cassazione Sezione Lavoro n. 18262 del 29 agosto 2007, Pres. Mercurio, Rel. La Terza).
                   Alberto L. dipendente della Banca Popolare di Novara ha promosso, nei confronti dell’azienda, un giudizio davanti al Tribunale di Roma diretto, tra l’altro, ad ottenere il risarcimento del danno alla salute per essere stato oggetto di mobbing, concretatosi in continui scherzi verbali e azioni di disturbo da parte dei colleghi, facendo presente che il suo superiore diretto, pur essendo a conoscenza di questi comportamenti, non si era adoperato per la loro cessazione. Il Tribunale ha rigettato la domanda. La Corte di Appello di Roma ha emesso una prima sentenza non definitiva, con la quale ha accertato l’illegittimità del trattamento subito da Alberto L. e la responsabilità del datore di lavoro. Questa decisione è passata in giudicato perché la Suprema Corte ha rigettato il ricorso proposto contro di essa alla banca. La Corte di Roma ha quindi proseguito il giudizio, ammettendo una consulenza tecnica medico-legale al fine di accertare l’esistenza del nesso causale tra la situazione lavorativa e le patologie denunciate e di quantificare il danno. Una prima consulenza si è risolta negativamente per il lavoratore. La Corte di Roma, ritenendo che il giudizio dei periti non fosse stato adeguatamente motivato, ne ha disposta una seconda, che si è conclusa con la diagnosi di “disturbo post traumatico da stress” ed ha ritenuto tale patologia compatibile con una situazione di mobbing, quantificando il danno biologico nella misura del 10%. Il secondo collegio peritale ha tratto la prova del nesso causale dall’assenza di antecedenti psichiatrici nella storia del lavoratore e dalla insorgenza dei disturbi nel giugno 1996, nel quadro di una reazione all’ambiente ed alle condizioni di lavoro particolarmente frustranti; ha rilevato che eventuali antecedenti della personalità, tali da rendere il lavoratore più fragile non potevano impedire il configurarsi del mobbing, che si esplica proprio nell’assalto concentrico del gruppo sul più debole. La Corte di Appello ha affermato poi che il danno biologico o danno alla salute cagionato dal mobbing, attenendo alla lesione dell’integrità psico-fisica, non poteva che essere liquidato in via equitativa, e, avuto riguardo alla percentuale di invalidità permanente del 10% accertata dal collegio peritale, nonché alle tabelle in uso, ha condannato la banca al pagamento a tale titolo della somma onnicomprensiva di trentasettemila euro, oltre interessi di legge dalla data della sentenza al saldo. La banca ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione della Corte di Roma per averle, tra l’altro, attribuito il ruolo di “mobber” e per non avere ravvisato errori e lacune nella consulenza medica.
                   La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 18262 del 29 agosto 2007, Pres. Mercurio, Rel. La Terza) ha rigettato il ricorso. La responsabilità della banca – ha osservato la Corte – è stata correttamente ravvisata non già in quanto soggetto direttamente agente a danno del proprio dipendente, ma per non essersi attivata per la cessazione dei comportamenti scorretti posti in essere dai suoi collaboratori, il che è però sufficiente per radicare il suo obbligo al risarcimento del danno.
                   Per quanto attiene alla consulenza, la Cassazione ha rilevato che il collegio peritale ha ben tenuto presente i tratti della personalità che rendevano il periziando particolarmente fragile, ma ha anche ritenuto che detta fragilità non valesse ad interrompere il collegamento eziologico tra la affezione riscontrata e le molestie subite, avendo precisato che una eventuale preesistenza di disturbi psichici poteva avere un peso particolare e peculiare nella valutazione del danno, non nella determinazione del nesso di casualità.
 

L’APPARECCHIATURA DI CONTROLLO SULLE USCITE DALL’AUTORIMESSA AZIENDALE, SE NON E’ STATA INSTALLATA CON IL CONSENSO DELLE RAPPRESENTANZE SINDACALI, NON PUO’ ESSERE UTILIZZATA PER ACCERTARE LA VIOLAZIONE, DA PARTE DEL LAVORATORE, DELL’OBBLIGO DI PRESENZA IN AZIENDAIn base all’art. 4 St. Lav. (Cassazione Sezione Lavoro n. 15892 del 17 luglio 2007, Pres. Senese, Rel. Stile).
                    
Sergio P. dipendente dell’Eni S.p.A. è stato sottoposto a procedimento disciplinare e licenziato per essersi più volte allontanato dal posto di lavoro senza permesso. L’infrazione è stata scoperta perché il lavoratore, per uscire e rientrare durante l’orario di lavoro, ha utilizzato la sua autovettura, parcheggiata in un’autorimessa aziendale, azionando, per superare la sbarra posta ai varchi del locale, un apposito “badge”, i cui dati sono stati registrati da un’apparecchiatura di controllo. Sergio P. ha impugnato il licenziamento davanti al Tribunale di Milano sostenendo che i dati relativi alle sue uscite non erano utilizzabili, in quanto ottenuti dall’azienda mediante un’apparecchiatura installata senza accordo con le rappresentanze sindacali aziendali, in violazione dell’art. 4, 2° comma, St. Lav. secondo cui gli impianti e le apparecchiature di controllo che siano richiesti da esigenze organizzative e produttive ovvero dalla sicurezza del lavoro, ma dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori possono essere installati soltanto previo accordo con le organizzazioni sindacali aziendali. Il Tribunale ha ritenuto che in effetti l’azienda sia incorsa nella denunciata violazione dell’art. 4, 2° comma St. Lav. e pertanto ha annullato il licenziamento, ordinando la reintegrazione di Sergio P. nel posto di lavoro condannando l’Eni al risarcimento del danno. L’azienda ha proposto appello sostenendo che l’apparecchiatura installata ai varchi dell’autorimessa non poteva ritenersi rientrante tra quelle previste dall’art. 4 St. Lav.
                    
La Corte d’Appello di Milano ha accolto l’impugnazione e, in totale riforma della sentenza di primo grado, ha dichiarato legittimo il licenziamento in quanto ha ritenuto che il controllo vietato dall’art. 4 St. Lav. sia soltanto quello “continuo del comportamento del lavoratore o comunque attuabile in qualsiasi momento a discrezione della direzione aziendale”. Sergio P. ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione della Corte di Milano per vizi di motivazione e violazione di legge.
                    
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 15892 del 17 luglio 2007, Pres. Senese, Rel. Stile) ha accolto il ricorso. L’art. 4 legge n. 300/70, la cui violazione è penalmente sanzionata ai sensi dell’art. 38 della stessa legge – ha affermato la Corte – fa parte di quella complessa normativa diretta a contenere in vario modo le manifestazioni del potere organizzativo e direttivo del datore di lavoro che, per le modalità di attuazione incidenti nella sfera della persona, si ritengono lesive della dignità e della riservatezza del lavoratore; detto art. 4, infatti, sancisce, al suo primo comma, il divieto di utilizzazione di mezzi di controllo a distanza, tra i quali, in primo luogo, gli impianti audiovisivi, sul presupposto – espressamente precisato nella “Relazione ministeriale” – che la vigilanza sul lavoro, ancorché necessaria nell’organizzazione produttiva, vada mantenuta in una dimensione “umana”, e cioè non esasperata dall’uso di tecnologie che possono rendere la vigilanza stessa continua e anelastica, eliminando ogni zona di riservatezza e di autonomia nello svolgimento del lavoro. Lo stesso articolo, tuttavia, al secondo comma, prevede che esigenze organizzative, produttive ovvero di sicurezza del lavoro possano richiedere l’eventuale installazione di impianti ed apparecchiature di controllo, dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori. In tal caso – ha osservato la Corte – è prevista una garanzia procedurale a vari livelli, essendo la installazione condizionata all’accordo con le rappresentanze sindacali aziendali o con la commissione interna, ovvero, in difetto, all’autorizzazione dell’Ispettorato del lavoro; in tal modo il legislatore ha inteso contemperare l’esigenza di tutela del diritto dei lavoratori a non essere controllati a distanza e quello del datore di lavoro, o, se si vuole, della stessa collettività, relativamente alla organizzazione, produzione e sicurezza del lavoro, individuando una precisa procedura esecutiva e gli stessi soggetti ad essa partecipi.
                    
Nel caso di specie – ha rilevato la Cassazione – la società, al fine di agevolare i propri dipendenti muniti di autovettura, aveva predisposto per essi un locale garage ove posteggiarla durante l’orario lavorativo, inserendo, tuttavia, un congegno di sicurezza volto a consentire l’ingresso a tale garage solo mediante un meccanismo elettronico attivato da un tesserino  badge personale assegnato a ciascun dipendente, lo stesso che attivava gli ingressi agli uffici; oltre a consentire l’elevazione della sbarra di ingresso al (e uscita dal) garage, il meccanismo rilevava, dal badge, e registrava l’identità di chi passava nonché l’orario del passaggio. Il che permetteva, mediante l’incrocio di tali dati con quelli rilevati elettronicamente all’ingresso degli uffici, di controllare il rispetto o non degli orari di entrata e uscita e presenza sul luogo di lavoro da parte dei dipendenti. Questa apparecchiatura di controllo – ha osservato la Corte – pur essendo stata predisposta per il vantaggio dei dipendenti, era utilizzabile anche in funzione di controllo dell’osservanza da parte di questi dei loro doveri di diligenza nel rispetto dell’orario di lavoro e della stessa correttezza della esecuzione della prestazione lavorativa; tale apparecchiatura – a differenza di quella analoga installata agli ingressi dell’ufficio – non era stata concordata con le rappresentanze sindacali, né era stata autorizzata dall’Ispettorato del lavoro.
                    
Secondo la Corte di Appello – ha rilevato la Cassazione – la società, nel caso concreto, non avrebbe agito in violazione del menzionato art. 4, 2° comma, poiché “la rilevazione dei medesimi dati da altro varco non è in sé modalità occulta e insidiosa di controllo, né invade la dignità e la riservatezza del lavoratore nello svolgimento dell’attività; non riguarda, inoltre, aspetti della prestazione diversi da quelli per i quali già avveniva il controllo con il medesimo badge (nominativo, orario di entrata e uscita al varco)”; tale assunto – fondamentalmente volto ad escludere dall’ambito del divieto del controllo a distanza dell’attività lavorativa posto dall’art. 4 citato i meccanismi di rilevazione dei dati di entrata ed uscita dall’azienda – non appare condivisibile.

Ed invero – ha affermato la Suprema Corte – posto, come sembra indubitabile, in mancanza di indicazioni di segno contrario, che il riferimento all’attività lavorativa, oggetto della fattispecie astratta, non riguarda solo le modalità del suo svolgimento, ma anche il quantum della prestazione, il controllo sull’orario di lavoro, risolvendosi in un accertamento circa la quantità di lavoro svolto, si inquadra, per ciò stesso, in una tipologia di accertamento pienamente rientrante nella fattispecie prevista dal secondo comma del richiamato art. 4.
                    
Né l’insopprimibile esigenza di evitare condotte illecite da parte dei dipendenti – ha aggiunto la Cassazione – può assumere portata tale da giustificare un sostanziale annullamento di ogni forma di garanzia della dignità e riservatezza del lavoratore; consegue a tale rilievo la necessità, ex art. 4, 2° comma dello St. Lav., che l’installazione della contestata apparecchiatura sia oggetto di accordo con le r.s.a. o consentita dall’intervento dell’ufficio pubblico, affinché i dipendenti ne possano avere piena conoscenza e possano eventualmente essere stabilite in maniera trasparente misure di tutela della loro dignità e riservatezza. Nel caso di specie – ha osservato la Corte – costituisce circostanza divenuta pacifica, in seguito alla espletata istruttoria in sede di merito, che nessun accordo, neppure tacito, è al riguardo intervenuto tra la direzione aziendale e le r.s.a. e non è stato in alcun modo interessato l’ufficio pubblico in sede di istallazione e funzionamento delle apparecchiature in questione, che consentono, per i rilievi appena esposto, “la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori”.
                    
Per tale ragione – ha concluso la Cassazione – il controllo operato nei confronti del ricorrente, mediante l’incrocio dei dati, legittimamente acquisiti in quanto comunque concordati, rilevati agli ingressi dell’ufficio con quelli registrati alla sbarra di passaggio del garage aziendale, è stato effettuato illegittimamente e quindi i risultati di tale controllo sull’attività di Sergio P. non possono essere posti a fondamento dell’intimato licenziamento. La Suprema Corte ha cassato la sentenza impugnata e pronunciando nel merito, ex art. 384 cod. proc. civ., ha annullato il licenziamento condannando l’azienda a reintegrare il ricorrente nel suo posto di lavoro ed a risarcirgli il danno. La Corte peraltro ha disposto la compensazione tra le parti delle spese dell’intero processo in considerazione della condotta tenuta dal lavoratore, definita “tutt’altro che commendevole”.

 

 

Chi lavora tutti i giorni della settimana ha diritto a due distinte indennità: una per la maggiore penosità della prestazione domenicale e l’altra per non avere fruito del riposo dopo sei giorni consecutivi di lavoro – Anche se il contratto collettivo non lo prevede - Al lavoratore turnista, che esplichi la propria attività con spostamento del riposo settimanale in un giorno diverso dalla domenica e con una cadenza variabile, per cui detto riposo intervenga oltre il sesto giorno lavorativo, spetta, nonostante la fruizione di riposo compensativo, una maggiorazione sia per maggiore penosità del lavoro svolto di domenica, sia per la privazione della pausa destinata al recupero delle energie psico-fisiche con cadenza settimanale, salvo che la disciplina contrattuale preveda indennità o benefici destinati a compensare la maggiore penosità sia del lavoro domenicale che di quello prestato oltre il sesto giorno.
             La maggiorazione per il lavoro prestato di domenica trova il suo fondamento legislativo, anche in mancanza di disposizione contrattuale e nonostante il previsto riposo compensativo, nell’art. 2109 primo comma cod. civ. il quale, nel prescrivere che il prestatore di lavoro ha diritto ad un giorno di riposo settimanale “di regola coincidente con la domenica”, implicitamente attribuisce al giorno della domenica una valenza superiore a quello degli altri giorni della settimana, recependo il consolidato costume sociale che vede nella domenica il giorno dedicato dal lavoratore al riposo ed alle attività sociali e culturali. Conseguentemente la giurisprudenza della Suprema Corte ha sempre riconosciuto al lavoratore che per legittime esigenze aziendali ha prestato lavoro nel giorno di domenica il diritto ad una maggiorazione di retribuzione per la maggiore penosità del lavoro domenicale a titolo indennitario.
             A non diverse conclusioni deve pervenirsi in relazione al lavoro prestato oltre il sesto giorno consecutivo. Per giurisprudenza ormai costante della Suprema Corte, il lavoro prestato oltre il sesto giorno consecutivo ha, rispetto a quello scandito da pause aventi la normale cadenza settimanale, una gravosità maggiore alla quale deve corrispondere una maggiore retribuzione. Sul fondamento di tale maggiorazione la Corte ha avuto modo di precisare, secondo un orientamento prevalente, che essa è dovuta a titolo retributivo in base al principio di proporzionalità di cui all’art. 36 Cost., senza che sia richiesta la prova del danno. Secondo altro orientamento il compenso sarebbe dovuto a titolo di risarcimento del danno per l’inadempimento contrattuale del datore di lavoro. Secondo altro orientamento ancora, che qui si condivide, la legittimità, a norma dell’art. 5 della legge n. 370 del 1934, dello spostamento del riposo settimanale in un giorno diverso dalla domenica, anche con una cadenza variabile per cui detto riposo intervenga oltre il sesto giorno lavorativo, non esclude che al lavoratore sia dovuto, in relazione all’attività lavorativa del settimo giorno consecutivo e nonostante il godimento di un riposo compensativo oltre tale giorno, un compenso, determinabile anche equitativamente, a titolo non di risarcimento, ma di indennizzo, per la privazione, pur legittima, della pausa destinata al recupero delle energie psico-fisiche; il diritto a tale prestazione indennitaria – che è satisfattiva di un pregiudizio diverso da quello della particolare penosità del lavoro prestato di domenica  con fruizione del riposo compensativo in un giorno diverso nell’arco della settimana – non è escluso dalla circostanza che la disciplina collettiva preveda un particolare trattamento retributivo per la prestazione lavorativa domenicale, salvo che tale trattamento risulti destinato a compensare, oltre la penosità del lavoro festivo,  anche l’usura dell’attività lavorativa prestata il settimo giorno consecutivo; ne consegue che nella determinazione dell’indennizzo di un peculiare sacrificio.
             Nonostante le diverse soluzioni date dalla giurisprudenza al fondamento della maggiorazione in esame, sta di fatto che tutte le decisioni della Suprema Corte concordano nel ritenere che, anche in mancanza di una espressa previsione contrattuale, il lavoro prestato oltre il sesto giorno consecutivo deve essere retribuito in misura maggiore rispetto a quello ordinario. Questa soluzione deve essere confermata, in mancanza di nuovi argomenti che inducano ad una riconsiderazione del problema (Cassazione Sezione Lavoro n. 18708 del 6 settembre 2007, Pres. De Luca, Rel. D’Agostino).
            

 

 

Il “mobbing” può configurare il reato di maltrattamenti – In base all’art. 572 C.P. – Con la nozione (delineatasi nella esperienza giudiziale giuslavoristica) di mobbing si individua la fattispecie relativa ad una condotta che si protragga nel tempo con le caratteristiche della persecuzione, finalizzata all’emarginazione del lavoratore, onde configurare una vera e propria condotta persecutoria posta in essere dal preposto sul luogo di lavoro.
             La condotta di mobbing suppone non tanto un singolo atto lesivo, ma una mirata reiterazione di una pluralità di atteggiamenti, anche se non singolarmente connotati da rilevanza penale, convergenti sia nell’esprimere l’ostilità del soggetto attivo verso la vittima sia nell’efficace capacità di mortificare ed isolare il dipendente nell’ambiente di lavoro.
             Pertanto la prova della relativa responsabilità deve essere verificata procedendosi alla valutazione complessiva degli episodi dedotti in giudizio come lesivi, che può essere dimostrata per la sistematicità e durata dell’azione nel tempo, dalle sue caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione risultanti specificamente da una connotazione emulativa e pretestuosa.
             La figura di reato maggiormente prossima ai connotati caratterizzanti il c.d. mobbing è quella descritta dall’art. 572 codice penale che punisce con la reclusione da 1 a 5 anni chiunque maltratta una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio della professione o di un arte.
            
Ove nel capo d’imputazione non siano ravvisabili i parametri di frequenza e di durata nel tempo delle azioni ostili poste in essere, non è dato valutare il loro complessivo carattere persecutorio e discriminatorio (Cassazione Sezione Quinta Penale n. 33624 del 29 agosto 2007, Pres. Pizzati, Rel. Sandrelli).

 

 

La lunga durata della trasferta non esclude il diritto del lavoratore a percepire la relativa indennità – Anche se sia seguita da trasferimento – La trasferta del lavoratore subordinato, dalla quale consegue il diritto a percepire la relativa indennità, si caratterizza in quanto comporta un mutamento temporaneo del luogo di esecuzione della prestazione, nell’interesse e su disposizione unilaterale dal datore di lavoro. Essa pertanto non è esclusa né dalla eventuale disponibilità manifestata dal lavoratore, né dalla sua durata per un tempo apprezzabilmente lungo e neppure dalla coincidenza del luogo della trasferta con quello del successivo trasferimento, senza soluzione di continuità (Cassazione Sezione Lavoro n. 16136 del 20 luglio 2007, Pres. Mattone, Rel. Balletti).
 

 

 


Lo svolgimento delle mansioni superiori dà diritto alla promozione anche in mancanza del titolo di studio previsto dal contratto collettivo per la qualifica più elevata – In base all’art. 2103 cod. civ. – La mancanza del titolo di studio o altro requisito analogo previsto dal contratto collettivo per l’attribuzione di una qualifica superiore non esclude l’acquisibilità della medesima ai sensi dell’art. 2103, primo comma, cod. civ, nel caso di effettivo esercizio delle relative mansioni per il periodo minimo prescritto. Tuttavia l’esercizio delle mansioni corrispondenti alla qualifica superiore conferita resta precluso qualora il titolo di studio o altro requisito analogo sia richiesto, da norme inderogabili, per lo svolgimento di determinate attività (Cassazione Sezione Lavoro n. 17940 del 23 agosto 2007, Pres. Sciarelli, Rel. De Matteis).