IL RESPONSABILE DI ATTI DI “BOSSING” PUO’ ESSERE CONDANNATO ALLA RECLUSIONE PER VIOLENZA PRIVATA Se minaccia un dipendente per indurlo ad accettare un trattamento peggiorativo (Cassazione Sezione Sesta Penale n. 31413 del 21 settembre 2006, Pres. Legnasi, Rel. Rotundo).
           
Il Tribunale penale di Taranto, con sentenza del febbraio 2001, ha ritenuto colpevoli del reato di violenza privata, tentata e consumata, condannandoli alla pena della reclusione, alcuni dirigenti e impiegati direttivi della società Ilva, per avere richiesto a diversi dipendenti di accettare una novazione del loro rapporto di lavoro, con declassamento da impiegati a operai, minacciandoli che, in caso di mancata accettazione, essi sarebbero stati trasferiti nel reparto “palazzina Laf” ed ivi mantenuti del tutto inoperosi in un ambiente indecoroso (il che si era poi verificato per alcuni lavoratori in seguito alla loro mancata adesione alla proposta novazione).
           
Secondo l’art. 610 cod. pen. si rende responsabile del reato di violenza privata chiunque, con violenza o minaccia, costringa altri a fare, tollerare o omettere qualche cosa. Sia il Tribunale che la Corte di Appello hanno ritenuto che ai lavoratori sia stato minacciato un male ingiusto da ravvisarsi nella “sottoposizione ad un regime lavorativo umiliante e peggiorativo rispetto alle loro legittime aspirazioni, regime consistente nella mancata assegnazione di qualunque tipo di incarico e attività operativa, sì da dovere trascorrere, peraltro in un ambiente non decoroso e trascurato, le ore prescritte in una situazione di assoluta inerzia, lesiva della dignità dei lavoratori, con ciò determinando, da un lato, il prevedibile ed inevitabile peggioramento delle loro capacità professionali e, dall’altro, l’avvilimento del loro legittimo diritto ad espletare un’attività lavorativa decorosa”. Gli imputati hanno proposto ricorso per cassazione, sostenendo, tra l’altro che la Corte d’Appello li aveva ritenuti responsabili di “mobbing”, comportamento non previsto dalla legge come reato.
           
La Suprema Corte (Sezione Sesta Penale n. 31413 del 21 settembre 2006, Pres. Legnasi, Rel. Rotundo) ha rigettato il ricorso, affermando che gli atti di mobbing possono configurare reati. Sul punto la decisione è stata già motivata: “In primo luogo, la Corte di merito si è limitata a rilevare che la singolare vicenda oggetto del processo “si innestava nell’ambito” del fenomeno sociale generalmente noto come mobbing (più specificamente: bossing), fenomeno non ancora previsto in modo specifico né nella nostra legislazione né nella contrattazione collettiva, ma, tuttavia, già esaminato dalla giurisprudenza di merito e legittimità e consistente in “atti e comportamenti (violenza, persecuzione psicologica) posti in essere dal datore di lavoro che mira a danneggiare il lavoratore al fine di estrometterlo dal lavoro, atteggiamenti svolti con carattere sistematico e duraturo”. Proprio questa giurisprudenza – ha sottolineato la Corte di Appello – implicava chiaramente “la possibilità del travalicamento dei confini meramente civilistici o giuslavoristici della condotta di mobbing con la integrazione di ipotesi di reato”. In realtà la giurisprudenza ha già acquisito che può esservi condotta molesta e vessatoria o, comunque mobbing anche in presenza di atti di per sé legittimi e che, simmetricamente, non ogni demansionamento così come non ogni altro atto illegittimo dà luogo, a cascata, a mobbing. Affinché ciò avvenga, è necessario che quell’atto emerga come l’espressione, o meglio come uno dei tasselli, di un composito disegno vessatorio. In definitiva, per la sussistenza del fenomeno occorre che diverse condotte, alcune o tutte di per sé legittime, si ricompongano in un unicum, essendo complessivamente e cumulativamente idonee a destabilizzare l’equilibrio psico-fisico del lavoratore. Ciò non toglie, ovviamente, che tali condotte, esaminate separatamente e distintamente, possano essere illegittime e anche integrare fattispecie di reato.” 

 
PER UN DIRIGENTE ESAUTORATO E MANTENUTO IN CONDIZIONI DI TOTALE INATTIVITA’, IL DANNO DA DEMANSIONAMENTO PUO’ ESSERE ACCERTATO PRESUNTIVAMENTE Come lesione del prestigio professionale (Cassazione Sezione Lavoro n. 20616 del 22 settembre 2006, Pres. Sciarelli, Rel. Celentano).
           
Pietro S., già dipendente della S.p.A. Centro Sviluppo Materiali, ha chiesto, tra l’altro, al Pretore di Genova, nel maggio del 1995, di condannare l’ex datrice di lavoro al risarcimento del danno da demansionamento, sostenendo di essere stato mantenuto, nell’ultima fase del rapporto, in condizioni di forzata inoperosità, in violazione dell’art. 2103 cod. civ.. Questa domanda è stata rigettata dal Pretore ed invece accolta, in grado di appello, dal Tribunale di Genova che ha condannato l’azienda al risarcimento del danno da demansionamento in misura pari alle retribuzioni relative al periodo dal 1 gennaio al 15 settembre 1994. L’azienda ha proposto ricorso per cassazione sostenendo che il Tribunale aveva erroneamente ravvisato, nel demansionamento, un danno “in sé” mentre, avrebbe dovuto accertare se effettivamente tale danno si fosse verificato, ponendo a carico del lavoratore il relativo onere probatorio. Queste censure sono state ritenute fondate dalla Suprema Corte che, con sentenza n. 9628 del luglio 2000, ha cassato sul punto la decisione del Tribunale di Genova ed ha rinviato la causa, per nuovo esame, al Tribunale di Savona, enunciando, per il giudice del rinvio, il principio che “il danno da demansionamento non si pone come conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo del datore di lavoro, ma deve essere oggetto di allegazione e prova secondo i principi generali di cui all’art. 2697 cod. civ.” (principio recentemente ribadito dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 6572 del 24.3.2006).
           
Il Tribunale di Savona, in grado di rinvio, con sentenza del febbraio 2003, ha accertato ricorrendo a presunzioni, il danno da demansionamento subito dal dirigente ed ha condannato l’ex datrice di lavoro al risarcimento del relativo danno. In proposito il Tribunale ha così motivato la sua decisione: “In applicazione del principio di diritto sancito dalla Corte, secondo cui il danno da demansionamento non si pone come conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo del datore di lavoro ma deve essere oggetto di allegazione e di prova secondo i principi generali di cui all’art. 2697 c.c., ritiene il Collegio che tale prova sia stata effettivamente raggiunta, quantomeno in via presuntiva, sulla base del complesso univoco e convergente delle risultanze acquisite in merito alla natura, alla portata e alla durata della dequalificazione subita nonché alle specifiche caratteristiche soggettive del lavoratore (Cass. 15868/2002, Cass. 13580/2002).
           
E’ un dato infatti ormai incontrovertibile che Pietro S., all’epoca quarantatreenne titolare di una posizione dirigenziale di vertice all’interno della società quale responsabile dell’Ente attuazione progetti speciali e già responsabile sino a pochi mesi prima anche dell’Ente Sistemi di Funzionamento che operava alle dirette dipendenze dell’Amministratore Delegato, professionalmente stimato ed apprezzato da tutti (cfr. teste P. P., amministratore della C.S.M. dal 1989 all’aprile 1993), a partire dall’inizio del 1994 venne di fatto esautorato dall’incarico e posto in una condizione di totale inattività prima di essere licenziato in data 15.9.1994. Il carattere totale (“rimase senza far nulla”) e repentino della privazione di qualsiasi mansione nei confronti di un dirigente in posizione di vertice e nel pieno della carriera professionale – privazione protrattasi per oltre otto mesi e tale da paralizzare totalmente l’esercizio dei poteri e delle competenze sino a quel momento impiegati nello svolgimento dell’attività lavorativa, in patente violazione dei doveri di tutela della professionalità di cui all’art. 2103 c.c. – non può non avere cagionato al lavoratore, secondo l’id quod plerumque accidit, un’apprezzabile lesione al prestigio professionale di grado elevato inerente la posizione dirigenziale rivestita all’interno dell’ambiente di lavoro ed alla dignità del lavoratore, intesa come esigenza umana di manifestare la propria utilità nel contesto lavorativo (Cass. 10/2002, 1443/2002) esigenza assolutamente frustrata nel caso di specie. Sulla scorta degli elementi evidenziati deve dunque ritenersi accertata la sussistenza di un danno da demansionamento nella componente lesiva di un danno alla professionalità, quale bene immateriale inerente all’esplicazione dei diritti della personalità sul luogo di lavoro, dovendo invece essere esclusa la ricorrenza di distinte componenti di carattere immediatamente patrimoniale, quali la perdita di concrete chances di progressione lavorativa e di concorrenzialità sul mercato del lavoro, che, al pari delle ulteriori lesioni alla integrità psicofisica del lavoratore, avrebbero dovuto essere specificamente provate dal lavoratore”. L’azienda ha proposto ricorso per cassazione sostenendo che il Tribunale di Savona si era discostato dal principio stabilito dalla Suprema Corte nella sentenza n. 9628 del 2000, avendo raggiunto la prova del danno in base a considerazioni di carattere generale.
           
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 20616 del 22 settembre 2006, Pres. Sciarelli, Rel. Celentano) ha rigettato il ricorso, rilevando che il Tribunale di Savona ha applicato correttamente i principi stabiliti da Cass. n. 9628/2000. I giudici di rinvio – ha osservato la Corte – hanno affermato che la condizione di inattività lavorativa, nella quale era stato posto Pietro S., non poteva non avere cagionato al lavoratore, secondo l’id quod plerumque accidit, un’apprezzabile lesione al prestigio professionale inerente la posizione dirigenziale rivestita e alla dignità del lavoratore, intesa come esigenza di manifestare la propria utilità nel contesto lavorativo; hanno quindi ricavato la sussistenza del danno al prestigio professionale ed alla dignità del lavoratore da una ritenuta regolarità causale fra demansionamento, nella specie particolarmente rilevante, e conseguenze dello stesso in ambito lavorativo per quanto concerne, appunto, prestigio professionale e dignità. Questa motivazione – ha affermato la Corte – è corretta e tiene conto dei principi di diritto affermati nella sentenza rescindente; né sussiste contraddizione fra l’affermazione di un danno da demansionamento, nella componente lesiva di danno alla professionalità, quale bene immateriale inerente all’esplicazione dei diritti della personalità sul luogo di lavoro, e l’esclusione di altri danni, come la perdita di chances di progressione lavorativa o di concorrenzialità sul mercato del lavoro, o altre e diverse lesioni alla integrità psicofisica del lavoratore. 
 


L’atto amministrativo adottato in difetto del relativo potere è nullo – Non ha perciò carattere autoritativo – L’esercizio del potere amministrativo in contrasto con una disposizione imperativa di legge non sottrae al provvedimento il suo carattere autoritativo, siccome il vizio di violazione di legge è sanzionato dall’ordinamento con l’annullabilità dell’atto (art. 21-octies, comma 1, della legge n. 241 del 1990, inserito dalla legge n. 15 del 2005). Il che significa produzione degli effetti tipici fino a quando le autorità che ne hanno il potere (la stessa pubblica amministrazione in sede di autotutela, ovvero il giudice amministrativo) non pronuncino l’annullamento dell’atto.
               Non ha, invece, carattere autoritativo, essendo inidoneo ad innovare la precedente situazione giuridica, l’atto adottato in difetto del relativo potere, la cui condizione giuridica, secondo il recente intervento del legislatore, è quella della nullità. Dispone, infatti, l’art. 21-septies, comma 1, della legge n. 241 del 1990, inserito dall’art. 14 della legge n. 15 del 2005: E’ nullo il provvedimento amministrativo che manca degli elementi essenziali, che è viziato da difetto assoluto di attribuzione, che è stato adottato in violazione o elusione del giudicato, nonché negli altri casi espressamente previsti dalla legge (Cassazione Sezione Lavoro n. 20341 del 20 settembre 2006, Pres. Sciarelli, Rel. Picone).