UNA CONSULENZA MEDICO
LEGALE DISPOSTA PER ACCERTARE L’ATTENDIBILITA’ DI CERTIFICATI DI MALATTIA PUO’
ESSERE MOTIVATAMENTE DISATTESA DAL GIUDICE –
Nell’ambito dei suoi
poteri discrezionali (Cassazione Sezione Lavoro n. 5032 del 5 marzo 2007,
Pres. De Luca, Rel. Circuruto).
Antonio S. dipendente della s.p.a. Bistefani, con qualifica di quadro, è stato
trasferito, nel maggio del 2000, da Santa Maria Capua Vetere a Villanova
Monferrato. Egli ha impugnato il trasferimento, sostenendo che non era
giustificato da ragioni organizzative e che aveva comportato una
dequalificazione, in quanto nella nuova sede di lavoro egli era stato
destinato alle mansioni di venditore, mentre in precedenza egli aveva svolto
compiti direttivi di “district manager”, preposto a più addetti alle vendite.
La causa, iniziata davanti al Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, è stata
trasferita, per ragioni di competenza territoriale, davanti al Tribunale di
Torino. L’azienda si è difesa sostenendo che nella lettera di assunzione era
prevista la possibilità di impiegare il lavoratore in due sedi: Santa Maria
Capua Vetere e Villanova Monferrato e che le nuove mansioni assegnategli
dovevano ritenersi equivalenti a quelle precedenti, per l’importanza del
settore cui egli era stato destinato. Durante il giudizio il lavoratore si è
assentato per malattia, che ha giustificato inviando all’azienda certificati
medici. L’azienda ha contestato la validità di tali certificati, rilasciati,
da ultimo l’8 e il 28 giugno 2000, osservando, tra l’altro, che l’esistenza
malattia doveva escludersi dal momento che, per assistere a un’udienza della
causa di lavoro relativa al trasferimento, Antonio S. si era sobbarcato a una
faticosa trasferta da Santa Maria Capua Vetere a Torino. Dopo avere sottoposto
il lavoratore a procedimento disciplinare l’azienda lo ha licenziato per
assenza ingiustificata. Il licenziamento è stato impugnato dal lavoratore
davanti al Tribunale di Torino che ha riunito la causa a quella relativa al
trasferimento. Il lavoratore ha prodotto nuovi certificati medici, relativi a
due accertamenti fiscali compiuti dall’INPS nel settembre 2000 ed attestanti
il persistere della malattia (stato ansioso depressivo). Il Tribunale di
Torino ha nominato un consulente tecnico medico legale che ha escluso
l’esistenza della malattia accertata dai certificati medici nel periodo in cui
il lavoratore si era recato a Torino per assistere ad una udienza della causa
di trasferimento. In base a tale valutazione il Tribunale ha affermato la
legittimità del licenziamento, escludendo conseguentemente la necessità di
pronunciarsi sulla legittimità del trasferimento. La Corte d’Appello di Torino
ha integralmente riformato la decisione di primo grado, osservando che i
risultati della consulenza tecnica dovevano ritenersi inattendibili perché
essa era stata svolta tre anni dopo la malattia oggetto di giudizio e che i
certificati prodotti erano idonei a giustificare l’assenza; essa ha inoltre
rilevato che, presenziando all’udienza davanti al Tribunale di Torino, il
lavoratore aveva esercitato un suo diritto. Pertanto la Corte ha ritenuto
ingiustificato il licenziamento e lo ha annullato; essa ha dichiarato anche
l’illegittimità del trasferimento osservando che doveva escludersi la
possibilità, per l’azienda, di impiegare, a sua discrezione, il lavoratore in
Villanova Monferrato. L’azienda ha proposto ricorso per cassazione, censurando
la decisione della Corte di Torino per vizi di motivazione e violazione di
legge.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 5032 del 5 marzo 2007, Pres. De Luca, Rel.
Circuruto) ha rigettato il ricorso in quanto ha ritenuto che la sentenza
impugnata sia stata adeguatamente e correttamente motivata. Per quanto
concerne in particolare l’accertamento della malattia, la Cassazione ha
affermato che rientra nel potere del giudice di disattendere motivatamente i
risultati di una consulenza tecnica. Sul punto, nella motivazione della
sentenza della Suprema Corte, si legge quanto segue: “Si addebita alla
sentenza impugnata di aver disatteso immotivatamente le conclusioni del
consulente tecnico di ufficio e di aver valorizzato invece le risultanze di
due accertamenti fiscali, per ritenere Antonio S. inidoneo a rendere la
propria prestazione lavorativa l’11 luglio 2000, giorno in cui era si era
recato da Santa Maria Capua Vetere a Casale Monferrato per assistere
all’udienza del processo che lo riguardava, facendo subito dopo ritorno nella
propria città e sobbarcandosi alle fatiche del viaggio, il che contraddiceva
la ritenuta impossibilità di lavorare. In tal modo la Corte avrebbe
sostanzialmente svuotato di contenuto il principio, più volte affermato dalla
giurisprudenza di legittimità, secondo cui il datore di lavoro può sempre
contestare in giudizio le risultanze dei certificati medici inviatigli dal
lavoratore. L’ammissibilità di tale contestazione rende infatti necessario per
il giudice l’esame del contenuto della consulenza tecnica d’ufficio, senza che
egli possa, a prescindere da tale esame, formulare un giudizio di maggiore
attendibilità circa i risultati degli accertamenti fiscali. Il motivo è
infondato. Rientra nel potere discrezionale del giudice disattendere le
conclusioni della consulenza tecnica d’ufficio – senza dover disporre
un’ulteriore perizia – purché egli disponga di elementi istruttori e di
cognizioni proprie, integrati da presunzioni e da nozione di comune esperienza
sufficienti a dar conto della decisione adottata, la quale può esser censurata
in sede di legittimità solo ove la soluzione scelta non risulti
sufficientemente motivata (Cass. 4.1.2002 n. 71). La presenza dei suddetti
elementi e cognizioni, integrate nei modi anzidetti e sufficienti a dar conto
della decisione adottata, consente al giudice anche di non disporre la c.t.u.,
sempreché la soluzione scelta risulti adeguatamente motivata. Quindi la tesi
sostenuta nel motivo in esame non è condivisibile nella sua assolutezza, non
potendo affermarsi né che il giudice, in ogni caso, non possa in base a quanto
risulta dall’istruttoria ritenere che la patologia attestata dal certificato
prodotto dal lavoratore sussista, e che egli debba invece necessariamente
verificarla mediante consulenza, né che le conclusioni del consulente debbano
in ogni caso prevalere su quelle delle certificazioni. Il problema si sposta
dunque sulla motivazione del giudizio conclusivo sulla malattia e
sull’impedimento che ne deriva, anche in eventuale dissenso della c.t.u. ove
espletata. E’ agevole, allora, osservare che il giudice del merito
nell’assegnare credibilità ad una diagnosi effettuata in sede di accertamenti
fiscali dell’INPS a breve distanza dall’episodio, piuttosto che ad una c.t.u.
effettuata a tre anni dallo stesso, con riferimento ad una patologia, come
sottolineato nella sentenza, di difficile accertamento a distanza, non è
incorso in vizio di motivazione non avendo violato alcuna regola logica
nell’utilizzare il criterio della prossimità dell’accertamento medico rispetto
ad un fatto non in grado di lasciare tracce permanenti.”
LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE CHE SIA VENUTA A
CONOSCENZA DI FATTI ILLECITI COMMESSI DA UN DIPENDENTE PRIMA CHE ABBIA AVUTO
INIZIO IL PROCESSO PENALE, DEVE PROCEDERE IN SEDE DISCIPLINARE –
In applicazione del principio dell’immediatezza della
contestazione (Cassazione Sezione Lavoro n. 4932 del 2 marzo 2007, Pres.
Ciciretti, Rel Curcuruto).
Valentino T. maresciallo dei vigili urbani
del Comune di Campofilone, a seguito di lamentele da parte di alcuni cittadini
è stato denunciato nel 1998 dal sindaco all’autorità giudiziaria per fatti di
concussione e millantato credito. Esauritesi le indagini egli è stato rinviato
a giudizio per tali reati. Il Comune, quando ha avuto notizia del rinvio a
giudizio, ha sospeso, in via cautelare, il maresciallo dal servizio. Il
processo penale si è concluso con una condanna, che è divenuta irrevocabile il
4 marzo 2003. Il Comune, con atto emesso dall’ufficio competente per i
procedimenti disciplinari e notificato il 25 giugno 2003, ha contestato al
maresciallo, sotto il profilo disciplinare, i fatti per i quali egli era stato
condannato e successivamente lo ha licenziato. Valentino T. ha impugnato il
licenziamento davanti al Tribunale di Ancona, sostenendo, tra l’altro, che
esso doveva ritenersi illegittimo per la tardività della contestazione degli
addebiti disciplinari, avvenuta nel giugno 2003, mentre il Comune era a
conoscenza dei fatti sin dal 1998. Il Tribunale ha annullato il licenziamento
per tardività dell’inizio del procedimento disciplinare. Questa decisione è
stata riformata dalla Corte d’Appello di Ancona che ha ritenuto tempestiva la
contestazione degli addebiti perché la sentenza penale definitiva non era
stata formalmente comunicata al Comune; pertanto il termine per l’inizio del
procedimento disciplinare non poteva ritenersi decorso, sia nel caso di
applicazione del termine originariamente previsto dall’art. 20 della legge n.
97 del 2001 (120 giorni dalla comunicazione della sentenza definitiva) sia ove
si fosse tenuto conto della sentenza della Corte Costituzionale n. 186 del
2004 (90 giorni dalla comunicazione della sentenza definitiva). Pertanto la
Corte di Ancona ha ritenuto legittimo il licenziamento. Il lavoratore ha
proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione della Corte di Ancona
per vizi di motivazione e violazione di legge.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 4932 del
2 marzo 2007, Pres. Ciciretti, Rel Curcuruto) ha accolto il ricorso, in quanto
ha ritenuto che l’addebito disciplinare possa essere contestato
successivamente alla pronuncia della sentenza penale irrevocabile soltanto
quando l’Amministrazione sia venuta a conoscenza dei fatti solo a seguito
della comunicazione di tale sentenza. Pertanto la Corte ha cassato la sentenza
impugnata ed ha rinviato la causa per nuovo esame alla Corte d’Appello di
Bologna, enunciando per il giudice di rinvio, il seguente principio di
diritto: “In caso di illeciti disciplinari commessi anteriormente al vigore
della legge 97 del 2001 la disposizione transitoria di cui all’art. 10 comma 3
della legge quale risulta a seguito della declaratoria di illegittimità
costituzionale e di cui alla sentenza della Corte Costituzionale n. 184 del
2004, in base alla quale il termine di novanta giorni per avviare il
procedimento disciplinare decorre dalla comunicazione della sentenza penale,
non trova applicazione quando l’amministrazione sia venuta a conoscenza dei
fatti prima di detta comunicazione, nel qual caso essa è tenuta ad avviare
tempestivamente il procedimento, eventualmente sospendendolo nel caso di
instaurazione del giudizio penale. Il Giudice del merito accerterà quindi, in
base alle risultanze di causa, quando il Comune di Campofilone abbia avuto
conoscenza dei fatti poi contestati a Valentino T., dando adeguata
giustificazione del risultato di tale indagine, e valuterà, rispetto al
momento così individuato, la tempestività della contestazione e la conseguente
legittimità del licenziamento.”
Non è dato – ha osservato la Corte –
affermare che il solo fatto che l’illecito del dipendente di una pubblica
amministrazione rivesta carattere penale sia idoneo a modificare radicalmente
lo stesso potere di recesso disciplinare del datore di lavoro, del quale
l’immediatezza della contestazione è, per giurisprudenza costante, elemento
costitutivo. La legge n. 97/2001 – ha concluso la Corte – non somministra di
per sé argomenti per ritenere che l’amministrazione possa indebitamente
differire l’apertura del procedimento disciplinare, una volta venuta a
conoscenza dei fatti che lo giustifichino.
LA
CRITICA SI DISTINGUE DALL’INSULTO PERCHE’ E’ ARGOMENTATA
– E non deve trascendere in attacchi personali (Cassazione Sezione
Quinta Penale n. 11662 del 20 marzo 2007, Pres. Pizzuti, Rel. Fumo).
Ciò che distingue la critica dall’invettiva (o dall’insulto) è il
fatto che la prima è argomentata, il secondo è gratuito. Per ritenersi
validamente (e non solo formalmente) argomentato, un giudizio critico deve
essere corredato da una “spiegazione” che renda manifesta al destinatario del
messaggio la ragione della censura. Come è ovvio, non è necessario che tale
destinatario (e, dunque, l’interprete e, dunque, il giudicante) condivida l’iter
argomentativo e/o le conclusioni del criticante, essendo sufficiente che l’uno
e le altre presentino un carattere minimo di logicità e non contrastino col
senso comune.
Insomma il diritto di critica presuppone un contenuto di veridicità
limitato alla oggettiva esistenza del fatto assunto a base delle opinioni e
delle valutazioni espresse, essendo poi l’agente libero, entro i limiti sopra
indicati, di trarre le conclusioni che ritiene corrette.L’esimente del diritto
di critica è senza dubbio configurabile quando il discorso giornalistico abbia
un contenuto prevalentemente valutativo e si sviluppi nell’alveo di una
polemica intensa e dichiarata, su temi di rilevanza sociale, senza trascendere
in attacchi personali, finalizzati all’unico scopo di aggredire la sfera
morale altrui, non richiedendosi neppure – a differenza di quanto si verifica
con riguardo al diritto di cronaca – che la critica sia formulata con
riferimento a precisi dati fattuali, sempre che il nucleo ed il profilo
essenziale di questi non siano strumentalmente travisati e manipolati.
Furto di auto nel parcheggio? Il titolare deve risarcire |
Il titolare di un parcheggio custodito è
tenuto a risarcire gli automobilisti a cui sia stata rubata l'auto. E'
quanto stabilisce una sentenza della Terza sezione civile della Cassazione
(N. 5837/2007) che ha così respinto il ricorso del titolare di un
parcheggio confermando la condanna precedentemente inflittagli dalla Corte
di Appello.
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