GLI ATTI DI CONFERIMENTO O DI REVOCA DEGLI INCARICHI DIRIGENZIALI NELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE HANNO NATURA PRIVATISTICA – Il giudice di merito può accertare se essi siano conformi alle regole di correttezza e buona fede (Cassazione Sezione Lavoro n. 3880 del 22 febbraio 2006, Pres. De Luca, Rel. D’Agostino).
            Rocco L. dirigente del Ministero delle Finanze, ha esercitato sino al settembre 1999 le funzioni di direttore della Direzione Regionale delle Entrate per la Basilicata, senza avere stipulato il relativo contratto. Con nota del 28 settembre 1999 l’Amministrazione gli ha comunicato di non avere esercitato l’opzione prevista dall’art. 8 comma secondo del D.P.R. n. 150/1999 per la conferma nell’incarico precedentemente ricoperto. Successivamente, con atto del 14 ottobre 1999 l’Amministrazione ha revocato a Rocco L. l’incarico di direttore della Direzione Regionale delle Entrate per la Basilicata e lo ha conferito a Giuseppe C. Il 1 dicembre del 1999 Rocco L. è stato destinato alla Direzione Regionale delle Entrate della Campania con funzioni di consigliere ministeriale aggiunto. Egli ha chiesto al Tribunale di Potenza, Sezione Lavoro di dichiarare l’illegittimità – per difetto di motivazione, eccesso di potere e violazione delle norme del procedimento amministrativo – del provvedimento con il quale era stato sostituito nell’incarico di Direttore Regionale delle Entrate per la Basilicata. Sia il Tribunale che la Corte di Appello di Potenza hanno ritenuto le domande prive di fondamento. La Corte di Appello ha affermato che l’atto di conferimento dell’incarico dirigenziale di un ufficio non generale (quale la Direzione delle Entrate per la Basilicata) ha natura privatistica e pertanto non è soggetto alle disposizioni della legge n. 241 del 1990 sul procedimento amministrativo, né ai principi che regolano l’attività amministrativa in genere e i vizi che invalidano gli atti della pubblica amministrazione (in particolare l’eccesso di potere).
            Il D. Lgs. n. 80/1998 – ha osservato la Corte – ha istituito il ruolo unico dei dirigenti presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, del quale le amministrazioni devono servirsi per conferire incarichi dirigenziali e stipulare i relativi contratti individuali; l’istituzione del ruolo unico ha comportato l’automatica decadenza ex lege dei dirigenti da tutti gli incarichi dirigenziali attribuiti in precedenza ed il successivo regolamento approvato con D.P.R. 26.2.1999 n. 150 ha stabilito le modalità di utilizzazione dei dirigenti confluiti nel ruolo unico che non siano stati confermati nell’incarico precedente entro 90 giorni dall’Amministrazione di originaria appartenenza.
            Rocco L., confluito nel ruolo unico, non aveva alcun diritto soggettivo – secondo la Corte d’Appello – al mantenimento dell’incarico di Direttore della Direzione Regionale delle Entrate per la Basilicata, poiché il conferimento dell’incarico dirigenziale costituiva attività discrezionale dell’Amministrazione. La Corte ha inoltre ritenuto che l’Amministrazione, non esercitando l’opzione per il mantenimento del dirigente e assegnando ad altro dirigente l’incarico in questione, non aveva violato i principi di correttezza e buona fede in quanto aveva tenuto presenti i criteri per l’assegnazione fissati dall’art. 19 del D. Lgs. n. 80/1998 ed aveva sufficientemente motivato i provvedimenti, come richiesto dall’art. 22 del CCNL 1994/1997. Rocco L. ha proposto ricorso per cassazione censurando la sentenza della Corte di Appello di Potenza per vizi di motivazione e violazione di legge.
            La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 3880 del 22 febbraio 2006, Pres. De Luca, Rel. D’Agostino) ha rigettato il ricorso, confermando il suo orientamento secondo cui gli atti di conferimento o di revoca degli incarichi dirigenziali nella pubblica amministrazione hanno natura privatistica; la conferma della natura privata degli atti di conferimento e revoca deve ravvisarsi altresì nel fatto che neppure la riforma attuata con la legge n. 145 del 2002 ha assegnato detti atti all’area dei provvedimenti amministrativi, sebbene abbia perseguito l’obiettivo di rafforzare i poteri organizzativi dell’Amministrazione, dichiarando inderogabile la struttura unilaterale dell’atto di conferimento da parte della contrattazione collettiva e rendendone preminente il ruolo rispetto al contratto.
            La Corte di Appello di Potenza – ha osservato la Cassazione – ha correttamente accertato che il provvedimento di sostituzione di Rocco L. nell’incarico di direttore della Direzione Regionale delle Entrate per la Basilicata non si pone in contrasto con i criteri di scelta fissati dall’art. 19 del D. Lgs. n. 29/1993, come sostituito dall’art. 13 del D. Lgs. n. 80/1998; il ricorrente, infatti, non solo non ha provato, ma neppure ha allegato in qual modo tale provvedimento sia in contrasto con la natura e le caratteristiche del programma da realizzare (criterio c.d. oggettivo), né ha spiegato le ragioni per le quali le attitudini, le capacità professionali ed i risultati conseguiti dal dirigente designato (criterio c.d. soggettivo) siano meno qualificanti di quelli del ricorrente pretermesso. La circostanza di avere già ricoperto l’incarico, ora attribuito ad altro dirigente – ha osservato la Corte – lungi dal costituire motivo di preferenza, rappresenta ragione legittima di esclusione in considerazione del criterio della “rotazione degli incarichi” fissati dal citato art. 19 del D. Lgs. n. 29/1993.
            La Cassazione ha infine rilevato che la Corte di Appello ha ritenuto che i predetti atti di conferimento e revoca dell’incarico dirigenziale siano stati conformi ai principi di correttezza e buona fede, in quanto ispirati alla tutela degli interessi generali dell’Ufficio e non diretti a favorire gli interessi di un candidato a scapito degli interessi del candidato pretermesso; tale valutazione – ha concluso la Suprema Corte – involgendo un apprezzamento di circostanze di fatto, è rimessa in via esclusiva al giudice del merito e non è sindacabile in cassazione se congruamente e logicamente motivata.
            
     


 

UN COMPENSO DI NATURA INDENNITARIA, SE VIENE EROGATO ANCHE DOPO CHE SIANO VENUTE MENO LE RAGIONI DELL’INDENNITA’, ENTRA A FAR PARTE DELLA RETRIBUZIONE IRRIDUCIBILE – In base all’art. 2103 cod. civ. (Cassazione Sezione Lavoro n. 3050 del 13 febbraio 2006, Pres. Sciarelli, Rel. Cuoco).
            Il giornalista Torello B., dipendente dell’ANSA è stato preposto nel 1982, con la qualifica di capo servizio, all’ufficio regionale di L’Aquila, con un trattamento economico comprendente, tra l’altro, un compenso forfettario mensile per mancato godimento della “settimana corta”. Sin quanto è rimasto a L’Aquila egli non ha fruito della “settimana corta” ed ha percepito la relativa indennità. Nel 1986 egli è stato trasferito nella capitale, presso la redazione Roma e Lazio, dove ha lavorato sino al 1991 con orario settimanale distribuito su cinque giorni e pertanto con la fruizione della “settimana corta”. Nonostante ciò l’azienda ha continuato a corrispondergli, sino al 1991 l’indennità per mancata fruizione della “settimana corta”. Nell’ottobre 1991 egli è stato destinato alla redazione centrale per l’estero dove ha continuato a lavorare con orario distribuito su cinque giorni. Da quando ha preso servizio presso la redazione centrale per l’estero l’azienda ha cessato di corrispondergli l’indennità per mancata fruizione della “settimana corta”. Nel dicembre 1992 Torello B. ha chiesto al Pretore di Roma di riconoscere il suo diritto di continuare a percepire l’indennità per mancata fruizione della settimana corta, sostenendo che essa era divenuta un elemento irriducibile della retribuzione in quanto nel periodo al 1986 al 1991 l’azienda aveva continuato a corrispondergliela, nonostante che egli fruisse della settimana corta. Il Pretore ha rigettato la domanda, ma la sua decisione è stata riformata, in grado di appello, dal Tribunale di Roma che ha affermato il diritto del giornalista di continuare a percepire l’indennità nel periodo successivo all’ottobre 1991. L’ANSA ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione del Tribunale di Roma per vizi di motivazione e violazione di legge.
            La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 3050 del 13 febbraio 2006, Pres. Sciarelli, Rel. Cuoco) ha rigettato il ricorso. E’ principio giurisprudenziale quale specificazione dell’art. 2103 primo comma prima parte cod. civ. – ha affermato la Corte – che la garanzia dell’irriducibilità della retribuzione riguarda le indennità corrisposte in considerazione delle qualità professionali intrinseche alle mansioni del lavoratore, e non si estende alle indennità erogate in ragione di particolari modalità della prestazione lavorativa, le quali possono essere soppresse allorché vengono meno le specifiche situazioni che le abbiano generate. Ha natura retributiva qualsiasi compenso corrisposto in modo continuativo ed in rapporto sinallagmatico con la prestazione. Nell’ipotesi di mutamento delle mansioni e di cessazione dell’attività in funzione della quale era erogata una particolare indennità, questa, ove non attenga a qualità professionali del lavoratore, bensì ad estrinseche modalità della prestazione, ben può essere soppressa. Ove, pur con la cessazione di questa attività e pertanto della ragione che giustificava la corresponsione dell’indennità, l’erogazione permane, il relativo importo, divenendo compenso corrisposto in modo continuativo ed in rapporto sinallagmatico con la così ridotta prestazione, diventa retribuzione indipendente dalle cessate estrinseche modalità della prestazione stessa. Assumendo questa connessione, il predetto compenso resta coinvolto nella parte irriducibile della retribuzione.
 



Nel procedimento disciplinare il principio dell’immediatezza deve essere rispettato sia per la contestazione che per l’irrogazione della sanzione – In base alle regole di correttezza e buona fede – In materia di illecito disciplinare nel rapporto di lavoro privato, il principio della immediatezza si riferisce sia alla contestazione dell’addebito, sia alla tempestività della irrogazione della misura disciplinare; entrambe costituiscono esplicazione del generale precetto di conformarsi alla buona fede e alla correttezza nell’attuazione del rapporto di lavoro, e devono essere intese in senso relativo, nel senso che la tempestività può essere compatibile con un intervallo di tempo necessario, in relazione al caso concreto e alla complessità dell’organizzazione del datore di lavoro, ad una adeguata valutazione della gravità dell’addebito mosso al dipendente ed alla validità o meno delle giustificazioni da lui fornite; l’accertamento al riguardo compiuto dal giudice di merito è insindacabile in cassazione, ove adeguatamente motivato (Cassazione Sezione Lavoro n. 4034 del 23 febbraio 2006, Pres. Ciciretti, Rel. De Matteis).


 


La decisione arbitrale sull’impugnazione della sanzione disciplinare ha natura di lodo irrituale – Può essere impugnata davanti al Tribunale, la cui decisione è soggetta a ricorso per cassazione – In base all’art. 7 St. Lav. il lavoratore al quale sia stata applicata una sanzione disciplinare può impugnarla davanti a un collegio di conciliazione e arbitrato composto da un rappresentante di ciascuna delle parti e da un terzo membro scelto di comune accordo, o, in difetto di accordo, nominato dal direttore dell’Ufficio del lavoro. La decisione del collegio ha natura di lodo arbitrale irrituale. Essa è impugnabile davanti al Tribunale, quale giudice di unico grado, avverso la cui decisione è ammesso soltanto il ricorso per cassazione.
            Il lodo arbitrale irrituale (ex art. 7 legge n. 300 del 1970) è impugnabile soltanto per vizi della manifestazione della volontà negoziale e non anche per nullità, ai sensi dell’art. 829 cod. proc. civ. Dalla affermata natura di arbitrato irrituale della procedura consegue che in sede giudiziale non è più ammessa la sindacabilità delle valutazioni di merito affidate alla discrezionalità degli arbitri, mentre rimane salvo il controllo dell’autorità giudiziaria sia sull’esistenza di vizi idonei ad inficiare la determinazione degli arbitri per alterata percezione o falsa rappresentazione dei fatti, sia sull’osservanza delle disposizioni inderogabili di legge ovvero di contratti o accordi collettivi. Il lodo, emesso a seguito di arbitrato irrituale, non è censurabile in ordine alla ricostruzione e valutazione delle circostanze di fatto e alla loro riconducibilità ad una fattispecie di illecito disciplinare. Pertanto, se gli arbitri accertano in via di fatto i presupposti per l’applicazione di una sanzione disciplinare nei confronti di un dipendente in conformità della previsione della contrattazione collettiva, non è possibile che tale apprezzamento di fatto sia successivamente rimesso in discussione con l’impugnazione del lodo, salva l’ipotesi in cui quest’ultimo – che ha natura strettamente negoziale – sia affetto da un vizio della volontà, quale l’errore, la violenza, o il dolo; ossia rileva solo l’errore sostanziale o essenziale (artt. 1428 e 1429 cod. civ.), che attiene alla formazione della volontà degli arbitri e che ricorre quando questi ultimi abbiano avuto una falsa rappresentazione della realtà (Cassazione Sezione Lavoro n. 4025 del 23 febbraio 2006, Pres. Ciciretti, Rel. Amoroso).
 



La dequalificazione si verifica anche quando al lavoratore siano attribuiti compiti marginali che lo lascino pressoché inattivo – Il lavoro costituisce un mezzo di estrinsecazione della personalità – Il lavoratore subisce un’illegittima dequalificazione ed ha pertanto diritto al risarcimento del danno inerente alla perdita della professionalità, all’attitudine al lavoro e alle opportunità di carriera anche quando gli siano attribuiti compiti marginali che lo lascino pressoché inattivo. Non vi è dubbio che comporti inadempimento del datore di lavoro e, segnatamente, violazione degli obblighi di cui all’art. 2103 cod. civ., anche l’ingiustificata emarginazione del lavoratore, lasciato inattivo, perché il lavoro costituisce non solo un mezzo di guadagno, ma anche un mezzo di estrinsecazione della personalità del soggetto e il suo svolgimento è necessario anche al fine di evitare la progressiva dequalificazione professionale del medesimo (Cassazione Sezione Lavoro n. 3046 del 13 febbraio 2006, Pres. Sciarelli, Rel. Toffoli).