Cassazione: multa al datore di lavoro che 'trascura' il dipendente depresso

Puo' scattare la multa nei confronti del datore di lavoro che 'trascura' il dipendente caduto in una profonda depressione. La stessa sanzione puo' essere applicata al medico aziendale se non dispone tutti gli accertamenti specialistici nei confronti dell'impiegato affetto da depressione. Lo sancisce la Corte di Cassazione che ha reso defintiva la sanzione dell'ammenda (non se ne precisa le'ntita' nella sentenza 20220) inflitta rispettivamente ad un datore di lavoro e al medico dell'azienda 'Alenia' di Nola, 'rei' di non essersi presi cura, ciascuno per le proprie competenze, dei disturbi di cui soffriva un dipendente affetto da ''disturbo d'adattamento con stato di conflitto nell'ambiente di lavoro''. In particolare, la Terza sezione penale della Cassazione, confermando l'ammenda a Giorgio O., datore di lavoro e a Francesco O., medico dell'azienda, ha sottolineato che il primo, mutando mansioni al dipendente affetto da depressione (lo aveva nominato specialista in ingegneria della manutenzione con tanto di trasferimento), ''non aveva curato di assicurargli un'adeguata formazione professionale'', e il secondo perche', ''in qualita' di medico competente non aveva richiesto al datore di lavoro la visita medica specialistica sul lavoratore'' depresso. Da annotare che il dipendente, ben conoscendo i suoi problemi, aveva espressamente richiesto dei controlli specialistici dal momento che i suoi disturbi depressivi erano correlati al fatto che si sentiva ''inadeguato rispetto alle mansioni assegnategli''.


 

Immigrati: Cassazione, contro clandestini no a spirale di condanne

I questori possono emettere l'ordine di espulsione nei confronti dei clandestini recidivi una sola volta e questo per evitare di ''innescare una spirale di condanne''. La Corte di Cassazione torna sulla emergenza clandestini e in una sentenza di oggi della I sezione penale afferma che i questori una volta che hanno emesso l'ordine di espulsione nei confronti del clandestino recidivo non lo possono reiterare con un nuovo decreto. E questo perche' non si deve ''innescare una spirale di condanne ed esasperare la carica criminogena della normativa sull'immigrazione clandestina, la cui reale 'ratio' va identificata, piuttosto, nell'intento legislativo di assicurare l'effettivita' dell'allontanamento dal territorio italiano dello straniero''.
 


 

Cassazione: coniuge muore in incidente? Al superstite va risarcito anche funerale

Il coniuge muore in un incidente stradale per colpe non sue? Al superstite, oltre al danno esistenziale, deve essere risarcito anche il funerale. Lo sottolinea la Corte di Cassazione occupandosi del caso di una famiglia bresciana, composta da padre, madre e due figli maggiorenni, la cui vita venne sconvolta da un incidente stradale nel quale perse la vita il capofamiglia, Angelo C.. Nel febbraio del 1993, l'uomo alla guida della sua auto venne investito da un automobilista, Tarcisio G. e mori' sul colpo. Per la Suprema Corte, la perdita ''improvvisa'' del familiare ha sconvolto l'esistenza di una famiglia tanto affiatata (i componenti condividevano anche il lavoro) ''demotivandola anche rispetto alla vita futura''. Pertanto ai familiari di Angelo C. non dovra' essere riconosciuto soltanto il danno esistenziale (45 mila euro) ma devono essere liquidate anche le spese sostenute per il funerale (oltre 2700 euro) che saranno liquidate dall'automobilista che causo' l'incidente in solido con l'assicurazione. Quanto al riconoscimento del danno esistenziale alla famiglia distrutta - danno che la Corte d'appello di Brescia nel gennaio del 2002 non aveva riconosciuto - , la Terza sezione civile (sentenza 13546) osserva come ''la circostanza della morte dello stretto congiunto'' abbia ''comportato un' alterazione dell'equilibrio mentale riflettentesi sotto il profilo della difficolta' di partecipazione all'attivita' quotidiana e della demotivazione rispetto alla vita futura''. Il risarcimento, aggiungono ancora gli 'ermellini', non scatterebbe soltanto nel caso di ''situazioni di mera convivenza forzata, caratterizzata da rapporti deteriorati, contrassegnati da continue tensioni e screzi'' o nel caso in cui i ''coniugi sono separati in casa''. Da qui il rigetto del ricorso dell'assicurazione

 


 

Il pubblico ufficiale che, nella gestione del personale, emette provvedimenti contrari ai regolamenti recando un danno ingiusto può essere ritenuto responsabile di abuso di ufficio – In base all’art. 323 cod. pen. – In base all’art. 323 cod. pen. il reato di abuso di ufficio si configura tra l’altro, quando il pubblico ufficiale incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio in violazione di norme di legge o di regolamento intenzionalmente procura a se o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto.
              
Fra le norme regolamentari la cui violazione può dar luogo a tale reato vi sono quelle che disciplinano la forma, il contenuto e la causa dell’atto amministrativo, come quelle relative alla disciplina della competenza, dei presupposti e delle specifiche modalità dei trasferimenti del personale dipendente fra i diversi uffici dell’amministrazione. Pertanto anche l’emanazione da parte di un pubblico ufficiale o di un incaricato di pubblico servizio di un provvedimento di avvicendamento di dipendenti non rientrante nelle sue competenze, può costituire il reato di abuso di ufficio previsto dall’art. 323 cod. pen. Per la configurabilità di tale reato, nella ipotesi in cui all’agente sia contestato di avere arrecato un danno ingiusto, non rilevano solo le norme che vietano puntualmente il comportamento sostanziale del pubblico ufficiale o dell’incaricato di un pubblico servizio, ma ogni altra norma, anche di natura procedimentale, la cui violazione determina comunque un danno ingiusto a norma dell’art. 2043 cod. civ., precetto questo, che, secondo il più recente orientamento delle Sezioni Unite Civili, va considerato non come norma secondaria volta a sanzionare una condotta vietata da altre norme, ma come norma primaria volta ad apprestare una riparazione del danno ingiustamente sofferto da un soggetto per effetto dell’attività altrui (Cassazione Sezione Sesta Penale n. 22242 del 23 giugno 2006, Pres. De Roberto, Rel. Mannino).

 


 


INCOMBE AL DATORE DI LAVORO PROVARE DI AVER RISPETTATO IL REQUISITO DELL’IMMEDIATEZZA NELLA CONTESTAZIONE DELL’ADDEBITO DISCIPLINARE La prova presuntiva deve essere fondata su fatti noti (Cassazione Sezione Lavoro n. 14115 del 20 giugno 2006, Pres. Mileo, Rel. Lamorgese).
           
Mauro S. dipendente della Conad Emilia Ovest s.c.r.l. è stato sottoposto a procedimento disciplinare nel luglio del 1997 con l’addebito di avere partecipato nel novembre del 1996 alla preparazione di un documento di critica dei dirigenti della società presentato da alcuni soci in occasione dell’assemblea del novembre 1996. Poiché le giustificazioni da lui addotte sono state ritenute infondate, egli è stato licenziato. Nel giudizio che ne è seguito davanti al Tribunale di Reggio Emilia, il lavoratore ha sostenuto, tra l’altro, che il licenziamento doveva ritenersi nullo per tardività della contestazione dell’addebito. L’azienda si è difesa affermando di avere rinvenuto soltanto del giugno del 1997 un brogliaccio dal quale aveva potuto desumere la partecipazione del dipendente alla redazione del documento critico. Il Tribunale ha ritenuto legittimo il licenziamento, in quanto ha escluso la tardività dell’addebito osservando che, se l’azienda fosse venuta a conoscenza del comportamento scorretto del dipendente prima del giugno 1997, glielo avrebbe certamente contestato. Questa decisione è stata riformata dalla Corte di Appello di Bologna che ha rilevato che la circostanza del rinvenimento del brogliaccio nel giugno del 1997 non era stata provata dall’azienda. La Corte ha anche osservato che il Tribunale aveva escluso la tardività della contestazione in base ad una presunzione non utilizzabile in quanto fondata su un fatto ignoto; pertanto ha annullato il licenziamento, ordinando la reintegrazione di Mauro S. nel posto di lavoro e condannando l’azienda al risarcimento del danno. La società ha proposto ricorso per cassazione sostenendo, tra l’altro, che la Corte di Bologna aveva posto erroneamente a suo carico la prova dell’immediatezza della contestazione.
           
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 14115 del 20 giugno 2006, Pres. Mileo, Rel. Lamorgese) ha rigettato sul punto il ricorso. Perché le presunzioni semplici abbiano valore – ha affermato la Corte – è necessario che gli elementi presi in considerazione siano gravi, precisi e concordanti (art. 2729 cod. civ.); devono cioè essere tali da lasciare apparire l’esistenza del fatto ignoto come una conseguenza ragionevolmente probabile del fatto noto, dovendosi ravvisare una connessione fra i fatti accertati e quelli ignoti secondo regole di esperienza che convincano di ciò, sia pure con qualche margine di opinabilità; non è consentito al giudice, in  mancanza di un fatto noto, fare riferimento a un fatto presunto e derivare da questo un’altra presunzione. Nella specie – ha osservato la Corte – correttamente il giudice di appello ha negato la validità del ragionamento, seguito da quello di primo grado, per affermare la tempestività della contestazione di addebito formulata dalla società, in quanto nel sostenere che se questa avesse saputo delle inadempienze del suo dipendente lo avrebbe licenziato, ha, in sostanza, finito con il risalire da un fatto ignoto ad un altro fatto ignoto.
           
L’immediatezza della contestazione nel procedimento disciplinare – ha aggiunto la Corte – costituisce elemento costitutivo del recesso per giusta causa, che deve essere verificato di ufficio dal giudice; una volta eccepita dal lavoratore licenziato la tardività della contestazione, fa carico al datore di lavoro di dimostrare le ragioni impeditive della tempestiva cognizione del fatto poi addebitato al dipendente.

 

 


 

 

Il Comune risponde della situazione di pericolo derivante dalle imperfezioni nella realizzazione di una strada – Insidie e trabocchetti – Un Comune può essere ritenuto responsabile del risarcimento del danno subito da un cittadino in seguito ad un incidente causato dall’imperfetta esecuzione di una strada comunale. Nell’esercizio del suo potere discrezionale in materia di esecuzione e manutenzione di opere pubbliche il Comune incontra limiti derivanti sia da norme di legge, regolamentari e tecniche, sia da regole di comune prudenza e diligenza,  prima fra tutte quella del neminem laedere, in ossequio alle quali essa è tenuta a far sì che l’opera pubblica (in particolare una strada aperta al pubblico transito) non integri per gli utenti gli estremi di una situazione di pericolo occulto (cosiddetta insidia o trabocchetto). Tale situazione ricorre, in particolare, quando lo stato dei luoghi è caratterizzato dal doppio e concorrente requisito della non visibilità oggettiva del pericolo e della non prevedibilità subiettiva del pericolo stesso. L’accertamento della ricorrenza in concreto di una situazione di pericolo che abbia tali connotati involge una questione di fatto, come tale rimessa al giudice del merito, il cui convincimento non è sindacabile in sede di legittimità se adeguatamente motivato ed immune da vizi logici e giuridici (Cassazione Sezione Terza Civile n. 14456 del 22 giugno 2006, Pres. e Rel. Sabatini).