IL MANCATO REPERIMENTO DEL LAVORATORE A
DOMICILIO IN OCCASIONE DI UN CONTROLLO MEDICO PUO’ RITENERSI GIUSTIFICATO SE
EGLI SI E’ RECATO PRESSO UN CENTRO SPECIALIZZATO PER SOTTOPORSI A TERAPIE
–
Il rigore della
giurisprudenza si è attenuato (Cassazione Sezione Lavoro n. 8012 del 6 aprile
2006, Pres. Senese, Rel. Di Nubila).
Maggiorina O., dipendente della S.p.A. Poste Italiane, si è assentata dal lavoro
per malattia causata da postumi di un infortunio sul lavoro. Il 10 gennaio 1998
ella si è allontanata dal domicilio per seguire un ciclo di cure presso un
istituto convenzionato. Per questa ragione ella non è stata reperita presso il
suo domicilio dal medico incaricato dall’INPS di effettuare una visita di
controllo. Il giorno successivo la lavoratrice si è recata presso l’ambulatorio
medico-legale ove è stata sottoposta a visita di controllo, che ha avuto esito
per lei favorevole. L’azienda le ha applicato una sanzione disciplinare motivata
con riferimento alla sua assenza dal domicilio in occasione della visita di
controllo.
La
lavoratrice ha chiesto al Tribunale di Savona di annullare la sanzione,
sostenendo che l’allontanamento dal domicilio doveva ritenersi giustificato. Il
Tribunale ha rigettato la domanda. La Corte d’Appello ha riformato questa
decisione e, richiamando anche la normativa del contratto collettivo nazionale,
ha dichiarato illegittimo il provvedimento disciplinare subito dalla lavoratrice
affermando che: “la sanzione
disciplinare può essere irrogata al dipendente il quale, col suo comportamento,
dimostri di avere inteso sottrarsi al controllo medico; non è quindi sufficiente
la mera assenza del lavoratore alla visita domiciliare, ma occorre dimostrare
che egli abbia dolosamente inteso sottrarsi al detto controllo; il che non
ricorre nella fattispecie, dato che Maggiorina O. si trovava, pacificamente,
presso un centro specializzato per effettuare la prescritta terapia e, il giorno
seguente, ben volentieri si è sottoposta al controllo medico”.
La
S.p.A. Poste Italiane ha proposto ricorso per cassazione, richiamando la
giurisprudenza restrittiva della Suprema Corte in merito alla possibilità di
ritenere giustificato il mancato reperimento del lavoratore in occasione di un
controllo medico.
La
Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 8012 del 6 aprile 2006, Pres. Senese, Rel. Di
Nubila) ha rigettato il ricorso. La giurisprudenza citata dalla ricorrente Poste
Italiane – ha osservato la Corte – risale agli anni 1999-2000 e segue un
indirizzo rigoroso in tema di assenza a visita fiscale; successivamente
l’orientamento è divenuto meno rigoroso, con l’affermazione (Cass. n.
16996/2002) che “in tema di indennità
di malattia, il giustificato motivo di assenza, necessario per escludere la
sanzione per il mancato reperimento del lavoratore alla visita di controllo
durante le fasce orarie di reperibilità, non si identifica esclusivamente con lo
stato di necessità o di forza maggiore, potendo essere, invece, costituito, alla
stregua della sentenza n. 78/1988 della Corte Costituzionale, anche da una seria
e valida ragione, socialmente apprezzabile – la cui dimostrazione spetta al
lavoratore – quale quella di far constatare l’eventuale guarigione dalla
malattia, al fine della ripresa dell’attività lavorativa”
(nella specie veniva cassata una sentenza la quale aveva negato ingresso alla
prova per testi volta a dimostrare che il lavoratore si era recato dal proprio
medico di fiducia). Tale indirizzo – ha rilevato la Corte – è stato ribadito
dalla giurisprudenza successiva: Cass. nn. 22065/2004, 4247/2004, 9453/2005,
14735/2004, 15446/2004. Ai principi affermati dalla giurisprudenza più recente,
in base ai quali l’assenza dal domicilio per seguire un ciclo di cure può essere
apprezzato dal giudice di merito quale giustificato motivo del mancato
controllo, va aggiunta – ha osservato la Corte – l’interpretazione del CCNL
operata dalla Corte di Appello, secondo la quale ad integrare l’infrazione
contestata alla lavoratrice non è sufficiente la mera assenza dal domicilio del
lavoratore, ma occorre che ad essa si accompagni la volontà del lavoratore
stesso di sottrarsi alla visita di controllo, circostanza questa che nella
specie è stata negata.
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IL RITARDO NELLA IMPUGNAZIONE
DELLE SANZIONI DISCIPLINARI NON COMPORTA, DI PER SE’, ACQUIESCENZA –
L’azione può
essere proposta nel termine di prescrizione (Cassazione Sezione Lavoro n.
7546 del 30 marzo 2006, Pres. Mattone, Rel. Celentano).
Rosaria D., dipendente di una congregazione religiosa con mansioni di
infermiera, è stata licenziata in tronco nel dicembre 2000 dopo avere subito
due sanzioni disciplinari rispettivamente nel febbraio e nel marzo 2000.
Complessivamente ella ha ricevuto tre contestazioni di addebito, l’ultima
delle quali ha portato al licenziamento:
-
lettera del 27 gennaio
2000: “In data 26 gennaio u.s. è
giunta segnalazione dalla Capo sala e Capo Ostetrica dei suoi comportamenti
intollerabili e strafottenti con le colleghe legate alle sue dimenticanze ed
omissioni dei compiti a lei affidati e che alla luce dei fatti non vengono
mai ammessi, anzi, con atteggiamenti non consoni all’immagine della
struttura cui lei appartiene, li fa ricadere sulle sue colleghe”;
-
lettera del 28
febbraio 2000: “In data 18 febbraio
è giunta segnalazione dalla Capo sala che, per motivi assolutamente futili,
si è espressa in modo ingiurioso nei suoi riguardi e delle sue colleghe di
turno.”;
-
lettera dell’8
dicembre 2000: “Il giorno 24
novembre u.s. lei si è espressa in modo gravemente ingiurioso ed offensivo
nei confronti della Capo sala, rifiutando di svolgere compiti da questa
richiesti; analogo comportamento ella ha tenuto il giorno 26 novembre u.s.”.
La lavoratrice, con unico ricorso, ha chiesto al Tribunale di Como di
dichiarare l’illegittimità sia del licenziamento che delle due precedenti
sanzioni disciplinari. Ella ha sostenuto, tra l’altro, che la datrice di
lavoro aveva violato l’art. 7 St. Lav. perché le contestazioni erano
generiche. La Congregazione si è difesa sostenendo che l’infermiera era
stata posta in grado di difendersi e che comunque ella aveva prestato
acquiescenza alle prime due sanzioni, in quanto non le aveva tempestivamente
impugnate. Il Tribunale ha rigettato le domande proposte dalla lavoratrice.
La Corte d’Appello di Milano ha invece dichiarato l’illegittimità sia delle
due sanzioni minori, che del licenziamento, e ha ordinato la reintegrazione
dell’infermiera nel posto di lavoro, condannando la Congregazione al
risarcimento del danno. La Corte d’Appello ha escluso che la lavoratrice
abbia prestato acquiescenza alle prime due sanzioni ed ha ritenuto
sussistente la violazione dell’art. 7 St. Lav. per genericità delle
contestazioni degli addebiti. La datrice di lavoro ha proposto ricorso per
cassazione, censurando la decisione della Corte d’Appello per vizi di
motivazione e violazione di legge.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 7546 del 30 marzo 2006, Pres. Mattone,
Rel. Celentano) ha rigettato il ricorso. Per quanto riguarda la questione
della tardività dell’impugnazione delle prime due sanzioni la Cassazione ha
ritenuto corretta l’affermazione dei giudici di appello secondo cui
l’impugnazione di una sanzione disciplinare è consentita, quando non sia
ancora decorso il termine di prescrizione, sempre che il lavoratore non
abbia posto in essere un comportamento positivo dimostrante acquiescenza.
Che l’aver sofferto le sanzioni della sospensione senza immediatamente
impugnarle non sia comportamento dimostrante acquiescenza, mentre un
interesse ad impugnare può sorgere quando alle stesse sanzioni viene
collegato anche un più importante provvedimento, quale il licenziamento – ha
osservato la Corte – costituisce un giudizio di fatto che sfugge alle
censure della ricorrente, risultando congruamente motivato.
Per quanto concerne la genericità delle contestazioni la Cassazione ha
ricordato la sua costante giurisprudenza secondo cui l’art. 7 della legge n.
300 del 1970 va interpretato nel senso che la previa contestazione
dell’addebito, necessaria in funzione della applicazione di sanzioni
disciplinari, ha lo scopo di consentire al lavoratore l’immediata difesa e
deve conseguentemente rivestire il carattere della specificità, che è
integrato quando sono fornite le indicazioni necessarie ed essenziali per
individuare, nella sua materialità, il fatto o i fatti nei quali il datore
di lavoro abbia ravvisato infrazioni disciplinari o comunque comportamenti
in violazione dei doveri di cui agli artt. 2104 e 2105 cod. civ.
L’accertamento relativo al requisito della specificità della contestazione –
ha affermato la Corte – costituisce oggetto di una indagine di fatto,
incensurabile in sede di legittimità, salva la verifica di logicità e
congruità delle ragioni esposte dal giudice di merito. Esaminato il
contenuto delle lettere sopra riportate - ha rilevato la Corte – i giudici
di appello hanno rilevato che in nessuna delle contestazioni vi era
riferimento a fatti specifici, ma solo la generica contestazione di
comportamenti aggettivati in modo negativo; “si
parla di dimenticanze e di omissioni, di rifiuto di svolgere compiti
richiesti, ma”
– prosegue la sentenza – “non si
indica nulla su cosa sia stato rifiutato o dimenticato”,
si tratta di una motivazione congrua, che sottolinea la mancanza, nella
contestazione, di fatti specifici, con il mero riferimento a comportamenti
qualificati negativamente e a compiti non assolti, senza una concreta
indicazione degli stessi.
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Ai
fini penali i dipendenti della S.p.A. Poste Italiane addetti allo
smistamento della corrispondenza devono ritenersi incaricati di pubblico
servizio – In base all’art. 358 C.P. –
Ai fini penali il
dipendente della S.p.A. Poste Italiane deve ritenersi incaricato di pubblico
servizio. La definizione di pubblico servizio data dal secondo comma
dell’art. 358 c.p. si articola su due elementi essenziali, il primo, di
natura obiettiva, riguarda l’esercizio di un’attività disciplinata nelle
stesse forme della pubblica funzione, benché priva dei poteri tipici di
quest’ultima; il secondo, di carattere soggettivo, riguarda lo svolgimento
di mansioni non puramente di ordine e della prestazione d’opera non
meramente materiale. In ossequio a questa definizione si ritiene, in tema di
qualificazione soggettiva degli addetti ai servizi postali, che la
trasformazione dell’amministrazione postale in ente pubblico economico e la
successiva adozione della forma della società per azioni, di cui alla legge
23 dicembre 1996, n. 662, non fanno venir meno la natura pubblicistica non
solo dei servizi postali definiti riservati dal D.Lgs. 22 luglio 1999, n.
261, ma neppure dei servizi non riservati, come quelli relativi alla
raccolta del risparmio attraverso i libretti di risparmio postale ed i buoni
postali fruttiferi (cosiddetto “bancoposta”), ora disciplinata dal D.Lgs. 30
luglio 1999, n. 284 (Cass. Sez. 6, 15 giugno 2004 n. 36007, ric. Perrone ed
altro; Sez. 6, 8 marzo 3001 n. 20118, ric. Di Bartolo B.).
Ne
consegue, sotto il profilo oggettivo, che, anche dopo la trasformazione
dell’Ente Poste in società per azioni, i servizi postali e quelli di
telecomunicazioni appartengono al novero dei servizi pubblici per due
ragioni: sia per la situazione di sostanziale monopolio alla produzione
affidata all’Ente Poste, senza che abbia alcun rilievo la possibilità che
alcune attività del servizio possano essere gestite in regime di concessione
amministrativa, giacché non viene meno la funzione e il ruolo di pubblico
interesse del servizio; sia per la funzione pubblica che, in relazione
all’esigenza di garantire i valori costituzionali della libertà e della
segretezza delle comunicazioni (art. 15 Cost.) assume il mezzo di raccolta,
di trasporto e distribuzione della corrispondenza. Sotto il profilo
soggettivo, che riveste la qualità di incaricato di pubblico servizio
l’impiegato postale addetto alla selezione e allo smistamento della
corrispondenza in arrivo o in partenza. Pertanto, nel caso dell’addetto al
servizio postale che manometta un plico impossessandosi delle banconote ivi
contenute, è configurabile il concorso dei delitti di peculato e di
violazione di corrispondenza, non sussistendo un rapporto di specialità tra
l’art. 616 e l’art. 314 c.p.. Infatti, la clausola “se il fatto non è
preveduto come reato da altra disposizione di legge”, contenuta nell’art.
616 c.p., va interpretata con riferimento al fatto tipico della presa di
cognizione del contenuto di una corrispondenza ovvero della sua sottrazione,
distrazione, distruzione o soppressione, eventualmente descritto in una
norma penale diversa da quella dell’art. 616; condotte, queste, non
specificamente enunciate nel delitto di peculato, che ha diversa oggettività
giuridica rispetto all’altra figura delittuosa (Cassazione Sezione VI Penale
n. 11654 del 4 aprile 2006, Pres. Romano, Rel. Mannino).
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L’ASSEGNO DI DIVORZIO
PUO’ ESSERE RIDOTTO SE IL REDDITO DEL CONIUGE CHE LO DEVE CORRISPONDERE SUBISCE
UNA DIMINUZIONE PER LA SUA DECISIONE DI LAVORARE A TEMPO PARZIALE – In
base all’art. 9 del legge n. 898 del 1970 (Cassazione Sezione Prima Civile n.
5378 dell’11 marzo 2006, Pres. Lo Savio, Rel. Napoleoni).
La scelta, da parte del coniuge divorziato, di lavorare a
tempo parziale, anziché a tempo pieno come al momento del divorzio, può
giustificare la riduzione dell’assegno mensile da lui dovuto per sentenza
all’altro coniuge.
L’art. 9, primo comma, legge n. 898 del 1970, nel consentire
la revisione in ogni tempo delle statuizioni in materia di assegno di divorzio,
allorché sopravvengono giustificati motivi, rende palese che tali disposizioni
vengono adottate rebus sic stantibus rimanendo suscettibili di modifiche
a fronte di successive variazioni della situazione di fatto posta a fondamento
della decisione.
Costituiscono giustificati motivi di revisione i mutamenti
delle condizioni economiche di uno o di entrambi gli ex coniugi. Nell’ipotesi in
cui si verifichi un peggioramento delle condizioni economiche dell’obbligato,
per la contrazione dei suoi redditi da lavoro, l’incidenza di questo evento non
può essere aprioristicamente esclusa in ragione del fatto che il decremento
consegua a scelte dell’ex coniuge, come quando questi decida di limitare
l’entità del proprio impegno, optando per il lavoro a tempo parziale, in luogo
di quello a tempo pieno. Questa scelta deve ritenersi pienamente legittima in
quanto esplicazione di fondamentali diritti di libertà della persona, quali
quelli di libera disponibilità delle proprie energie fisiche ed intellettive e
di libera scelta dell’attività lavorativa (artt. 2 e 4 della Costituzione).
Non si può dunque ritenere che le disposizioni in tema di
assegno contenute nella pronuncia di divorzio “cristallizzino” la posizione
dell’obbligato sul piano dell’attività lavorativa, nel senso di impegnarlo
comunque ad “assistere”, e nella stessa misura, l’ex coniuge beneficiario, anche
quando – per effetto di legittime, anche se non necessitate, decisioni riguardo
alla propria vita professionale – il divario fra le condizioni economiche delle
parti, a fronte del quale l’assegno era stato riconosciuto, si sia ridotto o
annullato, o addirittura la situazione del beneficiario sia divenuta più
favorevole di quella dell’obbligato