IL CONCORSO PUBBLICO COSTITUISCE LA FORMA GENERALE E ORDINARIA DI RECLUTAMENTO DEI DIPENDENTI DELLE PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI – Quale meccanismo imparziale di selezione (Corte Costituzionale sentenza n. 363 del 9 novembre 2006, Pres. Bile, Red. Cassese).
           
Il Presidente del Consiglio dei ministri, nel settembre del 2005, ha proposto ricorso, davanti alla Corte Costituzionale, contro l’art. 1, comma 3 della legge della Provincia autonoma di Bolzano 20 giugno 2005 n. 3 in materia di assunzione di dirigenti, sostenendo che questa disposizione si è posta in contrasto con tre norme della Costituzione: l’art. 3 (principio di eguaglianza), l’art. 51 (accesso agli uffici pubblici) e l’art. 97 (imparzialità dell’amministrazione, accesso mediante concorso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni). La disposizione impugnata prevede che il personale dirigente nominato a tempo determinato per chiamata dall’esterno – qualora abbia prestato servizio per almeno sei anni, svolgendolo «con particolare successo» – possa essere iscritto, con delibera della Giunta provinciale, nella sezione A) dell’albo degli aspiranti dirigenti, e che tale iscrizione comporta la costituzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, con inquadramento nella qualifica funzionale corrispondente al titolo di studio richiesto per l’incarico dirigenziale ricoperto. Essa si collega all’art. 14 della legge n. 10 del 1992, che consente la nomina, a tempo determinato (commi 1 e 3) e con possibilità di rinnovo (comma 7), a direttore di ripartizione (nella misura del 30%) e a direttore di dipartimento (senza limitazioni), ma non a direttore d’ufficio (comma 2), di persone estranee all’amministrazione provinciale, di riconosciuta esperienza e competenza, in possesso del diploma di laurea e dei requisiti prescritti per l’accesso all’impiego presso l’amministrazione provinciale, escluso il limite di età.
           
La Corte Costituzionale con sentenza n. 363 del 9 novembre 2006 (Pres. Bile, Red. Cassese) ha ritenuto fondata la questione. La disposizione impugnata – ha osservato la Corte – consente che la Giunta provinciale iscriva nella sezione A) dell’albo i dirigenti chiamati dall’esterno in possesso di determinati requisiti, attribuendo espressamente a tale iscrizione l’effetto della costituzione nei loro confronti di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato. Destinatari sono i dirigenti cui l’incarico è stato conferito dalla stessa Giunta, scegliendo tra persone estranee all’amministrazione provinciale, di riconosciuta esperienza e competenza, in possesso del diploma di laurea e dei requisiti prescritti per l’accesso all’impiego presso la Provincia, escluso il limite di età. Le condizioni richieste sono due: almeno sei anni di servizio dirigenziale presso l’amministrazione, come dirigente nominato dall’esterno; l’aver svolto con particolare successo i compiti dirigenziali affidati.
           
La norma impugnata – ha rilevato la Corte – dispone una deroga al principio del pubblico concorso; la circostanza che essa sia stata introdotta da una legge della Provincia autonoma di Bolzano, con competenza legislativa primaria in materia di ordinamento degli uffici e del personale ad essi addetto, non incide sui termini della questione; tale potestà, infatti, deve essere esercitata in armonia con la Costituzione (artt. 8 e 4 del decreto del Presidente della Repubblica 31 agosto 1972, n. 670, contenente «Approvazione del testo unico delle leggi costituzionali concernenti lo statuto speciale per il Trentino-Alto Adige»).
           
Il concorso pubblico, quale meccanismo imparziale di selezione tecnica e neutrale dei più capaci sulla base del criterio del merito – ha affermato la Corte – costituisce la forma generale e ordinaria di reclutamento per le pubbliche amministrazioni; esso è posto a presidio delle esigenze di imparzialità e di efficienza dell’azione amministrativa; le eccezioni a tale regola consentite dall’art. 97 Cost., purché disposte con legge, debbono rispondere a «peculiari e straordinarie esigenze di interesse pubblico»; altrimenti la deroga si risolverebbe in un privilegio a favore di categorie più o meno ampie di persone. Perché sia assicurata la generalità della regola del concorso pubblico disposta dall’art. 97 Cost. – ha aggiunto la Corte – l’area delle eccezioni va, pertanto, delimitata in modo rigoroso.
           
La disposizione impugnata conferisce alla Giunta provinciale il potere – ordinario nel tempo, illimitato nei presupposti e nelle modalità di esercizio – di immettere stabilmente nei ruoli dell’amministrazione i dirigenti che la stessa Giunta aveva assunto a tempo determinato senza concorso, alla duplice condizione che gli stessi abbiano prestato servizio per almeno sei anni e «con particolare successo». In essa non c’è traccia delle ragioni giustificatrici che legittimerebbero la deroga.
           
In particolare – ha osservato la Corte – non sono delimitati i presupposti per l’esercizio del potere di assunzione; la costituzione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato non è subordinata all’accertamento di specifiche necessità funzionali dell’amministrazione, in rapporto a carenze di organico, alla conoscenza delle lingue o ad altre specificità della Provincia; conseguentemente, l’organo politico potrebbe decidere di assumere senza concorso un numero di dirigenti non definito, scegliendoli tra quelli già utilizzati a tempo determinato; non sono, inoltre, previste procedure imparziali e obiettive di verifica dell’attività svolta, per la valutazione di idoneità ad altri incarichi dirigenziali, in grado di garantire la selezione dei migliori; a tal fine, non è utile il riferimento al «particolare successo» conseguito nello svolgimento del precedente incarico.
           
Infine – ha concluso la Corte – dall’esercizio di tale potere sarebbero pregiudicati proprio i dipendenti di ruolo dell’amministrazione ammessi in base a concorso, che vedrebbero diminuite le possibilità di accedere all’albo dei dirigenti secondo le procedure ordinarie, stanti il numero chiuso della sezione A) dell’albo e i limiti annuali di accesso ad esso. Pertanto la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 3, della legge della Provincia autonoma di Bolzano 20 giugno 2005 n. 3.
            
     

L’AVVENUTA CONTESTAZIONE PREVENTIVA DEGLI ADDEBITI DISCIPLINARI IN FORMA SCRITTA DEVE ESSERE TEMPESTIVAMENTE DIMOSTRATA DAL DATORE DI LAVORO Nel giudizio di primo grado (Cassazione Sezione Lavoro n. 23717 del 7 novembre 2006, Pres. Sciarelli, Rel. Vidiri).
           
Mario T., dipendente del Consorzio di Bonifica Stornara e Tara, è stato licenziato con motivazione riferita all’addebito di avere tenuto una condotta imprudente e priva della necessaria perizia nella direzione dei lavori di realizzazione di alcune vasche di accumulo. Il lavoratore ha chiesto al Tribunale di Taranto di annullare il licenziamento sia per l’infondatezza della motivazione sia perché, pur avendo natura disciplinare, il provvedimento non era stato preceduto dalla contestazione in forma scritta dagli addebiti, come previsto dall’art. 7 St. Lav.. Il Consorzio, nel giudizio di primo grado, si è difeso nel merito, senza rispondere al rilievo di violazione della forma procedimentale prevista dall’art. 7 St. Lav.. Il Tribunale ha annullato il licenziamento. Il Consorzio ha proposto appello, sostenendo di avere rispettato l’obbligo di preventiva contestazione dell’addebito, in quanto, prima del licenziamento, aveva ripetutamente fatto presente al lavoratore che egli aveva tenuto un comportamento contrario ai suoi doveri nell’esecuzione dei lavori. La Corte d’Appello di Taranto ha rigettato l’impugnazione proposta dall’azienda osservando che la tesi sostenuta dal Consorzio, di avere rispettato la procedura prevista dall’art. 7 St. Lav., era inammissibile in quanto prospettata per la prima volta in grado di appello e che comunque dalle affermazioni dell’appellato emergeva che la contestazione degli addebiti sarebbe avvenuta in forma orale e non per iscritto come stabilito dall’art. 7 St. Lav.. L’azienda ha proposto ricorso per cassazione, censurando la sentenza della Corte di Taranto per vizi di motivazione e violazione di legge.
           
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 23717 del 7 novembre 2006, Pres. Sciarelli, Rel. Vidiri) ha rigettato il ricorso. L’azienda – ha osservato la Cassazione – avrebbe dovuto difendersi nel giudizio di primo grado sulla questione, sollevata dal ricorrente, del mancato rispetto della procedura prevista dall’art. 7 St. Lav., contestando specificamente il rilievo di inosservanza dell’obbligo di preventiva comunicazione al lavoratore in forma scritta dell’addebito disciplinare; inoltre il giudice dell’appello ha motivatamente rilevato che l’eventuale comunicazione dell’addebito sarebbe avvenuto in forma orale. L’art. 7 St. Lav., per la natura degli interessi tutelati – ha affermato la Suprema Corte – non consente in alcun modo che tempi, forme e modalità della contestazione disciplinare siano diversi da quelli espressamente stabiliti dal legislatore, né permette che all’incolpato vengano assicurate garanzie difensive minori di quelle garantite.
           
 

 
LA CONTROVERSIA PROMOSSA DAL VINCITORE DI UN CONCORSO PUBBLICO PER OTTENERE L’ASSEGNAZIONE A UNA DETERMINATA SEDE RIENTRA NELLA GIURISDIZIONE DEL GIUDICE ORDINARIO – In base all’art. 2907 cod. civ. (Cassazione Sezioni Unite Civili n. 23737 dell’8 novembre 2006, Pres. Carbone, Rel. La Terza).
            La controversia promossa nei confronti della pubblica amministrazione dal vincitore di un concorso al fine di ottenere il riconoscimento del suo diritto all’assegnazione ad una determinata sede rientra nella giurisdizione del giudice ordinario e pertanto deve essere promossa davanti al Tribunale del lavoro. Invero è già stato affermato (Sez. Un. n. 6421 del 25 marzo 2005) che in tema di lavoro pubblico “privatizzato” ed in ipotesi di procedura di mobilità del personale docente riguardante i passaggi di cattedra e di ruolo della scuola secondaria superiore, va esclusa la configurabilità di situazioni di interesse legittimo e della giurisdizione amministrativa, mentre va ricondotto al diritto soggettivo l’interesse pregiudicato da decisioni assunte in esito a procedimenti riconducibili all’esercizio dei poteri del privato datore di lavoro le quali, non incidendo direttamente sui rapporti di lavoro dedotti in giudizio, determinano taluni assetti organizzativi del personale. La presente fattispecie, che attiene alla assegnazione della sede è analoga a quella oggetto della pronunzia citata. Né può essere ricondotta alla nozione allargata di “procedura concorsuale per l’assunzione”, comprendente il passaggio da un’area funzionale ad altra, rispetto alla quale sono configurabili interessi legittimi non solo per i partecipanti alla procedura stessa, ma anche per il terzi in qualche modo “interessati”.
            La conclusione è che la natura privata del procedimento di assegnazione delle sedi non consente di configurare in astratto interessi legittimi, situazioni giuridiche soggettive concepibili soltanto in correlazione con l’attività autoritativa dell’amministrazione, attività autoritativa che costituisce il presupposto costituzionalmente obbligato perché una controversia sia attribuita, ai sensi dell’art. 103 Cost., alla speciale giurisdizione del giudice amministrativo, ivi compresa quella esclusiva. Principio, questo, ribadito dal recente intervento legislativo attuato con la legge 11 febbraio 2005, n. 15, recante modifiche ed integrazioni alla legge 7 agosto 1990, n. 241, con l’inserimento dell’art. 1-bis: “La pubblica amministrazione, nell’adozione di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato salvo che la legge disponga diversamente”. Di fronte all’attività non autoritativa e di diritto privato delle amministrazioni pubbliche, tutte le situazioni giuridiche soggettive degli interessati vanno ricondotte alla categoria dei diritti di cui all’art. 2907 cod. civ. ai fini dell’identificazione del giudice competente per la tutela.
 

La pubblica denigrazione del datore di lavoro da parte del dipendente costituisce violazione delle regole di convivenza civile – L’infrazione è punibile anche se non inclusa nel codice disciplinare – La pubblica denigrazione del datore di lavoro da parte del dipendente costituisce violazione delle regole di convivenza civile che impongono il reciproco rispetto e che sono radicate nella coscienza  sociale. Si tratta pertanto di infrazione punibile in sede disciplinare, senza che sia necessaria la sua inclusione nel codice disciplinare preventivamente affisso nel luogo di lavoro, in base all’art. 7 St. Lav. (Cassazione Sezione Lavoro n. 23726 del 7 novembre 2006, Pres. Ciciretti, Rel. Monaci).
 


LA LUNGA DURATA DELLA DEQUALIFICAZIONE E’ ELEMENTO DI PROVA UTILIZZABILE AI FINI DELL’ACCERTAMENTO DEL DANNO In conformità con l’orientamento espresso dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 6572 del 2006 (Cassazione Sezione Lavoro n. 22551 del 20 ottobre 2006, Pres. Est. Lupi).
           
Anna T. ed altri dipendenti della Telecom Italia, addette ai servizi del 187 e del 12 in modo promiscuo, con effetto dal luglio del 1997 sono state impiegate unicamente per il servizio del 12. Esse si sono rivolte, nel luglio del 2000, al Tribunale di Milano, sostenendo di avere subito una dequalificazione perché i servizi del 187 erano più qualificanti in quanto richiedevano interventi diversificati nel rapporto con il pubblico; pertanto esse hanno chiesto la condanna della datrice di lavoro al risarcimento del danno professionale da loro subito. Sia il Tribunale che, in grado di appello, la Corte di Milano hanno ritenuto fondata la domanda ed hanno condannato l’azienda al risarcimento del danno. La Corte milanese ha ritenuto che la dequalificazione, essendosi protratta per oltre tre anni, abbia determinato una perdita di professionalità, con conseguente danno patrimoniale consistente in una perdita di valore sul mercato del lavoro. L’azienda ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione della Corte di Milano per vizi di motivazione e violazione di legge.
           
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 22551 del 20 ottobre 2006, Pres. Est. Lupi) ha rigettato il ricorso richiamando la recente pronuncia delle Sezioni Unite n. 6572 del 2006 secondo cui: “In tema di demansionamento e di dequalificazione il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico e esistenziale, che asseritamente ne deriva – non ricorrendo in tutti i casi di inadempimento datoriale – non può prescindere da una specifica allegazione nel ricorso introduttivo del giudizio sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo; mentre il risarcimento del danno biologico è subordinato alla esistenza di una lesione della integrità psicofisica medicalmente accertabile, il danno esistenziale – da intendere ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare areddituale del soggetto, va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni”.
           
Nella specie – ha osservato la Cassazione – le lavoratrici con i ricorsi introduttivi avevano adempiuto all’onere di allegazione, deducendo il danno professionale per perdita di valore sul mercato del lavoro, nonché per perdita di possibilità di carriera ed il danno alla personalità o esistenziale; accertata la dequalificazione professionale per il passaggio da una attività, che consisteva nel fornire informazioni anche di natura contrattuale al pubblico, promozione e vendita di servizi, ad una di mera ricerca di numeri telefonici ed indirizzi su elenchi, la Corte di Milano ha stabilito che la dequalificazione protratta per circa tre anni implicava una perdita di professionalità che si risolveva in un danno patrimoniale derivante dalla conseguente perdita di valore sul mercato del lavoro. La logicità di questo accertamento di fatto, fondato evidentemente sulla presunzione che lo svolgimento di un attività meno qualificata faccia venir meno o comunque diminuisca l’attitudine a mansioni più qualificate e che il valore di mercato di un lavoratore si fonda sul suo curriculum professionale – ha osservato la Cassazione – non è stata specificamente contestata dalla società ricorrente che si è limitata a citare giurisprudenza sulla necessità della prova del danno, quando questo era stato specificamente accertato alla stregua di presunzioni.

 


La retribuzione per il lavoro straordinario non è vincolata a parametri rigidi ed inderogabili – In base all’art. 36 Cost. Rep. – La più recente giurisprudenza della Corte Costituzionale, che ha riconosciuto la possibilità di non vincolare la retribuzione per il lavoro straordinario a rigidi ed inderogabili parametri economici, riconoscendo la piena legittimità di disposizioni di legge recanti la previsione di un compenso inferiore a quello erogato per l’orario ordinario e ribadendo che il diritto ad una retribuzione proporzionata e sufficiente ex art. 36 Cost. si riferisce non ai singoli elementi retributivi, bensì al trattamento economico globale, comprensivo della retribuzione per lavoro straordinario. Nella stessa direzione si è mossa anche la giurisprudenza della Suprema Corte, che, nel decidere una fattispecie nella quale, a causa del blocco preclusivo di qualsiasi modifica agli importi di trattamenti che includevano una quota dell’indennità integrativa speciale, ha riconosciuto la legittimità di un sistema normativo in base al quale il compenso per lavoro straordinario finiva nel corso degli anni per diventare inferiore alla retribuzione del lavoro ordinario e, conseguentemente, per non rispettare neanche il disposto dell’art. 2108 c.c.
               Con riguardo, poi, all’ipotesi in cui la contrattazione collettiva fissi un limite di orario normale inferiore a quello predeterminato per legge, è consentito  alla stessa contrattazione determinare l’assetto degli interessi nel senso che il superamento dell’orario contrattuale fino al limite di quello legale non debba essere compensato secondo la disciplina del lavoro straordinario. Non si tratta di contraddire il principio, pacifico nella giurisprudenza della Corte, secondo cui è lavoro straordinario anche quello prestato oltre l’orario stabilito dal contratto (collettivo o individuale), siccome la fonte contrattuale, nell’escludere esplicitamente la disciplina retributiva propria del lavoro straordinario, sostituendola con una del tutto autonoma e diversa, manifesta l’intento di non considerare la protrazione di orario come lavoro straordinario (e cioè a prescindere da esplicite qualificazioni, come lavoro “supplementare” e simili, siccome la specifica regolamentazione del trattamento retributivo non consente dubbi interpretativi) (Cassazione Sezione Lavoro n. 22233 del 17 ottobre 2006, Pres. Ravagnani, Rel. Picone).