Avvocati: vietato utilizzare il titolo di giudice onorario sulla carta intestata

I Giudici delle Sezioni Unite Civili della Corte di Cassazione (Sent. n. 48672006), intervenendo sulla questione relativa a un avvocato che aveva inserito nella propria carta intestata, utilizzata nell’esercizio delle attività professionali, il titolo di 'giudice onorario', hanno precisato che l’art. 17, II, lett. A, del codice deontologico stabilisce che la qualità di giudice onorario di un tribunale non è sicuramente una qualità della persona che attiene all'attività professionale di avvocato esercitata e che “l'attività dell'avvocato è disciplinata dal r.d. 1578/1933 e si distingue ontologicamente da quella del giudice onorario, che è disciplinata dagli artt. 42-septies e seguenti del r.d. 12/1941, contenente l'ordinamento giudiziario”. Con questa decisione la Corte ha confermato la decisione assunta dal Consiglio Nazionale Forense

Corte di Cassazione, Sezioni Unite Civili, Sentenza 13 gennaio 2006, n. 486

Motivi della decisione


Con il primo motivo la ricorrente ha dedotto violazione di legge e/o falsa applicazione di norme di diritto in riferimento agli artt. 3 e 17 codice deontologico forense sul presupposto che è errato sostenere che le funzioni di giudice onorario sono estranee alla professione di avvocato, sia perché l'esercizio di questa professione è titolo di preferenza per la nomina dei magistrati onorari, e sia perché al magistrato onorario è riservato un trattamento economico soggetto a fatturazione, essendo nella funzione prevalente la componente professionale dell'avvocato. Ha aggiunto che l'informazione per cui è causa non è tra quelle vietate e che essa non può essere ritenuta illecita per il solo fatto di non essere prevista tra quelle consentite. Ha evidenziato la mancanza nella decisione impugnata di una indagine intesa a stabilire l'esistenza dell'elemento soggettivo.

Ritiene la Corte che la censura è infondata.

La norma che occorre esaminare è quella contenuta nell'art. 17, II, lett. A, del codice deontologico che è del seguente tenore:

"Sono consentiti e possono essere indicati i seguenti dati:

I dati personali necessari (nomi, indirizzi, anche web, numeri di telefono e fax e indirizzi di posta elettronica, dati di nascita e di formazione del professionista, fotografie, lingue conosciute, articoli e libri pubblicati, attività didattica, onorificenze, e quant'altro relativo alla persona, limitatamente a ciò che attiene all'attività professionale esercitata)".

La lettera della norma induce a ritenere che la qualità di giudice onorario di un tribunale non è sicuramente una qualità della persona che attiene all'attività professionale di avvocato esercitata.

L'attività dell'avvocato è disciplinata dal r.d. 1578/1933 e si distingue ontologicamente da quella del giudice onorario, che è disciplinata dagli artt. 42-septies e seguenti del r.d. 12/1941, contenente l'ordinamento giudiziario.

L'art. 42-septies citato significativamente stabilisce che "il giudice onorario di tribunale è tenuto all'osservanza dei doveri previsti per i magistrati ordinari, in quanto compatibili", mentre l'art. 42-quater, comma 2, del decreto sancisce l'incompatibilità tra l'attività di giudice onorario e quella di avvocato nell'ambito del circondario nel quale si svolge il ruolo di giudice onorario. Queste norme dimostrano, se ve ne fosse bisogno, che le due attività sono profondamente diverse tra loro tanto da essere incompatibili in uno stesso ambito territoriale. La conclusione, allora, deve essere nel senso che l'informazione che l'avvocato dà in ordine alla attività di giudice onorario non attiene alla professione di avvocato, ma attiene alla qualità di giudice onorario, e cioè di un organo che - sia pure temporaneamente - appartiene alla giurisdizione.

La ratio della norma deontologica qui esaminata, la cui lettera fornisce già una risposta esaustiva, conferma che alla base del principio che legittima soltanto le informazioni che attengono alla professione di avvocato c'è la giusta preoccupazione che notizie di altro genere possano alterare i limiti di una concorrenza che deve svolgersi secondo regole molto precise, poste a garanzia della par condicio. Una informazione che esplicita per quel soggetto lo svolgimento di una attività di giudice, pur se onorario, indicando una appartenenza ad un ordine che ha un ruolo e compiti istituzionali, sicuramente diversi rispetto a quelli che svolge l'avvocatura, aggiunge oggettivamente, nella posizione di chi comunica quella informazione, un elemento in più idoneo a violare in astratto quella par condicio.

Anche la censura relativa alla pretesa mancata indagine in ordine all'elemento psicologico non è fondata poiché il Consiglio Nazionale Forense ha esaminato questo profilo ed ha formulato una valutazione di fatto, congruamente motivata, e quindi non censurabile in sede di legittimità.

Con il secondo motivo la ricorrente ha dedotto "nullità della sentenza ex art. 161, comma 2, c.p.c. per violazione dell'art. 132, comma 2, sub n. 5 in combinato disposto con l'art. 64 r.d. 37/1934" perché la decisione a lei notificata è siglata nei primi tre fogli, mentre al quarto foglio non vi è né alcuna sigla, né la firma di segretario e presidente, bensì solo l'indicazione delle firme ("f.to").

Ritiene la Corte che la censura è infondata poiché nell'ultima pagina della sentenza, c'è l'attestazione di conformità della copia all'originale da parte del Consigliere Segretario, e poiché quella pagina viene data per firmata sia da parte del Presidente avv. P.A. sia da parte del Segretario avv. U.P. E questo è sufficiente per ritenere che l'originale della decisione è stato firmato.

Con il terzo motivo l'avv. P. ha denunciato eccesso di potere e/o omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia in quanto il Consiglio Nazionale Forense non ha preso in esame tutti i rilievi mossi negli scritti difensivi.

Questa censura, per la sua estrema genericità, contrasta con il principio di autosufficienza del ricorso ed è quindi inammissibile.

Nulla va disposto per le spese non avendo il Consiglio dell'Ordine svolto attività difensive in questa sede.


P.Q.M.


Rigetta il ricorso.

Approvata la modifica della disciplina sulle intercettazioni per la ricerca del latitante

E’ stata approvata la Legge n. 56 del 14.02.2006 (pubblicata in G.U. 01.03.2006) che apporta una modifica dell'art. 295 del codice di procedura penale in materia di intercettazioni per la ricerca del latitante. Nel provvedimento è stata attribuita al presidente di corte d'assise (nei procedimenti devoluti alla competenza della medesima e in luogo dell'organo giudicante nella sua composizione collegiale) la competenza di adottare provvedimenti di intercettazione di conversazioni o comunicazioni telefoniche per la ricerca del latitante. La Legge ha così introdotto il comma 3-ter all'articolo 295 del codice di procedura penale.
 

LEGGE 14 febbraio 2006, n.56

Modifica dell'articolo 295 del codice di procedura penale, in materia di intercettazioni per la ricerca del latitante. (GU n. 50 del 1-3-2006)

La Camera dei deputati ed il Senato della Repubblica hanno approvato;

IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA

Promulga

la seguente legge:

Art. 1.

1. All'articolo 295 del codice di procedura penale, dopo il comma 3-bis, e' aggiunto il seguente:

«3-ter. Nei giudizi davanti alla Corte d'assise, ai fini di quanto previsto dai commi 3 e 3-bis, in luogo del giudice provvede il presidente della Corte».


La presente legge, munita del sigillo dello Stato, sara' inserita nella Raccolta ufficiale degli atti normativi della Repubblica italiana. E' fatto obbligo a chiunque spetti di osservarla e di farla osservare come legge dello Stato.

Data a Roma, addi' 14 febbraio 2006

CIAMPI

Berlusconi, Presidente del Consiglio dei Ministri

Visto, il Guardasigilli: Castelli

 

Militari: trasferimento ad altra base deve essere motivato

Come esposto nella parte in fatto che precede, il sig. I.G.D., all’epoca sergente maggiore dell’Aeronautica Militare in servizio presso il 32° Stormo di Brindisi, ha proposto appello avverso la decisione, con la quale il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia, sede di Lecce, ha respinto il ricorso da lui proposto per l’annullamento del provvedimento di trasferimento da Brindisi ad Amendola, disposto nell’àmbito di un piano di reimpiego generale elaborato dall’Amministrazione militare. L’appellante contesta tale decisione, di cui sostiene la palese erroneità, in quanto il provvedimento di trasferimento risulterebbe affetto dai vizii denunciati con il ricorso di primo grado, essendo stato adottato in violazione del dovere dell’Amministrazione di motivare in ordine alle scelte effettuate. “Se è vero infatti”, si afferma, “che, a differenza dei dipendenti civili dello Stato, non è configurabile per i militari una situazione giuridica tutelabile in ordine alla sede di servizio, giacchè per essi la permanenza in una sede o in un’altra costituisce mera modalità del servizio al quale sono tenuti, è tuttavia altrettanto vero che, ove l’Amm.ne militare, mediante appositi regolamenti, autolimiti il proprio potere a tutela e garanzia della sfera giuridica dei militari, non può da ciò non farsi conseguire un obbligo per la stessa Amm.ne di rispettare la normativa che si è data