VA TUTELATA LA PRIVACY DEL POLIZIOTTO GAY
La Cassazione ha dato ragione a un agente sospeso dopo che le sue foto erano apparse su un sito sado-maso
Roma La Cassazione dà un netto altolà al ministero dell'Interno avvertendolo che non può sottoporre a procedimento disciplinare i poliziotti gay in base a informazioni, sulle inclinazioni sessuali, scaricate da internet senza l'autorizzazione della magistratura. In particolare la Suprema Corte ha accolto il ricorso di M. T., un ispettore sospeso dal servizio e dallo stipendio - ma ora tornato al lavoro in seguito a un lungo braccio di ferro col Viminale - dopo che i suoi colleghi lo avevano riconosciuto in una foto hard, su un sito "omosessuale e feticista". L'agente - sebbene abbia sempre negato di essere lui - era stato riconosciuto perché l'immagine che lo ritraeva col viso coperto era stata scattata nella sua abitazione, riconoscibile dall'arredamento. Tra l'altro, per avere gli indirizzi dei siti più frequentati dal poliziotto presunto gay, un collega era andato a trovarlo a casa, sbirciando sul suo computer. Poi, in ufficio, avevano navigato fino a trovare le prove dell'esuberante omosessualità di "Max 30'', questo lo pseudonimo in rete del poliziotto sotto osservazione. Dall'inchiesta interna era scaturita la sanzione disciplinare a carico di M. T., accusato di "aver tenuto un comportamento contrastante con i doveri di ufficio, derivanti dall'appartenenza alla Polizia di Stato". Contro l'utilizzazione - fatta dal Viminale - dei dati sensibili ricavati da internet, M. T. aveva fatto ricorso al Garante per la privacy chiedendo che "fosse accertata l'illiceità della condotta dell'amministrazione e delle singole persone fisiche che avrebbero agito al di fuori dell'attività di servizio, disponendo il blocco e la distruzione dei dati trattati". Ma il Garante e il tribunale di Roma gli avevano dato torto. M. T. non si è arreso e ha fatto ricorso in Cassazione. La Suprema Corte ha rilevato che sia in base alle norme sulla riservatezza del 1996, del 1999 e anche in base al cosiddetto, e più recente, 'Codice della privacy' del 2003, serve una esplicita autorizzazione di legge, da parte di un magistrato o del Garante, per utilizzare i dati sensibili al fine di irrogare una sanzione disciplinare. "La particolare natura di tali dati - scrive la Prima sezione civile di piazza Cavour - e specialmente quelli appartenenti alla 'species'dei supersensibili, che investe la parte più intima della persona nella sua corporeità e nelle sue convinzioni psicologiche più riservate, che riceve una tutela rafforzata proprio in ragione dei valori costituzionali posti a loro presidio, è oggetto di una protezione rafforzata, che si esplicita nelle garanzie poste anche riguardo al trattamento operato dai "soggetti pubblici"".
 

ROMA, 11 lug - La Cassazione da' un netto altola' al Ministero dell'Interno avvertendolo che non puo' sottoporre a

procedimento disciplinare i poliziotti omosessuali in base a informazioni, sulle inclinazioni sessuali, scaricate da Internet senza l'autorizzazione della magistratura. In particolare la

Suprema Corte ha accolto il ricorso di M. T., un ispettore sospeso dal servizio e dallo stipendio - ma ora tornato al lavoro in seguito a un lungo braccio di ferro col Viminale - dopo che i suoi colleghi lo avevano riconosciuto in una foto hard, su un sito ''omosessuale e feticista''.

L'agente - sebbene abbia sempre negato di essere lui - era stato riconosciuto perche' l'immagine che lo ritraeva col viso coperto era stata scattata nella sua abitazione, riconoscibile dall'arredamento. Tra l'altro, per avere gli indirizzi dei siti piu' frequentati dal poliziotto presunto gay, un collega era andato a trovarlo a casa, sbirciando sul suo computer. Poi, in ufficio, avevano navigato fino a trovare le prove

dell'esuberante omosessualita' di ''Max 30'', questo lo pseudonimo in rete del poliziotto sotto osservazione.

Dall'inchiesta interna era scaturita la sanzione disciplinare a carico di M. T., accusato di ''aver tenuto un comportamento contrastante con i doveri di ufficio, derivanti dall'appartenenza alla Polizia di Stato''.

Contro l'utilizzazione - fatta dal Viminale - dei dati sensibili ricavati da Internet, M. T. aveva fatto ricorso al Garante per la privacy chiedendo che ''fosse accertata l'illiceita' della condotta dell'amministrazione e delle singole persone fisiche che avrebbero agito al di fuori dell'attivita' di servizio, disponendo il blocco e la distruzione dei dati

trattati''. Ma il Garante in 'primo grado', e poi il Tribunale di Roma in 'secondo' - con decreto dell'ottobre 2002 - gli hanno risposto che ''l'attivita' di trattamento dei dati era consentita per finalita' disciplinari'', che era legittima

''l'attivita' di acquisizione dei dati condotta dai suoi colleghi, tenuti anche fuori servizio ad osservare i doveri inerenti la loro funzione''. Neanche davanti al decreto M. T. si

e' arreso e, difeso dall'avvocato Armando Veneto, ha fatto - con successo - ricorso in Cassazione. La Suprema Corte ha, infatti, rilevato che sia in base alle norme sulla riservatezza del 1996, del 1999 e anche in base al cosiddetto, e piu' recente, 'Codice della privacy' del 2003, serve una esplicita autorizzazione di legge, da parte di un magistrato o del Garante, per utilizzare i dati sensibili al fine di irrogare una sanzione disciplinare.

''La particolare natura di tali dati - scrive la Prima sezione civile di Piazza Cavour, con la sentenza 14390 scritta dal consigliere Antonio Genovese - e specialmente quelli

appartenenti alla 'species' dei supersensibili, che investe la parte piu' intima della persona nella sua corporeita' e nelle sue convinzioni psicologiche piu' riservate, che riceve una tutela rafforzata proprio in ragione dei valori costituzionali

posti a loro presidio, e' oggetto di una protezione rafforzata, che si esplicita nelle garanzie poste anche riguardo al trattamento operato dai 'soggetti pubblici'''.

Dunque, nessuna inchiesta interna condotta da qualsivoglia ministero o ente pubblico puo' mai utilizzare - senza esplicita autorizzazione della magistratura o del Garante - i dati

sensibili di un dipendente per raccoglierli in un dossier e usarli per infliggere sanzioni, anche nel caso in cui sia stato lo stesso dipendente a diffondere su Internet le informazioni

'riservate' che lo riguardano.

Adesso il caso di M. T. torna di nuovo al Tribunale di Roma che, in funzione di giudice di secondo grado dei decreti del Garante, dovra' rivedere il 'no' opposto alla richiesta dell'ispettore 'punito' per la foto hard. La riammissione in servizio del poliziotto era, invece, stata decisa dal tribunale amministrativo che, piu' volte, si e' occupato di questa vicenda.
 

 
 

Cassazione: fumo in ufficio? Sì al risarcimento danni se il datore di lavoro non lo vieta

Il lavoratore che si ammala per fumo passivo puo' chiedere ed ottenere dall'azienda il risarcimento danni da fumo se, pur avendo ripetutamente chiesto al datore di lavoro di fare rispettare il divieto, quest'ultimo non ha fatto nulla per impedirlo anzi ha tenuto un comportamento ''negligente in termini di doveri di protezione''. Lo sottolinea la Corte di Cassazione con una sentenza della Sezione Lavoro nella quale ha respinto il ricorso presentato dalla Rete ferroviaria italiana che si era opposta al riconoscimento del danno da fumo nei confronti di una ausiliaria di stazione in servizio a Lecce, Francesca S. che aveva contratto ''una serie di affezioni'' nella stanza d'ufficio ''satura di fumo''. Secondo la Suprema Corte, se il lavoratore si e' sempre lamentato per avere il rispetto del divieto di fumo senza ottenere risultati e poi, dietro certificazione medica, dimostra che le affezioni contratte dipendono dal troppo fumo respirato legittimamente deve ottenere il risarcimento per i danni subiti. Va detto che nel caso analizzato dai supremi giudici la signora , che aveva contratto una serie di affezioni tra cui rinite cronica, crisi asmatiche e faringite.... nel periodo precedente all'entrata in vigore della legge anti-fumo Sirchia, nonostante le sue ripetute lamentele non aveva ottenuto il rispetto del divieto e si era messa a casa in malattia per sei mesi, ottenendo come risposta dall'azienda il taglio di un terzo della retribuzione.

 

 

 

Cassazione: moglie non si spia, neanche per raccogliere prova tradimento

La moglie non si deve mai spiare, nemmeno se questo serve per raccogliere le prove del tradimento della consorte utili alla causa di separazione. Lo sottolinea la Corte di Cassazione che ha accolto, ai soli fini civili, il ricorso di Giuliana G., in via di separazione dal marito Francesco C., che veniva pedinata ''continuamente anche in ore notturne dal marito, persino nei momenti in cui i figli stavano con lui''. La moglie aveva cosi' denunciato il marito per molestie ma la Corte d'appello di Bologna, in riforma della sentenza di primo grado, nel marzo del 2006 assolveva l'uomo ''perche' il fatto non sussiste'', anzi sottolineando che lo aveva fatto per ''assicurare la cura dei figli minorenni''. Per la Suprema Corte (sentenza 37765), che ha accolto il ricorso della moglie costituitasi parte civile, ''la pendenza di un processo di separazione tra coniugi non consente certamente al marito di comportarsi in modo vessatorio o petulante nei confronti del coniuge, nemmeno quando siano presenti figli minori''. Va detto che il reato di molestie per il quale Francesco C. era stato condannato dal Tribunale di Forli'-Cesena si e' prescritto ma la Prima sezione penale, ''in considerazione dell'insistente presenza della parte civile'', come avevano registrato i giudici di merito, ha considerato la vicenda ai soli effetti civili e ha evidenziato che ''la sentenza impugnata si limita invece a qualificare ogni approccio o tentativo di approccio del marito alla moglie come ispirato dall'esigenza di tutela della prole, senza prendere in esame o fornire alcuna interpretazione su specifici comportamenti in modo vessatorio o petulante nei confronti del coniuge, nemmeno quando siano presenti i figli minori''