VA TUTELATA LA PRIVACY
DEL POLIZIOTTO GAY La Cassazione ha dato ragione a un agente sospeso dopo che le sue foto erano apparse su un sito sado-maso |
ROMA, 11 lug - La Cassazione da' un netto altola' al Ministero dell'Interno avvertendolo che non puo' sottoporre a procedimento disciplinare i poliziotti omosessuali in base a informazioni, sulle inclinazioni sessuali, scaricate da Internet senza l'autorizzazione della magistratura. In particolare la Suprema Corte ha accolto il ricorso di M. T., un ispettore sospeso dal servizio e dallo stipendio - ma ora tornato al lavoro in seguito a un lungo braccio di ferro col Viminale - dopo che i suoi colleghi lo avevano riconosciuto in una foto hard, su un sito ''omosessuale e feticista''. L'agente - sebbene abbia sempre negato di essere lui - era stato riconosciuto perche' l'immagine che lo ritraeva col viso coperto era stata scattata nella sua abitazione, riconoscibile dall'arredamento. Tra l'altro, per avere gli indirizzi dei siti piu' frequentati dal poliziotto presunto gay, un collega era andato a trovarlo a casa, sbirciando sul suo computer. Poi, in ufficio, avevano navigato fino a trovare le prove dell'esuberante omosessualita' di ''Max 30'', questo lo pseudonimo in rete del poliziotto sotto osservazione. Dall'inchiesta interna era scaturita la sanzione disciplinare a carico di M. T., accusato di ''aver tenuto un comportamento contrastante con i doveri di ufficio, derivanti dall'appartenenza alla Polizia di Stato''. Contro l'utilizzazione - fatta dal Viminale - dei dati sensibili ricavati da Internet, M. T. aveva fatto ricorso al Garante per la privacy chiedendo che ''fosse accertata l'illiceita' della condotta dell'amministrazione e delle singole persone fisiche che avrebbero agito al di fuori dell'attivita' di servizio, disponendo il blocco e la distruzione dei dati trattati''. Ma il Garante in 'primo grado', e poi il Tribunale di Roma in 'secondo' - con decreto dell'ottobre 2002 - gli hanno risposto che ''l'attivita' di trattamento dei dati era consentita per finalita' disciplinari'', che era legittima ''l'attivita' di acquisizione dei dati condotta dai suoi colleghi, tenuti anche fuori servizio ad osservare i doveri inerenti la loro funzione''. Neanche davanti al decreto M. T. si e' arreso e, difeso dall'avvocato Armando Veneto, ha fatto - con successo - ricorso in Cassazione. La Suprema Corte ha, infatti, rilevato che sia in base alle norme sulla riservatezza del 1996, del 1999 e anche in base al cosiddetto, e piu' recente, 'Codice della privacy' del 2003, serve una esplicita autorizzazione di legge, da parte di un magistrato o del Garante, per utilizzare i dati sensibili al fine di irrogare una sanzione disciplinare. ''La particolare natura di tali dati - scrive la Prima sezione civile di Piazza Cavour, con la sentenza 14390 scritta dal consigliere Antonio Genovese - e specialmente quelli appartenenti alla 'species' dei supersensibili, che investe la parte piu' intima della persona nella sua corporeita' e nelle sue convinzioni psicologiche piu' riservate, che riceve una tutela rafforzata proprio in ragione dei valori costituzionali posti a loro presidio, e' oggetto di una protezione rafforzata, che si esplicita nelle garanzie poste anche riguardo al trattamento operato dai 'soggetti pubblici'''. Dunque, nessuna inchiesta interna condotta da qualsivoglia ministero o ente pubblico puo' mai utilizzare - senza esplicita autorizzazione della magistratura o del Garante - i dati sensibili di un dipendente per raccoglierli in un dossier e usarli per infliggere sanzioni, anche nel caso in cui sia stato lo stesso dipendente a diffondere su Internet le informazioni 'riservate' che lo riguardano. Adesso il caso di M. T. torna di nuovo al Tribunale di Roma che, in funzione di giudice di secondo grado dei decreti del Garante, dovra' rivedere il 'no' opposto alla richiesta dell'ispettore 'punito' per la foto hard. La riammissione in servizio del poliziotto era, invece, stata decisa dal tribunale amministrativo che, piu' volte, si e' occupato di questa vicenda. |
Cassazione: fumo in ufficio? Sì al risarcimento danni se il datore di lavoro non lo vieta |
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Il lavoratore che si ammala per fumo passivo puo' chiedere ed ottenere dall'azienda il risarcimento danni da fumo se, pur avendo ripetutamente chiesto al datore di lavoro di fare rispettare il divieto, quest'ultimo non ha fatto nulla per impedirlo anzi ha tenuto un comportamento ''negligente in termini di doveri di protezione''. Lo sottolinea la Corte di Cassazione con una sentenza della Sezione Lavoro nella quale ha respinto il ricorso presentato dalla Rete ferroviaria italiana che si era opposta al riconoscimento del danno da fumo nei confronti di una ausiliaria di stazione in servizio a Lecce, Francesca S. che aveva contratto ''una serie di affezioni'' nella stanza d'ufficio ''satura di fumo''. Secondo la Suprema Corte, se il lavoratore si e' sempre lamentato per avere il rispetto del divieto di fumo senza ottenere risultati e poi, dietro certificazione medica, dimostra che le affezioni contratte dipendono dal troppo fumo respirato legittimamente deve ottenere il risarcimento per i danni subiti. Va detto che nel caso analizzato dai supremi giudici la signora , che aveva contratto una serie di affezioni tra cui rinite cronica, crisi asmatiche e faringite.... nel periodo precedente all'entrata in vigore della legge anti-fumo Sirchia, nonostante le sue ripetute lamentele non aveva ottenuto il rispetto del divieto e si era messa a casa in malattia per sei mesi, ottenendo come risposta dall'azienda il taglio di un terzo della retribuzione.
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