Cassazione: il mobbing si può provare anche con le registrazioni audio

Chi ha subito molestie psicologiche in ufficio, d'ora in avanti potrà incastrare il proprio datore di lavoro avvalendosi di registrazioni audiofoniche. E' quanto stabilisce una sentenza della Cassazione (n.10430/2007) che nel respingere il ricorso di un'azienda ha sancito la legittimità dell'utilizzo, come fonte di prova, delle registrazioni.
Nella fattispecie una dipendente si era dimessa a seguito di ingiurie e molestie che aveva ricevuto in ufficio ed aveva per questo richiesto il risarcimento del danno da mancato guadagno essendo stata di fatto costretta a lasciare un ambiente di lavoro divenuto invivibile e ostile.
L'azienda aveva sostenuto l'inammissibilità come fonte di prova delle registrazioni. La corte di Appello, infatti, per riconoscere alla donna un risarcimento di oltre 8.000 euro aveva utilizzato come fonte di prova una cassetta registrata da cui si rivelava un clima di particolare ostilita' nei confronti della donna in reazione a una richiesta di ferie.
I giudici del Palazzaccio hanno confermato la decisione dei giudici d'appello chiarendo che, in caso di controversie di lavoro, non puo' essere preclusa "la ricostruzione del contenuto della registrazione" se questa contiene "elementi gravi, precisi e concordanti".
Nel respingere il ricoro i Giudici della Corte hanno sottolineato che "le statuizioni del giudice di appello sono condivisibili e non in contrasto con l'art. 2712 del c.c. giacche' la contestazione della societa' ha riguardato le risultanze della registrazione valutate dallo stesso Giudice in base ad elementi presuntivi quali il clima di particolare ostilita'" del datore di lavoro "in reazione alla richiesta di ferie della dipendente e alla minaccia di denuncia penale ai carabinieri per contestati ammanchi di cassa ove l'impiegata avesse presentato la lettera di dimissioni".
Risulta dunque adeguatamente motivato - aggiunge la Corte - l'accertamento compiuto dal giudice di merito che ha ammesso la registrazione tra le prove contro l'azienda.

 


 

 

 

Cassazione: Danni cagionati da animale? È sempre responsabile il proprietario se non prova il caso fortuito

"La responsabilità del proprietario dell'animale, prevista dall'art. 2052 c.c., è presunta, fondata non sulla colpa, ma sul rapporto di fatto con l'animale. Ne consegue che per i danni cagionati dall'animale al terzo il proprietario risponde in ogni caso e in toto, a meno che non dia la prova del caso fortuito, ossia dell'intervento di un fattore esterno idoneo a interrompere il nesso di causalità tra il comportamento dell'animale e l'evento lesivo, comprensivo anche del fatto del terzo o del fatto colposo del danneggiato che abbia avuto efficacia causale esclusiva nella produzione del danno. Ne consegue altresì che se la prova liberatoria richiesta dalla norma non viene fornita (…) non rimane al giudice che condannare il proprietario dell'animale al risarcimento dei danni per l'intero, e non in parte, secondo una graduazione di colpe tra il medesimo e il danneggiato". È quanto ha di recente stabilito la Corte di Cassazione (Sent. n. 6454/2007) che, nel pronunciarsi sul caso di una donna danneggiata al volto da un morso infertole dal cane di proprietà dei resistenti mentre era in visita alla loro abitazione, ha cassato la sentenza dei giudici di merito che avevano dato rilievo all'imprudenza della ricorrente nella produzione dell'evento, condannando i proprietari al pagamento del 25% dei danni.
 

 

 


 

La libera scelta del medico curante è un diritto del paziente – Con i limiti derivanti dall’organizzazione sanitaria La libera scelta del medico curante è un diritto del paziente, ma soggiace comunque al limite oggettivo della disponibilità dell’organizzazione dei servizi sanitari (art. 19, comma 2, della legge n. 833 del 1978, v. altresì il successivo art. 48, comma 3 n.1 ultimo inciso), il che comporta che l’assistenza medica pubblica può essere erogata esclusivamente dai sanitari dipendenti o convenzionati operanti nelle Unità sanitarie locali o nel  Comune di residenza del cittadino (art. 25, comma 3).
               E se è pur vero – come affermato dalla sentenza della Suprema Corte n. 6105 del 1988 – che, in ossequio alla libertà di scelta del medico, il paziente può ottenere deroga per l’assistenza da parte di un medico di altro Comune, vero è però altresì che ciò è consentito solo alla duplice condizione che in  un comune si verifichi una situazione di cd.  monopolio oggettivo (in ragione del ridotto numero di abitanti che consenta l’assegnazione in quell’area di un solo medico) e che, comunque, la deroga operi con singoli provvedimenti autorizzatori per assistenza domiciliare nei confronti dei pazienti che la richiedono alla competente Unità sanitaria (Cassazione Sezione Prima Civile  n. 11000 del 14 maggio 2007, Pres. De Musis, Rel. Morelli).