E’ ILLEGITTIMO IL
LICENZIAMENTO DISCIPLINARE COMUNICATO INSIEME ALLA
CONTESTAZIONE DEGLI ADDEBITI –
Per violazione dell’art. 7 St. Lav.
(Cassazione Sezione Lavoro n. 15050 del 4 luglio 2007, Pres. Mattone, Rel.
Maiorano).
La Biv Italia ha contestato al suo dipendente Roberto F., con lettera del 21
aprile 2000, l’addebito di avere rifiutato il controllo di malattia, tenendo
un comportamento intemperante. Nella stessa lettera l’azienda ha fatto
presente che la condotta tenuta dal dipendente era tale da minare alla radice
la fiducia posta a fondamento del rapporto di lavoro e ne legittimava
l’interruzione “con effetto immediato”. La presente – ha precisato l’azienda –
“deve valere quale preavviso di licenziamento per giusta causa con
l’espresso avvertimento che la misura verrà confermata se non perverranno
convincenti ragioni e controdeduzioni in relazione a tale comportamento nel
termine di giorni cinque dal ricevimento della presente”. Il 5 maggio 2000
l’azienda ha trasmesso a Roberto F. il suo libretto di lavoro. Il legale della
società ha comunicato al lavoratore, in data 11 maggio 2000, che questi, in
mancanza di giustificazioni, doveva ritenersi licenziato per giusta causa. Il
lavoratore si è rivolto al Tribunale di Pesaro, sostenendo di essere stato
licenziato senza che gli fosse stata data la possibilità di difendersi, in
violazione dell’art. 7 St. Lav. secondo cui “Il datore di lavoro non può
adottare alcun provvedimento disciplinare nei confronti del lavoratore senza
avergli preventivamente contestato l’addebito e senza averlo sentito a sua
difesa ….. In ogni caso i provvedimenti disciplinari più gravi del rimprovero
verbale non possono essere applicati prima che siano trascorsi cinque giorni
dalla contestazione per iscritto del fatto che vi ha dato causa”.
Il Tribunale ha dichiarato illegittimo il licenziamento, per violazione
dell’art. 7 St. Lav., ha ordinato la reintegrazione del dipendente nel posto
di lavoro ed ha condannato l’azienda al risarcimento del danno. Questa
decisione è stata confermata dalla Corte d’Appello di Ancona che ha ritenuto
che la sanzione disciplinare sia stata applicata contestualmente alla
contestazione. Con lettera del 21 aprile 2000 – ha osservato la Corte – il
licenziamento è stato irrogato “con effetto immediato” e con la precisazione
che la sanzione sarebbe stata “confermata” un difetto di convincenti
giustificazioni; in mancanza di riserve e precisazioni sulla decorrenza del
licenziamento da una data successiva alla scadenza del termine a difesa, la
conferma di una misura disciplinare presupponeva che la stessa fosse stata
già irrogata. L’azienda ha proposto ricorso per cassazione censurando la
decisione della Corte di Ancona per vizi di motivazione e violazione di legge.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 15050 del 4 luglio 2007, Pres. Mattone,
Rel. Maiorano) ha rigettato il ricorso. In materia, ha ricordato la Corte, è
stato già affermato il principio di diritto, secondo cui nel licenziamento
disciplinare la contestazione dell’addebito e la comminatoria del
licenziamento possono essere contenute nel medesimo atto, in mancanza di
disposizioni che vietino tali modalità di esercizio dei poteri del datore di
lavoro, se viene concesso al lavoratore il termine di legge di cinque giorni
per fornire le proprie discolpe e viene precisato che, qualora egli non si
avvalga di tale possibilità, il rapporto di lavoro si intenderà risolto senza
ulteriore preavviso dal giorno successivo alla scadenza del termine. Pertanto
– ha affermato la Corte – la comminatoria del licenziamento contestuale alla
contestazione dell’addebito giammai può essere intimata con effetto immediato,
in tal modo sopprimendo di fatto del tutto il termine fissato per la difesa
del lavoratore incolpato – termine che, del resto, neppure può essere
disposto, in sostanza, soltanto al fine di una ipotetica revoca di un
licenziamento comunque già efficace. La Corte d’Appello – ha osservato la
Cassazione – si è attenuta a questo principi di diritto ed ha affermato la
nullità della sanzione per violazione dell’art. 7 L. n. 300/70 sulla base di
una interpretazione della lettera di contestazione che si sottrae alle
critiche mosse: il testo della lettera, infatti, è ambiguo in quanto dopo
avere comunicato che l’infrazione contestata “mina alla radice la fiducia” e
giustifica l’”interruzione con effetto immediato” aggiunge che “la presente
deve valere ..quale preavviso di licenziamento”; successivamente viene
concesso il termine di 5 giorni per far pervenire all’azienda “convincenti
ragioni e controdeduzioni” in relazione al comportamento contestato con la
stessa missiva (di essersi cioè sottratto, anche con intemperanze, al
controllo della malattia da parte dei sanitari dell’INPS), ma poi si avverte
che in mancanza “la misura sarà confermata”, con una espressione che ben può
essere interpretata nel senso della “conferma di una misura disciplinare che
sia già stata adottata”, come l’ha intesa il giudice d’appello.
IL CITTADINO STRANIERO NON
ABBIENTE SOTTOPOSTO A PROCESSO PENALE HA DIRITTO AD UN INTERPRETE PAGATO DALLO
STATO
–
In base
all’art. 24 Cost. Rep. (Corte Costituzionale n. 254 del 6 luglio 2007, Pres.
Bile, Red. Saulle).
A.
Y., cittadina straniera sottoposta a processo per omicidio davanti al
Tribunale di Venezia, non conoscendo la lingua italiana ha incaricato B.L. di
farle da interprete nei rapporti con il suo avvocato. Ella è stata ammessa al
patrocinio a spese dello Stato in base al D.P.R. 30 maggio 2002 n. 115 (testo
unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di
giustizia). B.L. ha chiesto al Gip del Tribunale di Venezia la liquidazione
del compenso dovutole per la sua attività di interprete. Il giudice ha
rigettato la domanda, osservando che il D.P.R. n. 115/02 non contempla la
nomina di un interprete da parte dell’imputato o comunque un intervento
privato di tale ausiliario, né tanto meno il pagamento da parte dello Stato
del compenso dovuto all’interprete. Poiché B.L. ha impugnato questa decisione,
il Gip ha sollevato, con riferimento all’art. 24 della Costituzione (diritto
di difesa) la questione di legittimità costituzionale dell’art. 102 del D.P.R.
30 maggio 2002 n. 115 nella parte in cui non prevede la possibilità per lo
straniero ammesso al patrocinio dello Stato, di nominare un proprio
interprete.
La
Corte Costituzionale (sentenza n. 254 del 6 luglio 2007, Pres. Bile, Red.
Saulle) ha ritenuto fondata la questione. La partecipazione personale e
consapevole dell’imputato al procedimento, mediante il riconoscimento del
diritto in capo all’accusato straniero, che non conosce la lingua italiana, di
nominare un proprio interprete, – ha affermato la Corte – rientra nella
garanzia costituzionale del diritto di difesa nonché nel diritto al giusto
processo, in quanto l’imputato deve poter comprendere, nella lingua da lui
conosciuta, il significato degli atti e delle attività processuali, ai fini di
un concreto ed effettivo esercizio del proprio diritto alla difesa (art. 24,
comma secondo, della Costituzione). Inoltre, l’art. 111 della Costituzione
stabilisce che la legge assicura che «la persona accusata di un reato sia
assistita da un interprete se non comprende o non parla la lingua impiegata
nel processo».
I
principi costituzionali sopra riportati – ha osservato la Corte – trovano
riconoscimento in alcune norme internazionali che prevedono fra i diritti
dell’accusato quello di «farsi assistere gratuitamente da un interprete se non
comprende o non parla la lingua usata in udienza» (art. 6, n. 3, lettera e
della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle
libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa
esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848; disposizione riproposta in modo
analogo nell’art. 14, comma 3, lettera f, del Patto internazionale delle
Nazioni Unite, sui diritti civili e politici del 19 dicembre 1966, adottato a
New York il 19 dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo con legge 25 ottobre
1977, n. 881).
Il
riconoscimento in capo all’imputato straniero che non conosce la lingua
italiana del diritto di nomina di un proprio interprete – ha concluso la Corte
– non può, in virtù dei principi sopra esposti, soffrire alcuna limitazione;
invero, l’istituto del patrocinio a spese dello Stato, essendo diretto a
garantire anche ai non abbienti l’attuazione del precetto costituzionale di
cui al terzo comma dell’art. 24 della Costituzione, prescrive che a questi
siano assicurati i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione
e ciò in esecuzione del principio posto dal primo comma della stessa
disposizione, secondo cui tutti possono agire in giudizio per la tutela dei
propri diritti e interessi legittimi. Pertanto la Corte ha dichiarato
l’illegittimità costituzionale dell’art. 102 del d.P.R. n. 115 del 2002, nella
parte in cui non prevede, per lo straniero ammesso al patrocinio a spese dello
Stato che non conosce la lingua italiana, la possibilità di nominare un
proprio interprete.
In caso di annullamento del licenziamento, il
datore di lavoro deve pagare i contributi previdenziali sulla retribuzione
dovuta sino alla reintegrazione – Anche se il risarcimento del danno sia stato
liquidato in misura inferiore – Nel caso di annullamento del
licenziamento in base all’art. 18 St. Lav. con ordine di reintegrazione e
condanna dell’azienda al risarcimento del danno, questo può essere determinato
anche in misura inferiore alla retribuzione relativa al periodo della data del
recesso e quella della reintegrazione. In tal caso tuttavia il datore di
lavoro è tenuto a versare i contributi previdenziali su un importo commisurato
all’intera retribuzione contrattualmente dovuta.
La previsione
dell’art. 18 St. Lav. comporta una deroga alla disciplina comune
dell’invalidità e dell’inefficacia, perché stabilisce, per il primo periodo
decorrente dal licenziamento, non l’obbligo del datore di lavoro di pagare le
retribuzioni, ma solo quello del risarcimento del danno; ma, oltre a questa
norma derogatoria, non vi è alcuna altra disposizione in base alla quale possa
escludersi l’operatività di tutte le conseguenze derivanti dalla adozione
della tecnica di invalidità o inefficacia dell’atto, secondo la disciplina
comune che trova certamente applicazione sul diverso piano del rapporto
previdenziale. Secondo le regole di questo rapporto, la retribuzione deve
considerarsi dovuta (con conseguente obbligo di contribuzione del datore di
lavoro) in tutte le ipotesi in cui il rapporto di lavoro sia in atto de jure,
con esclusione dei casi in cui la prestazione lavorativa non viene resa per
fatto imputabile al dipendente o per sospensione concordata, mentre in
presenza di determinati eventi che impediscono la prestazione lavorativa non
vi è obbligo di contribuzione, ma il periodo è ugualmente coperto da
contribuzione figurativa a carico della collettività, per esigenze generali di
tutela. Avuto riguardo a tali regole, nel rapporto tra datore di lavoro ed
ente previdenziale non vi è alcuna norma che esoneri il primo dal pagamento
dei contributi quando il rapporto di lavoro sia giuridicamente in atto e la
retribuzione sia dovuta (perché la mancata prestazione lavorativa è imputabile
esclusivamente al datore stesso); il limite posto al diritto del lavoratore
alle retribuzioni dalla ricordata disposizione derogatoria alla disciplina
comune opera solo sul piano del rapporto tra datore di lavoro e dipendente, ma
non impedisce che la retribuzione sia da considerare dovuta ai fini della
normale funzionalità del rapporto previdenziale.
L’obbligo
contributivo – commisurato alla retribuzione contrattuale dovuta – esiste
perché esiste la obbligazione retributiva, e non viene meno se, a causa del
suo inadempimento, la prestazione originariamente pattuita si trasforma in
altra di natura risarcitoria, perché siffatta trasformazione opera solo sul
piano del rapporto tra datore e lavoratore, in cui l’interesse di quest’ultimo
resta soddisfatto, secondo un criterio di equivalenza, mediante l’erogazione
della prestazione risarcitoria. Sul piano previdenziale, non rileva lo
strumento solo indiretto attraverso il quale tale soddisfazione è assicurata,
e l’obbligo contributivo resta commisurato alla retribuzione contrattualmente
dovuta, operando pienamente, a questo fine, la disciplina dell’invalidità
dell’atto di recesso. Per questi rilievi non entrano in considerazione le
fattispecie di contribuzione figurativa, in cui, come si è accennato, non vi è
obbligo di contribuzione del datore di lavoro. Non occorre neppure tener conto
dell’ipotesi (che non riguarda il caso in esame) di un nuovo rapporto di
lavoro instaurato nel periodo successivo al licenziamento dal dipendente
illegittimamente estromesso, ipotesi per la quale si prospetta da parte della
ricorrente l’impossibilità di coesistenza, con diversi rapporti di lavoro
nello stesso periodo, di una pluralità di rapporti assicurativi. La questione
attiene alla tutela della posizione previdenziale assicurata al lavoratore
nella specifica fattispecie, ma non incide sulla soluzione del problema della
persistenza dell’obbligo contributivo a carico dell’originario datore di
lavoro. In conclusione, bisogna affermare che l’obbligazione contributiva
resta commisurata all’effettivo importo delle retribuzioni maturate e dovute
(nel senso precisato) nel periodo dal licenziamento alla data della sentenza
di reintegrazione, anche se non coincidente con l’importo del danno liquidato
in applicazione dei criteri di risarcimento fissati dalla norma in esame
(Cassazione Sezioni Unite Civili n. 15143 del 5 luglio 2007, Pres. Carbone,
Rel. Miani Carnevari).