NELLA VALUTAZIONE DELLA
LEGITTIMITA’ DEL MUTAMENTO DI MANSIONI, SI DEVE APPLICARE UNA NOZIONE
DINAMICA DELL’EQUIVALENZA PROFESSIONALE
–
E’ possibile
l’impiego del lavoratore in settori diversi della medesima area
professionale (Cassazione Sezione Lavoro n. 10091 del 2 maggio 2006, Pres.
Ciciretti, Rel. Stile).
Egidio C.,
dipendente della s.p.a. Banca Regionale Europea, dopo avere svolto, presso
la sede centrale, vari incarichi, tra cui quello di capo dell’Ufficio
Segreteria Fidi e dell’Ufficio Rischi, ha esercitato, presso una filiale
della sede di Cuneo, le funzioni di direttore, in sostituzione del
titolare. Egli è stato poi trasferito, nel dicembre del 1998, a Torino in
qualità di terzo funzionario assegnato all’area Piemonte, con l’incarico
di occuparsi delle operazioni di fido eccedenti l’importo unitario di
quattro miliardi di lire. Egli si è rivolto al Giudice del Lavoro di
Cuneo, sostenendo di avere subito una dequalificazione con l’assegnazione
di mansioni inferiori a quelle di direttore di filiale, e chiedendo il
riconoscimento del diritto all’inquadramento di funzionario di I livello,
a titolo di risarcimento del danno specifico (mediante “ricostruzione
della carriera”). Sia il Tribunale di Cuneo che la Corte d’Appello di
Torino hanno ritenuto la domanda priva di fondamento. In particolare, la
Corte di Torino, ha rilevato che le mansioni affidate nel dicembre del
1998 al lavoratore erano aderenti alla sua professionalità, essendosi egli
già in precedenza occupato di fidi e che esse comportavano una
responsabilità certamente maggiore rispetto al passato, trattandosi di
affidamenti eccedenti i quattro miliardi di lire. Egidio C. ha proposto
ricorso per cassazione censurando la decisione della Corte di Torino per
vizi di motivazione e violazione dell’art. 2103 cod. civ.
La Suprema Corte
(Sezione Lavoro n. 10091 del 2 maggio 2006, Pres. Ciciretti, Rel. Stile)
ha rigettato il ricorso. Le regole elaborate dalla giurisprudenza di
cassazione in tema di legittimo esercizio dello
ius variandi
del datore di lavoro – ha osservato la Corte – sono intese a configurare
una nozione “dinamica” di equivalenza professionale, basata sulla
conservazione dei tratti essenziali fra le competenze richieste al
lavoratore prima e dopo il mutamento di mansioni; costituisce, invero,
principio ormai acquisito che possano legittimamente assegnarsi al
dipendente, a parità d’inquadramento, mansioni anche del tutto nuove e
diverse, purché affini alle precedenti dal punto di vista del contenuto
professionale. L’esistenza, per così dire, di un “minimo comune
denominatore” di conoscenze teoriche e capacità pratiche – ha aggiunto la
Corte – è condizione necessaria e sufficiente a consentire che il
dipendente sia in grado di svolgere le nuove mansioni con la preparazione
posseduta; anzi, il fatto di mutare ramo di attività, operando in settori
diversi della medesima area professionale, permette finanche al lavoratore
d’incrementare ed arricchire il bagaglio di nozioni sviluppato nella fase
pregressa del rapporto. In quest’ottica, senz’alcun dubbio quella che
meglio risponde alle attuali caratteristiche ed esigenze del mondo del
lavoro – ha osservato la Cassazione – la professionalità non rileva,
dunque, come un’entità statica ed assoluta, sganciata dalla realtà
aziendale, bensì come patrimonio di conoscenze potenzialmente polivalente,
capacità di far fruttare nel nuovo posto di lavoro l’esperienza e le
cognizioni sino a quel momento acquisite.
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