La sanzione disciplinare deve essere proporzionata all’infrazione – Nella valutazione dell’adeguatezza si deve tener conto anche delle modalità soggettive della condotta del lavoratore Già nell’originaria disciplina del potere disciplinare contenuta nell’art. 2106 cod. civ. (nella materia ora regolamentata in prevalenza dall’art. 7 della legge n. 300 del 1970) era affermato il fondamentale principio in base al quale l’irrogazione della sanzione deve rispettare un criterio di proporzionalità rispetto alla gravità della infrazione. Il principio di proporzionalità deve essere rispettato sia in sede di irrogazione della sanzione da parte del datore di lavoro nell’esercizio del suo potere disciplinare, sia in sede di controllo che, della legittimità e della congruità della sanzione applicata, il giudice sia chiamato a fare. In tema di sanzioni disciplinari, ha carattere indispensabile la valutazione, ad opera del giudice del merito, investito del giudizio circa la legittimità di tali provvedimenti, della sussistenza o meno del rapporto di proporzionalità tra l’infrazione del lavoratore e la sanzione irrogatagli. Ai fini della suddetta valutazione il giudice deve tener conto non solo delle circostanze oggettive, ma anche delle modalità soggettive della condotta del lavoratore in quanto anche esse incidono sulla determinazione della gravità della trasgressione e quindi della legittimità della sanzione stessa (Cassazione Sezione Lavoro n. 10742 del 10 maggio 2006, Pres. Mattone, Rel. Balletti).


 
NEL PUBBLICO IMPIEGO LE CONTROVERSIE SUI CONCORSI INTERNI PER L’ATTRIBUZIONE DI POSIZIONI ECONOMICHE NELL’AMBITO DELLA STESSA AREA RIENTRANO NELLA GIURISDIZIONE DEL GIUDICE ORDINARIO Per l’applicazione di questo criterio si deve fare riferimento al contratto collettivo (Cassazione Sezioni Unite Civili ordinanza n. 10419 dell’8 maggio 2006, Pres. Ianniruberto, Rel. Picone).
            Nel marzo del 2001 il Ministero dell’Interno ha indetto un bando di concorso per la partecipazione a un corso di riqualificazione per l’attribuzione di 241 posti nella posizione economica C3 (direttore amministrativo contabile); il concorso era riservato ai dipendenti con inquadramento in C/1 e C/2 della stessa area. Alcuni impiegati inquadrati in C/1 e C/2, essendo stati esclusi dal concorso, si sono rivolti al Tribunale di Roma, Sezione Lavoro, chiedendo il riconoscimento del loro diritto alla partecipazione. Nella controversia che ne è seguita, dopo l’integrazione del contraddittorio nei confronti degli altri partecipanti al concorso, alcuni di questi hanno proposto regolamento preventivo di giurisdizione innanzi alle Sezioni Unite della Cassazione, sostenendo che la controversia doveva essere attribuita al giudice amministrativo.
            Le Sezioni Unite Civili della Suprema Corte (ordinanza n. 10419 dell’8 maggio 2006, Pres. Ianniruberto, Rel. Picone) hanno ritenuto priva di fondamento la tesi sostenuta dai ricorrenti ed hanno dichiarato la giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria sulla controversia. La Corte ha ricordato la sua giurisprudenza secondo cui l’art. 63, comma 4, d.lgs. 165/2001, si interpreta nel senso che, per “procedure concorsuali di assunzione”, ascritte al diritto pubblico e all’attività autoritativa dell’amministrazione, si intendono non soltanto quelle preordinate alla costituzione ex novo dei rapporti di lavoro (essendo tali tutte le procedure aperte a candidati esterni, ancorché vi partecipino soggetti già dipendenti pubblici), ma anche i procedimenti concorsuali “interni”, destinati, cioè, a consentire l’inquadramento dei dipendenti in aree funzionali o categorie più elevate, profilandosi in tal caso una novazione oggettiva dei rapporti di lavoro. Le progressioni, invece, all’interno di ciascuna area professionale o categoria, sia con acquisizione di posizioni più elevate meramente retributive, sia con il conferimento di qualifiche (livello funzionale di inquadramento connotato da un complesso di mansioni e di responsabilità) superiori (art. 52 comma 1, d.lgs. 165/2001) – ha ricordato la Corte – sono affidate a procedure, poste in essere dall’amministrazione con la capacità e i poteri del datore di lavoro privato (art. 5, comma 2, d.lgs. 165/2001); tale differente disciplina tra i passaggi interni alle aree professionali rispetto a quelli esterni appare confermata dalla legge 23 dicembre 2005, n. 266 (legge finanziaria per il 2006), nel suo riferimento “agli importi relativi alle spese per le progressioni all’interno di ciascuna area professionale o categoria …” e alla diversa nozione di “passaggio di area o di categoria” (art. 1, comma 193). E’ evidente che, alla stregua dell’interpretazione enunciata – ha affermato la Corte – assume rilevanza determinante ai fini dell’indicato criterio di ripartizione della giurisdizione – e, correlativamente, dell’ambito di applicazione del termine “assunzione” – il contenuto della contrattazione collettiva, ma è, questo, un effetto derivante dal sistema legislativo di regolamentazione delle fonti di disciplina del lavoro pubblico “contrattuale”.
            Nella fattispecie – ha osservato la Corte – viene in rilievo il contratto collettivo nazionale di lavoro per il personale del comparto ministeri per il quadriennio 1998/2001 e biennio economico 1998/1999, stipulato in data 16 febbraio 1999 (le cui clausole sono conosciute direttamente dalla Cassazione, ai sensi dell’art. 63, comma 5, d.lgs. 165/2001). Con questo contratto è stato introdotto un nuovo sistema di classificazione del personale, accorpando le nove qualifiche funzionali di cui alla legge 312/1980 in tre aree di inquadramento, secondo la corrispondenza prevista dall’art. 13 (e, per il personale già in servizio, secondo la tabella di cui all’allegato B: art. 16). Lo stesso articolo 13, poi, al comma 3, stabilisce che, all’interno della stessa area, i profili caratterizzati da mansioni e funzioni contraddistinte da “differenti gradi di complessità e di contenuto” possono essere collocati su posizioni economiche diverse. Ed infatti, ciascuna area comprende posizioni economiche differenziate (C/1, C/2 e C/3) che, in realtà, costituiscono altrettante qualifiche, come conferma il comma 4 dello stesso articolo: Ogni dipendente è inquadrato, in base alla ex qualifica e profilo professionale di appartenenza, nell’area e nella posizione economica ove questa è confluita ed è tenuto a svolgere, come previsto dall’art. 56 del d.lgs. 29/1993, tutte le mansioni considerate equivalenti nel livello economico di appartenenza, nonché le attività strumentali e complementari a quelle inerenti lo specifico profilo attribuito.
            Il concorso, oggetto della controversia promossa dinanzi al Tribunale di Roma – ha osservato la Corte – è stato bandito con determinazione 30.3.2001, pubblicata il 18.4.2001, per l’accesso alla posizione economica C/3 del personale appartenente alle posizioni economiche C/1 e C/2; trattandosi di progressione, sia pure per l’accesso ad una qualifica superiore, interna all’area professionale C, il procedimento concorsuale va qualificato senz’altro di diritto privato ed estraneo alle procedure di assunzione di cui all’art. 63, comma 4, d.lgs. 165/2001 (in termini, Cass. S.U. 14259/2005 e 9164/2006) mentre, in considerazione dell’epoca degli accadimenti che hanno originato la controversia, la giurisdizione ordinaria va affermata ai sensi della norma transitoria dettata dall’art. 69, settimo comma, dello stesso decreto.
           

 
 


NELLA VALUTAZIONE DELLA LEGITTIMITA’ DEL MUTAMENTO DI MANSIONI, SI DEVE APPLICARE UNA NOZIONE DINAMICA DELL’EQUIVALENZA PROFESSIONALE E’ possibile l’impiego del lavoratore in settori diversi della medesima area professionale (Cassazione Sezione Lavoro n. 10091 del 2 maggio 2006, Pres. Ciciretti, Rel. Stile).
            Egidio C., dipendente della s.p.a. Banca Regionale Europea, dopo avere svolto, presso la sede centrale, vari incarichi, tra cui quello di capo dell’Ufficio Segreteria Fidi e dell’Ufficio Rischi, ha esercitato, presso una filiale della sede di Cuneo, le funzioni di direttore, in sostituzione del titolare. Egli è stato poi trasferito, nel dicembre del 1998, a Torino in qualità di terzo funzionario assegnato all’area Piemonte, con l’incarico di occuparsi delle operazioni di fido eccedenti l’importo unitario di quattro miliardi di lire. Egli si è rivolto al Giudice del Lavoro di Cuneo, sostenendo di avere subito una dequalificazione con l’assegnazione di mansioni inferiori a quelle di direttore di filiale, e chiedendo il riconoscimento del diritto all’inquadramento di funzionario di I livello, a titolo di risarcimento del danno specifico (mediante “ricostruzione della carriera”). Sia il Tribunale di Cuneo che la Corte d’Appello di Torino hanno ritenuto la domanda priva di fondamento. In particolare, la Corte di Torino, ha rilevato che le mansioni affidate nel dicembre del 1998 al lavoratore erano aderenti alla sua professionalità, essendosi egli già in precedenza occupato di fidi e che esse comportavano una responsabilità certamente maggiore rispetto al passato, trattandosi di affidamenti eccedenti i quattro miliardi di lire. Egidio C. ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione della Corte di Torino per vizi di motivazione e violazione dell’art. 2103 cod. civ.
            La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 10091 del 2 maggio 2006, Pres. Ciciretti, Rel. Stile) ha rigettato il ricorso. Le regole elaborate dalla giurisprudenza di cassazione in tema di legittimo esercizio dello ius variandi del datore di lavoro – ha osservato la Corte – sono intese a configurare una nozione “dinamica” di equivalenza professionale, basata sulla conservazione dei tratti essenziali fra le competenze richieste al lavoratore prima e dopo il mutamento di mansioni; costituisce, invero, principio ormai acquisito che possano legittimamente assegnarsi al dipendente, a parità d’inquadramento, mansioni anche del tutto nuove e diverse, purché affini alle precedenti dal punto di vista del contenuto professionale.  L’esistenza, per così dire, di un “minimo comune denominatore” di conoscenze teoriche e capacità pratiche – ha aggiunto la Corte – è condizione necessaria e sufficiente a consentire che il dipendente sia in grado di svolgere le nuove mansioni con la preparazione posseduta; anzi, il fatto di mutare ramo di attività, operando in settori diversi della medesima area professionale, permette finanche al lavoratore d’incrementare ed arricchire il bagaglio di nozioni sviluppato nella fase pregressa del rapporto. In quest’ottica, senz’alcun dubbio quella che meglio risponde alle attuali caratteristiche ed esigenze del mondo del lavoro – ha osservato la Cassazione – la professionalità non rileva, dunque, come un’entità statica ed assoluta, sganciata dalla realtà aziendale, bensì come patrimonio di conoscenze potenzialmente polivalente, capacità di far fruttare nel nuovo posto di lavoro l’esperienza e le cognizioni sino a quel momento acquisite.