DEFINIRE GIUDA IL RESPONSABILE DI UN TRADIMENTO POLITICO NON COSTITUISCE DIFFAMAZIONE In quanto rientra nell’esercizio del diritto di critica (Cassazione Sezione Quinta Penale n. 29935 del 12 settembre 2006, Pres. Nardi, Rel. Vessichelli).
           Angelo P., responsabile di una sezione locale del partito di Alleanza Nazionale ha fatto affiggere nella bacheca della sezione, un manifesto con il quale ha definito Sante C. e Tiziana S., consiglieri comunali eletti nelle liste dello stesso partito, “giuda” nonché “traditori” degli elettori in quanto costoro si erano dissociati dalla linea ufficiale del partito. Le persone oggetto di questo attacco hanno presentato querela per diffamazione. Il Tribunale di Viterbo ha ravvisato la sussistenza del reato ed ha pertanto condannato Angelo P. Questa decisione è stata riformata dalla Corte di Appello di Roma che ha ritenuto che Angelo P. abbia esercitato il diritto di critica ed ha pertanto escluso l’esistenza del reato.
           La Suprema Corte (Sezione Quinta Penale n. 29935 del 12 settembre 2006, Pres. Nardi, Rel. Vessichelli) ha rigettato il ricorso delle parti civili, richiamando il suo costante orientamento giurisprudenziale secondo cui il diritto di critica sancito dall’art. 21 Cost. consente, nel corso delle competizioni politiche o sindacali, toni aspri di disapprovazione e il limite di tale condotta è dato dalla condizione che la critica non trasmodi in attacco personale portato direttamente alla sfera privata dell’offeso e non sconfini nella contumelia e nella lesione della reputazione dell’avversario. A questi principi – ha affermato la Cassazione – la Corte di Roma si è attenuta spiegando le ragioni per le quali ha ritenuto che l’affissione del manifesto e la definizione delle parti civili come “giuda” non fossero da intendere come attacco personale, ma come atto politico dell’imputato; questi infatti, nella veste di commissario di una sezione di un partito politico, aveva intesto portare a conoscenza degli elettori la scelta, altrettanto politica, delle parti civili di dissociarsi dalla linea ufficiale del gruppo, ponendosi anche nelle condizioni di subire una successiva espulsione dal partito. In tale cornice – ha affermato la Corte – la comunicazione riguardava un tradimento a connotato chiaramente politico e del tutto scevro da profili di corruttela, dai quali il termine “giuda”, nell’uso comune, è ormai disancorato.


Il datore di lavoro ha il dovere di sentire il lavoratore sottoposto a procedimento disciplinare solo se questi ne fa richiesta nel termine di cinque giorni dalla contestazione dell’addebito – In base all’art. 7 St. Lav. – In base all’art. 7 St. Lav. il datore di lavoro non può adottare alcun provvedimento disciplinare nei confronti del lavoratore senza avergli preventivamente contestato l’addebito e senza averlo sentito a sua difesa; i provvedimenti disciplinari più gravi del rimprovero verbale non possono essere applicati prima che siano trascorsi cinque giorni dalla contestazione per iscritto del fatto che vi ha dato causa. Questa norma non comporta per l’azienda un autonomo dovere di convocazione del dipendente per l’audizione orale, ma solo un obbligo correlato alla manifestazione tempestiva (entro il quinto giorno dalla contestazione) della volontà del lavoratore di essere sentito di persona. In caso di controversia il lavoratore ha l’onere di provare la tempestività della sua richiesta (Cassazione Sezione Lavoro n. 19553 del 13 settembre 2006, Pres. Ciciretti, Rel. Di Nubila).


 
Il pubblico ufficiale che, nella gestione del personale, emette provvedimenti contrari ai regolamenti recando un danno ingiusto può essere ritenuto responsabile di abuso di ufficio – In base all’art. 323 cod. pen. – In base all’art. 323 cod. pen. il reato di abuso di ufficio si configura tra l’altro, quando il pubblico ufficiale incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio in violazione di norme di legge o di regolamento intenzionalmente procura a se o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto.
               Fra le norme regolamentari la cui violazione può dar luogo a tale reato vi sono quelle che disciplinano la forma, il contenuto e la causa dell’atto amministrativo, come quelle relative alla disciplina della competenza, dei presupposti e delle specifiche modalità dei trasferimenti del personale dipendente fra i diversi uffici dell’amministrazione. Pertanto anche l’emanazione da parte di un pubblico ufficiale o di un incaricato di pubblico servizio di un provvedimento di avvicendamento di dipendenti non rientrante nelle sue competenze, può costituire il reato di abuso di ufficio previsto dall’art. 323 cod. pen. Per la configurabilità di tale reato, nella ipotesi in cui all’agente sia contestato di avere arrecato un danno ingiusto, non rilevano solo le norme che vietano puntualmente il comportamento sostanziale del pubblico ufficiale o dell’incaricato di un pubblico servizio, ma ogni altra norma, anche di natura procedimentale, la cui violazione determina comunque un danno ingiusto a norma dell’art. 2043 cod. civ., precetto questo, che, secondo il più recente orientamento delle Sezioni Unite Civili, va considerato non come norma secondaria volta a sanzionare una condotta vietata da altre norme, ma come norma primaria volta ad apprestare una riparazione del danno ingiustamente sofferto da un soggetto per effetto dell’attività altrui (Cassazione Sezione Sesta Penale n. 22242 del 23 giugno 2006, Pres. De Roberto, Rel. Mannino).

 
INCOMBE AL DATORE DI LAVORO PROVARE DI AVER RISPETTATO IL REQUISITO DELL’IMMEDIATEZZA NELLA CONTESTAZIONE DELL’ADDEBITO DISCIPLINARE La prova presuntiva deve essere fondata su fatti noti (Cassazione Sezione Lavoro n. 14115 del 20 giugno 2006, Pres. Mileo, Rel. Lamorgese).
           
Mauro S. dipendente della Conad Emilia Ovest s.c.r.l. è stato sottoposto a procedimento disciplinare nel luglio del 1997 con l’addebito di avere partecipato nel novembre del 1996 alla preparazione di un documento di critica dei dirigenti della società presentato da alcuni soci in occasione dell’assemblea del novembre 1996. Poiché le giustificazioni da lui addotte sono state ritenute infondate, egli è stato licenziato. Nel giudizio che ne è seguito davanti al Tribunale di Reggio Emilia, il lavoratore ha sostenuto, tra l’altro, che il licenziamento doveva ritenersi nullo per tardività della contestazione dell’addebito. L’azienda si è difesa affermando di avere rinvenuto soltanto del giugno del 1997 un brogliaccio dal quale aveva potuto desumere la partecipazione del dipendente alla redazione del documento critico. Il Tribunale ha ritenuto legittimo il licenziamento, in quanto ha escluso la tardività dell’addebito osservando che, se l’azienda fosse venuta a conoscenza del comportamento scorretto del dipendente prima del giugno 1997, glielo avrebbe certamente contestato. Questa decisione è stata riformata dalla Corte di Appello di Bologna che ha rilevato che la circostanza del rinvenimento del brogliaccio nel giugno del 1997 non era stata provata dall’azienda. La Corte ha anche osservato che il Tribunale aveva escluso la tardività della contestazione in base ad una presunzione non utilizzabile in quanto fondata su un fatto ignoto; pertanto ha annullato il licenziamento, ordinando la reintegrazione di Mauro S. nel posto di lavoro e condannando l’azienda al risarcimento del danno. La società ha proposto ricorso per cassazione sostenendo, tra l’altro, che la Corte di Bologna aveva posto erroneamente a suo carico la prova dell’immediatezza della contestazione.
           
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 14115 del 20 giugno 2006, Pres. Mileo, Rel. Lamorgese) ha rigettato sul punto il ricorso. Perché le presunzioni semplici abbiano valore – ha affermato la Corte – è necessario che gli elementi presi in considerazione siano gravi, precisi e concordanti (art. 2729 cod. civ.); devono cioè essere tali da lasciare apparire l’esistenza del fatto ignoto come una conseguenza ragionevolmente probabile del fatto noto, dovendosi ravvisare una connessione fra i fatti accertati e quelli ignoti secondo regole di esperienza che convincano di ciò, sia pure con qualche margine di opinabilità; non è consentito al giudice, in  mancanza di un fatto noto, fare riferimento a un fatto presunto e derivare da questo un’altra presunzione. Nella specie – ha osservato la Corte – correttamente il giudice di appello ha negato la validità del ragionamento, seguito da quello di primo grado, per affermare la tempestività della contestazione di addebito formulata dalla società, in quanto nel sostenere che se questa avesse saputo delle inadempienze del suo dipendente lo avrebbe licenziato, ha, in sostanza, finito con il risalire da un fatto ignoto ad un altro fatto ignoto.
           
L’immediatezza della contestazione nel procedimento disciplinare – ha aggiunto la Corte – costituisce elemento costitutivo del recesso per giusta causa, che deve essere verificato di ufficio dal giudice; una volta eccepita dal lavoratore licenziato la tardività della contestazione, fa carico al datore di lavoro di dimostrare le ragioni impeditive della tempestiva cognizione del fatto poi addebitato al dipendente.

 
Il Comune risponde della situazione di pericolo derivante dalle imperfezioni nella realizzazione di una strada – Insidie e trabocchetti – Un Comune può essere ritenuto responsabile del risarcimento del danno subito da un cittadino in seguito ad un incidente causato dall’imperfetta esecuzione di una strada comunale. Nell’esercizio del suo potere discrezionale in materia di esecuzione e manutenzione di opere pubbliche il Comune incontra limiti derivanti sia da norme di legge, regolamentari e tecniche, sia da regole di comune prudenza e diligenza,  prima fra tutte quella del neminem laedere, in ossequio alle quali essa è tenuta a far sì che l’opera pubblica (in particolare una strada aperta al pubblico transito) non integri per gli utenti gli estremi di una situazione di pericolo occulto (cosiddetta insidia o trabocchetto). Tale situazione ricorre, in particolare, quando lo stato dei luoghi è caratterizzato dal doppio e concorrente requisito della non visibilità oggettiva del pericolo e della non prevedibilità subiettiva del pericolo stesso. L’accertamento della ricorrenza in concreto di una situazione di pericolo che abbia tali connotati involge una questione di fatto, come tale rimessa al giudice del merito, il cui convincimento non è sindacabile in sede di legittimità se adeguatamente motivato ed immune da vizi logici e giuridici (Cassazione Sezione Terza Civile n. 14456 del 22 giugno 2006, Pres. e Rel. Sabatini).
 

 
Cumulo dei periodi di svolgimento alle mansioni superiori ai fini della promozione automatica – Per frequenza e sistematicità dell’assegnazione – In base all’art. 2103 cod. civ. il lavoratore ha diritto alla promozione automatica in caso di assegnazione a mansioni superiori per un periodo fissato dai contratti collettivi e comunque non superiore a tre mesi. Il compimento del periodo di assegnazione a mansioni superiori, cui consegue, ai sensi dell’art. 2103 cod. civ., il diritto del lavoratore alla promozione automatica, può risultare anche dal cumulo di vari periodi, quando le prestazioni di mansioni superiori abbiano assunto – indipendentemente da un intento fraudolento dell’imprenditore diretto ad impedire la maturazione del diritto alla promozione – carattere di frequenza e di sistematicità, desumibile dal numero di assegnazioni e dal tempo intercorso fra un’assegnazione e l’altra (Cassazione Sezione Lavoro n. 14466 del 22 giugno 2006, Pres. Mercurio, Rel. Miani Canevari).