Ove il lavoratore sostenga di avere subito un demansionamento, incombe al datore di lavoro provare che esso non si è verificato – In base ai principi generali in materia di onere della prova – Anche in materia di dequalificazione deve affermarsi la applicabilità del principio affermato in generale dalle Sezioni Unite secondo cui: “in tema di prova dell’inadempimento di una obbligazione, il creditore che agisca per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l’adempimento deve soltanto provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell’onere della prova del fatto estintivo dell’altrui pretesa, costituito dall’avvenuto adempimento, ed uguale criterio di riparto dell’onere della prova deve ritenersi applicabile al caso in cui il debitore convenuto per l’adempimento, la risoluzione o il risarcimento del danno si avvalga dell’eccezione di inadempimento ex art. 1460 cod. civ. (risultando, in tal caso, invertiti i ruoli delle parti in lite, perché il debitore eccipiente si limiterà ad allegare l’altrui inadempimento, ed il creditore agente dovrà dimostrare il proprio adempimento, ovvero la non ancora intervenuta scadenza dell’obbligazione). Anche nel caso in cui sia dedotto non l’inadempimento dell’obbligazione, ma il suo inesatto adempimento, al creditore istante sarà sufficiente la mera allegazione dell’inesattezza dell’adempimento (per violazione di doveri accessori, come quello di informazione, ovvero per mancata osservanza dell’obbligo di diligenza, o per difformità quantitative o qualitative dei beni), gravando ancora una volta sul debitore l’onere di dimostrare l’avvenuto, esatto adempimento”.
             Pertanto, allorquando da parte di un lavoratore sia allegata una dequalificazione o un demansionamento o comunque un inesatto adempimento dell’obbligo del datore di lavoro ex art. 2103 c.c. è su quest’ultimo che incombe l’onere di provare l’esatto adempimento del suo obbligo, o attraverso la prova della mancanza in concreto di qualsiasi dequalificazione o demansionamento, ovvero attraverso la prova che l’una o l’altro siano state giustificate dal legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali o disciplinari (ovvero, in base al principio generale di cui all’art. 1218 cod. civ., comunque da una impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile) (Cassazione Sezione Lavoro n. 4766 del 6 marzo 2006,  Pres. Senese, Rel. Nobile).

 
Il “mobbing” si configura in una condotta sistematicamente vessatoria, tale da ledere l’integrità fisica  e la personalità del lavoratore subordinato – In violazione dell’art. 2087 cod. civ. – Il “mobbing” si verifica allorché il datore di lavoro tiene una condotta sistematica e protratta nel tempo, che concreta, per le sue caratteristiche vessatorie, una lesione dell’integrità fisica e la personalità morale del prestatore di lavoro, garantite dall’art. 2087 cod. civ.; tale illecito, che rappresenta una violazione dell’obbligo di sicurezza posto da questa norma generale a carico del datore di lavoro, si può realizzare con comportamenti materiali o provvedimenti del datore di lavoro indipendentemente dall’inadempimento di specifici obblighi contrattuali previsti dalla disciplina del rapporto di lavoro subordinato. La sussistenza della lesione del bene protetto e delle sue conseguenze dannose deve essere verificata considerando l’idoneità offensiva della condotta del datore di lavoro, che può essere dimostrata, per la sistematicità e durata dell’azione nel tempo, dalle sue caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione, risultanti specialmente da una connotazione emulativa e pretestuosa, anche in assenza di una violazione di specifiche norme di tutela del lavoratore subordinato (Cassazione Sezione Lavoro n. 4774 del 6 marzo 2006, Pres. Mercurio, Rel. Miani Canevari).

Anche il dipendente della pubblica amministrazione è tutelato contro la dequalificazione – In base all’art. 52 del decreto legislativo 30 marzo 2001 n. 165 – Il decreto legislativo 30 marzo 2001 n. 165 (che detta norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche) prevede al primo comma dell’art. 52 (in tema di disciplina delle mansioni) che il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o alle mansioni considerate equivalenti nell’ambito della classificazione professionale prevista dai contratti collettivi, ovvero a quelle corrispondenti alla qualifica superiore che abbia successivamente acquisito per effetto dello sviluppo professionale o di procedure concorsuali o selettive; formulazione questa che ripete nella sostanza l’analoga prescrizione contenuta nella prima parte dell’art. 2103 cod. civ. secondo cui “il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione”.
                Nel caso di mutamento di mansioni per esercizio del jus variandi da parte del datore di lavoro, il lavoratore ha diritto alla conservazione del livello retributivo raggiunto comprensivo di eventuali compensi speciali attribuiti con continuità, ad integrazione della retribuzione base, in ragione della professionalità da lui raggiunta e del livello qualitativo delle mansioni stesse; invece non ricadono nel principio della irriducibilità della retribuzione le indennità che ineriscono a particolari modalità della prestazione di lavoro ed a fattori di maggiore gravosità della medesima. La garanzia della irriducibilità della retribuzione si estende alla sola retribuzione compensativa delle qualità professionali intrinseche essenziali delle mansioni precedenti, ma non a quelle componenti della retribuzione che siano erogate per compensare particolari modalità della prestazione lavorativa, e cioè caratteristiche estrinseche non correlate con le prospettate qualità professionali della stessa e, come tali, suscettibili di riduzione una volta venute meno, nelle nuove mansioni, quelle caratteristiche estrinseche che ne risultavano compensate. In particolare non rientra nella garanzia retributiva in questione l’indennità di reperibilità (Cassazione Sezione Lavoro n. 3389 del 16 febbraio 2006, Pres. Ciciretti, Rel. Amoroso).
 

 
SOTTOPOSTA ALLE SEZIONI UNITE LA QUESTIONE DELLA CONFIGURABILITA’ DEL REATO DI FALSO NELLA MANCATA TIMBRATURA, DA PARTE DEL PUBBLICO IMPIEGATO, DEL CARTELLINO DI PRESENZA IN OCCASIONE DI TEMPORANEI ALLONTANAMENTI DALL’UFFICIO – Per contrasto di giurisprudenza (Cassazione Sezione Quinta Penale ordinanza n. 135 del 3 febbraio 2006, Pres. Foscarini, Rel. Nappi).
            Vincenzo C., pubblico funzionario, dipendente della Soprintendenza ai beni culturali e ambientali è stato sottoposto a processo penale davanti al Tribunale di Palermo, con l’imputazione di falso e truffa per avere timbrato il cartellino di presenza alle ore 8 in entrata e alle ore 14 in uscita, pur essendosi allontanato dall’ufficio, per esigenze personali, nell’arco di tempo in cui risultava in servizio. Il Tribunale l’ha ritenuto colpevole e la sua decisione è stata confermata dalla Corte d’Appello di Palermo. Egli ha proposto ricorso in  Cassazione, sostenendo, tra l’altro che nel suo caso non poteva configurarsi il falso in quanto egli aveva timbrato il cartellino alle ore indicate. Il processo è stato assegnato alla V Sezione Penale che, con ordinanza n. 135 del 3 febbraio 2006 (Pres. Foscarini, Rel. Nappi) ha rimesso la decisione del ricorso alle Sezioni Unite, avendo constatato l’esistenza in materia, di un contrasto di giurisprudenza. La Corte ha rilevato che secondo l’orientamento espresso in alcune decisioni (Cass. Sez. V,  21 settembre 2004, Di Benedetto n. 230113 ed altre) “non costituisce il reato di falso ideologico per omissione la mancata timbratura, da parte del dipendente, del cartellino segnatempo in occasione di brevi allontanamenti dal luogo di lavoro, atteso che tale strumento di verifica della presenza nell’orario di lavoro non può essere considerato rappresentativo di un unitario atto di attestazione del periodo di tempo complessivamente speso in ufficio dal dipendente, bensì di distinti atti di attestazione, ciascuno relativo alle ore di ingresso e di uscita dall’ufficio”.
            A questa giurisprudenza – ha osservato la Corte – si oppone però un diverso orientamento giurisprudenziale secondo il quale “è configurabile il reato di falsità ideologica in atto pubblico a carico del pubblico dipendente che attesti nei fogli di presenza soltanto l’ora di ingresso e quella di uscita dall’ufficio senza far menzione delle assenze intermedie, atteso che detta attestazione può far erroneamente ritenere che vi sia stata la presenza continuativa in ufficio per tutte le ore di servizio dovute” (Cass. Sez. V, 3 febbraio 2004, Cei, n. 228737 ed altre).

 

 


La promozione automatica del lavoratore per svolgimento di mansioni superiori spetta anche nel caso che la formale responsabilità del suo nuovo incarico sia stata attribuita dall’azienda ad altro dipendente – In base all’art. 2103 cod. civ. – In base all’art. 2103 cod. civ. il lavoratore acquista il diritto ad essere promosso alla qualifica superiore quando abbia svolto per tre mesi le relative mansioni. Può accadere che il datore di lavoro, nel collocare il dipendente in una posizione che comporta lo svolgimento di mansioni superiori, attribuisca formalmente la relativa responsabilità ad altro lavoratore, come “reggente”. L’art. 2103 cod. civ. non consente di ritenere che, al fine di escludere il diritto del dipendente alla superiore qualifica per effetto dei contenuti professionali delle mansioni svolte per il periodo di tempo minimo previsto dalla norma, sia sufficiente che il datore di lavoro, nell’esercizio del suo potere organizzativo, conferisca ad altri dipendenti la titolarità formale delle mansioni stesse, ovvero degli elementi più qualificanti delle stesse. Appare, infatti, incontestabile che, ai fini di una norma di tutela, diretta con evidenza a privilegiare l’effettività, l’affidamento formale della responsabilità non incide minimamente sulla realtà della situazione di fatto. In altri termini, secondo principi generali, soprattutto applicati nella regolamentazione dei rapporti di lavoro, non rilevano le dichiarazioni esplicite di volontà se non coerenti con i comportamenti rivolti ad attuarle, i quali, se in contrasto, concretano essi manifestazione della reale volontà negoziale (Cassazione Sezione Lavoro n. 4842 del 7 marzo 2006, Pres. Ianniruberto, Rel. Picone).