Per definire nazionale un organizzazione sindacale si deve fare riferimento ai contratti collettivi che essa stipula – Più che alla diffusione territoriale – In base all’art. 28 St. Lav. sono legittimati ad agire giudiziariamente per la repressione dei comportamenti antisindacali gli organismi locali delle associazioni sindacali nazionali che vi abbiano interesse. Ai fini del riconoscimento del carattere “nazionale” dell’associazione sindacale assume rilievo più che la diffusione della articolazione territoriale delle strutture dell’associazione, la capacità di contrarre con la parte datoriale accordi o contratti collettivi che trovano applicazione in tutto il territorio nazionale e che non possono che essere, a loro volta, espressione di una forza e capacità negoziale comprovanti un generale e diffuso collegamento del sindacato con il contesto socio-economico dell’intero paese. La concreta ed effettiva organizzazione territoriale può configurarsi come elemento di riscontro del suo carattere nazionale e non certo come elemento condizionante il requisito della nazionalità (Cassazione Sezione Lavoro n. 212 del 9 gennaio 2008, Pres. Ciciretti, Rel. Vidiri).

 


 

 

IL LAVORATORE CHE, PER GIUSTIFICARE UN’ASSENZA, OTTIENE UN CERTIFICATO MEDICO DICHIARANDO, CONTRARIAMENTE AL VERO, UNA SINTOMATOLOGIA DOLOROSA, PUO’ ESSERE CONDANNATO PER TRUFFA E FALSO IDEOLOGICO – In base agli articoli 640, 48 e 481 codice penale (Cassazione Sezione Seconda Penale n. 1402 dell’11 gennaio 2008, Pres. Cosentino, Rel. Ambrosio).
              Giuseppe C., dipendente del Ministero di Giustizia con mansioni di conducente di automezzi, affetto da artrosi lombo sacrale con doppia discopatia, ha ottenuto alcuni certificati medici attestanti la sua necessità di riposo, dichiarando al sanitario una sintomatologia dolorosa acuta. Nei periodi di assenza dal lavoro giustificati con tali certificati, egli si è recato in luoghi di vacanza ove ha praticato gli sport dello sci e del tennis. Conseguentemente egli è stato sottoposto a processo penale e condannato alla pena di un anno di reclusione e 300,00 euro di multa dal Tribunale di Ancona, che lo ha dichiarato responsabile del reato di truffa in danno dello Stato (art. 640 cpv. n. 1 cod. pen.) e di induzione a commettere falsità ideologica (artt. 48 e 481 cod. pen.).
              Il Tribunale ha ritenuto che l’imputato, dichiarando, contrariamente al vero, inesistenti sintomi di lombalgia acuta, abbia indotto i medici in errore, inducendoli a rilasciare false attestazioni di inabilità al lavoro. I medici escussi come testi – ha osservato il Tribunale – hanno fornito un riscontro tecnico a un dato di comune esperienza e, cioè, che la lombalgia acuta comporta un irrigidimento del rachide, una limitazione delle capacità deambulatorie e una impossibilità di svolgere le comuni mansioni, con necessità di riposo assoluto almeno nei primi giorni e, successivamente, di una modesta attività fisioterapica; si trattava perciò di una situazione del tutto incompatibile con la pratica dello sci e del tennis, cui invece risultava essersi dedicato il lavoratore, posto che tali attività sportive implicavano una iperattività dei muscoli lombari e una sollecitazione della schiena particolarmente intensa.
              Questa decisione è stata confermata dalla Corte di Appello di Ancona. Giuseppe G. ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione impugnata per illogicità della motivazione e violazione di legge, sostenendo in particolare che avrebbe dovuto essere disposta una perizia medica.
              La Suprema Corte (Sezione Seconda Penale n. 1402 dell’11 gennaio 2008, Pres. Cosentino, Rel. Ambrosio) ha dichiarato il ricorso inammissibile. L’affermazione di responsabilità – ha osservato la Corte – poggia sul positivo accertamento della presenza del dipendente in luoghi di vacanza, dove si dedicava ad attività del tutto incompatibili con l’asserito stato di malattia o la necessità di cure termali-fisioterapiche; l’accertamento peritale – per sua natura mezzo di prova “neutro” – non può ricondursi al concetto di “prova decisiva”, la cui mancata assunzione possa costituire motivo di ricorso per Cassazione, ai sensi dell’articolo 606, comma 1, lettera “d”, del cod. proc. pen., in quanto il ricorso o meno a una perizia è attività sottratta al potere dispositivo delle parti e rimessa essenzialmente al potere discrezionale del giudice, la cui valutazione, se assistita da adeguata motivazione, è insindacabile in sede di legittimità. Nel caso in esame – ha affermato la Corte – i Giudici di appello hanno implicitamente, ma inequivocamente affermato l’inutilità del mezzo tecnico, osservando che i sanitari assunti come testi avevano fornito un “riscontro tecnico” di nozioni che fanno parte del bagaglio della comune esperienza.

 

 

 


 

 

Cassazione: più soldi ai dipendenti pubblici se svolgono mansioni superiori

I dipendenti pubblici che svolgono mansioni superiori a quelle attinenti al proprio incarico hanno diritto ad una retribuzione maggiore. E' quanto scrivono a chiare note le Sezioni Unite della Corte di Cassazione. Secondo la Corte in tali casi la retribuzione deve essere "proporzionata e sufficiente" rispetto all'incarico ricoperto. E' stato così respinto un ricorso della Regione Umbria che si era opposta al riconoscimento di due livelli avanzati di un proprio dipendente che per alcuni anni aveva ricoperto incarichi superiori rispetto alle normali mansioni. Il dipendente aveva così rivendicato un trattamento economico maggiore. I Giudici della Corte hanno ora chiarito che "in materia di pubblico impiego, l'impiegato cui sono state assegnate, al di fuori dei casi consentiti, mansioni superiori, anche corrispondenti ad una qualifica di due livelli superiori a quella di inquadramento, ha diritto ad una retribuzione proporzionata e sufficiente" in base all'art. 36 della Costituzione. Tale norma si legge nella sentenza "deve trovare integrale applicazione, senza sbarramenti temporali di alcun genere, pure nel settore del pubblico impiego privatizzato, sempre che le superiori mansioni assegnate siano state svolte, sotto il profilo quantitativo e qualitativo, nella loro pienezza, e sempre che in relazione all'attivita' spiegata siano stati esercitati i poteri ed assunte le responsabilita' correlate a dette superiori mansioni".


La sentenza riguarda il caso di due ex: lei rifiutava di fare sesso per le 'misure' di lui

Cassazione: "Nella coppia esiste il diritto all'amplesso"

Contrordine della Suprema Corte, che alcuni mesi fa aveva negato il diritto-dovere dei coniugi di avere rapporti sessuali: Ma "questa umana e ragionevole aspettativa diventa illecita se il matrimonio finisce"

Contrordine: il diritto all'amplesso esiste nella coppia, a patto che non sia scoppiata. Lo sottolinea la Cassazione, capovolgendo una pronuncia di alcuni mesi fa nella quale si metteva nero su bianco che "il diritto all'amplesso non esiste né all'interno di un rapporto coniugale, né paraconiugale". La Suprema Corte chiarisce oggi invece che "l'amplesso è certamente un diritto-dovere dei coniugi uniti in matrimonio" e anzi - aggiunge -"l'amplesso costituisce una delle ragioni complementari, se non prevalenti, di quella umana 'affectio' che spinge due persone a legarsi in matrimonio". Al contrario, il diritto-dovere di avere rapporti sessuali viene "a cessare quando il rapporto matrimoniale cessa nei modi previsti dalla legge". La sentenza con cui la Cassazione resistituisce ai coniugi il "diritto" all'amplesso riguarda una coppia di 'ex' del Piemonte, nella quale lei rifiutava di avere rapporti sessuali a causa delle 'misure' del marito. Lui, Alessandro B., 33enne separato, equivocando i rapporti civili che la moglie continuava ad intrattenere con lui - ricostruisce la sentenza 42979 della Terza sezione penale - approfittando di un incontro con la ex per vedere i figli, aveva avuto un rapporto sessuale al quale "lei si era prestata perché intimorita dall'atteggimento del coniuge (aveva chiuso a chiave la porta) e preoccupata della presenza dei bambini in altre stanze dell'alloggio, e al solo scopo di evitare conseguenze peggiori". La prova che l'infatuazione fosse "a senso unico", piazza Cavour la deduce anche dal fatto che "la donna nel corso del matrimonio aveva da sempre lamentato la difficoltà di avere rapporti sessuali con il marito che era dotato di un membro sproporzionato". Le 'misure' del marito, anzi, sono finite "al centro della negoziata separazione". Di qui, la denuncia della ex consorte al marito, che veniva condannato a due anni e tre mesi di reclusione per violenza sessuale dalla Corte d'Appello di Torino (novembre 2005). Inutilmente l'ex marito ha protestato in Cassazione, sostenendo che la donna aveva acconsentito al rapporto. Piazza Cavour ha respinto il ricorso di Alessandro B. e ha chiarito che "se è vero che l'amplesso è certamente un diritto-dovere dei coniugi uniti in matrimonio, e che inerisce naturalmente nella volontà degli stessi manifestata all'ufficiale di stato civile di accettare il reciproco status di coniuge, al quale sono collegati diritti e doveri", è "anche vero che questa umana e ragionevole aspettativa viene a cessare quando il rapporto matrimoniale cessa nei modi previsti dalla legge". Ecco perché - concludono i giudici - "deve ritenersi illecita, ed eventualmente coercitiva, una qualunque iniziativa sessuale di una delle parti quando non sia provata un'inequivoca e oggettiva volontà di ripristinare l'originario rapporto nella totalità di quei diritti e nell'adempimento di quei doveri che si ricollegano allo status dei coniugi".


 


Cassazione: l'offesa alla professionalità di un lavoratore è reato e da diritto al risarcimento

Attaccare la professionalità di un lavoratore accusandolo di negligenze e di non non saper svolgere il proprio lavoro configura un'ipotesi di reato che da anche diritto al risarcimento del danno morale. E' quanto chiarisce la corte di Cassazione (quinta Sezione penale, sent. 46299/2007) che ha così reso definitiva la condanna per diffamazione nei confronti di un medico psichiatra che aveva gettato discredito sulla professionalità di un collega. Perché sussista il reato, chiarisce la Corte "non e' necessaria l'intenzione di offendere la reputazione della persona, ma e' sufficiente il dolo generico, cioe' la volonta' della gente di adoperare espressioni offensive, con la consapevolezza del discredito che da tale condotta possa derivare per l'altrui reputazione". Nella parte motiva della sentenza, i Giudici di piazza Cavour hanno fatto notare che l'attacco alla professionalita' del collega "esulava da una critica per trasmodare in un attacco alla sua onorabilita' professionale". Da qui la sussistenza del "dolo".
 


 

 

Cassazione: lavoratore non accetta il demansionamento? Può essere licenziato

La Sezione Lavoro della Corte di Cassazione (Sent. n. 25313/2007) ha stabilito che è legittimo il comportamento del datore di lavoro che adibisce i propri dipendenti a mansioni inferiori quando detto demansionamento ha il fine di consentire la riorganizzazione produttiva e l'accrescimento delle professionalità di ciascuno ed evitare la crisi aziendale.
Gli Ermellini hanno quindi ribadito la legittimità delle previsioni contrattuali intese nel senso della flessibilità e della intercambiabilità nell'ambito di un'ampia area di professionalità diverse.
Con questa decisione la Corte ha ritenuto legittimo il licenziamento (per giusta causa) deciso dal datore di lavoro nei confronti di un lavoratore che si era rifiutato di eseguire la propria prestazione, ritenendola estranea alla qualifica di appartenenza

 


 

 

 


Il passaggio dei dipendenti pubblici ad una fascia funzionale superiore deve avvenire per pubblico concorso – In base all’art. 97 della Costituzione – Il passaggio dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni ad una fascia funzionale superiore – comportando l’accesso ad un nuovo posto di lavoro corrispondente a funzioni più elevate – è soggetto alla regola del pubblico concorso enunciata dal terzo comma dell’art. 97 Cost., atteso che, come è stato affermato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 194/2002, “il pubblico concorso in quanto metodo che offre le migliori garanzie di selezione dei più capaci è un meccanismo strumentale rispetto al canone di efficienza dell’amministrazione, il quale può dirsi pienamente rispettato qualora le selezioni non siano caratterizzate da arbitrarie forme che possono considerarsi ragionevoli solo in presenza di particolari situazioni, che possono giustificarle per una migliore garanzia del buon andamento dell’amministrazione” (Cassazione Sezione Lavoro n. 27127 del 21 dicembre 2007, Pres. Sciarelli, Rel. Balletti).