IL LAVORATORE SOTTOPOSTO A PROCEDIMENTO DISCIPLINARE HA DIRITTO DI ESSERE SENTITO A SUA DIFESA – Se la giustificazione da lui fornita in forma scritta non è esauriente (Cassazione Sezione Lavoro n. 21066  del 9 ottobre 2007, Pres. Ciciretti, Rel. Cuoco).
                   Giovanni A. marittimo dipendente della s.p.a. Caremar, è stato sottoposto a procedimento disciplinare, insieme a due colleghi, con l’addebito di avere, nello svolgimento delle mansioni di cassiere, mancato di emettere scontrini fiscali per importi incassati, appropriandosi di tali somme. La lettera di contestazione dell’addebito gli è pervenuta l’11 marzo 2000. Egli ha consegnato il 14 marzo successivo, all’ufficio del personale, una lettera con la quale ha succintamente respinto l’addebito, contestandone la fondatezza ed ha chiesto di essere sentito per poter fornire ulteriori precisazioni in sua difesa. L’azienda non lo ha convocato e gli ha comunicato, pochi giorni dopo, il licenziamento. Giovanni A. ha chiesto al Tribunale di Napoli di annullare il licenziamento per violazione dell’art. 7 St. Lav. e di condannare l’azienda alla reintegrazione nel posto di lavoro nonché al risarcimento del danno in misura pari alla retribuzione relativa al periodo tra il licenziamento e la reintegrazione.
                   Secondo l’art. 7 St. Lav. il datore di lavoro non può adottare alcun provvedimento disciplinare senza avere sentito il lavoratore a sua difesa. Davanti al Giudice, l’azienda  ha sostenuto che Giovanni A. aveva esercitato il suo diritto di difesa in forma scritta e che non v’era necessità per lui di fornire ulteriori precisazioni verbalmente. Per quanto concerne il risarcimento del danno essa ha sostenuto che il lavoratore non ne aveva il diritto, in quanto non si era iscritto nelle liste dei disoccupati e per questo non aveva trovato lavoro. Peraltro in prima udienza la Caremar ha offerto al lavoratore, in via transattiva, di assumerlo ex novo da quel momento, a condizione che egli rinunciasse al risarcimento del danno per la retribuzione non percepita dopo il licenziamento. Giovanni A. non ha accettato la proposta. Il Tribunale ha annullato il licenziamento per violazione dell’art. 7 St. Lav. ed ha accolto le domande di reintegrazione nel posto di lavoro e di risarcimento del danno. L’azienda ha proposto appello sostenendo che il lavoratore aveva avuto la possibilità di difendersi e che comunque il risarcimento del danno non gli era dovuto sia perché egli non si era iscritto nelle liste di collocamento sia perché aveva rifiutato la proposta di assunzione fattagli nella prima udienza. La Corte d’Appello di Napoli ha confermato la decisione di primo grado. La Caremar ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione della Corte di Napoli per violazione ed errata applicazione degli articoli 7 e 18 St. Lav. nonché per vizi di motivazione.
                   La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 21066 del 9 ottobre 2007, Pres. Ciciretti, Rel. Cuoco) ha rigettato il ricorso. Su un piano generale – ha affermato la Corte – è da premettere che il datore ha l’onere di “sentire” il lavoratore a sua difesa; questo “sentire” è l’aspetto d’un pur succinto “contraddittorio” che consenta al lavoratore, senza strumentali dilatazioni del tempo normativamente previsto, di esprimere compiutamente le proprie ragioni; ciò è in genere effettuato attraverso giustificazioni scritte, nelle quali il diritto del lavoratore si esercita e si esaurisce.
                   Nel rispondere alla contestazione (e pur con qualche difesa) – ha osservato la Corte – il lavoratore può tuttavia chiedere di essere sentito personalmente; la richiesta, come necessità conseguente alla risposta scritta (e protrazione della difesa attraverso una personale audizione) vincola il datore; il lavoratore ha il diritto di essere “sentito”. Questo diritto presuppone tuttavia – ha precisato la Cassazione – che la richiesta sia tempestiva (nei cinque giorni dalla contestazione; il termine di 5 giorni dalla contestazione è tuttavia fissato per la presentazione della giustificazione scritta e per l’eventuale richiesta di audizione personale, non per l’effettivo svolgimento dell’audizione), e che l’audizione abbia non uno scopo dilatorio bensì una sua necessità di protrarre la difesa scritta attraverso chiarimenti e precisazioni; nel quadro di questi principi, assume posizione centrale il giudice, il quale ha la funzione di valutare se il lavoratore abbia avuto la possibilità di esercitare adeguatamente il suo diritto come normativamente previsto, ed in particolare di valutare la sussistenza, dopo la presentazione di giustificazione scritta, della necessità di un’audizione.
                   Nel caso in esame – ha osservato la Corte – il giudicante, attentamente esaminando il contenuto della contestazione (“succinta …. con un sibillino riferimento a quanto occorso in data odierna”), la “complessità” della vicenda (tre marittimi addetti alla cassa, congiuntamente accusati della mancata emissione di scontrini fiscali e del conseguente ammanco, sostanziale concordanza del denaro in cassa con gli scontrini emessi), e la “generica giustificazione di Giovanni A.” (“influenzata dalla scarna contestazione adottata”), ha motivatamente ritenuto di escludere che “l’istanza sia dilatoria od immotivata” e che “le brevi giustificazioni scritte inviate dal lavoratore potessero ritenersi esaurienti, senza necessità di ulteriori precisazioni”.
                   Per quanto attiene al risarcimento del danno, la Corte ha affermato che nell’ipotesi di licenziamento illegittimo, la mancata iscrizione del lavoratore nelle liste del collocamento non è idonea a configurare una colpevole inerzia del creditore nel ridurre il danno risarcibile ai sensi dell’art. 1227 cod. civ., posto che il lavoratore, una volta assolto l’onere di proporre tempestivamente la domanda giudiziale intesa all’annullamento dell’illegittimo recesso, non è soggetto ad ulteriori oneri di diligenza, costituiti dalla ricerca d’un nuovo lavoro, i quali eccedono l’ambito della pur doverosa cooperazione che la parte deve prestare, nell’esercizio del proprio diritto, per evitare danni alla controparte. Poiché il lavoratore illegittimamente licenziato, pur avendo l’onere di non concorrere a cagionare il danno al datore (obbligato alla reintegrazione), conserva il diritto alla ricostruzione del preesistente rapporto di lavoro nella relativa ininterrotta continuità, il rifiuto dell’offerta di costituzione d’un nuovo rapporto (con efficacia ex nunc), non è causa di riduzione od esclusione del danno.
 


 

IL MALATO HA IL DIRITTO DI RIFIUTARE LA TERAPIA E DI DECIDERE DI INTERROMPERLAIn tutte le fasi della vita, anche quella terminale (Cassazione Sezione Prima Civile n. 21748 del 16 ottobre 2007, Pres. Luccioli, Rel. Giusti).
                   Eluana E. ha riportato, in un incidente stradale verificatosi nel 1992, un trauma cranico-encefalico in seguito al quale si trova tuttora in stato vegetativo permanente, condizione clinica che, secondo la scienza medica, è caratteristica di un soggetto che “ventila, in cui gli occhi possono rimanere aperti, le pupille reagiscono, i riflessi del tronco e spinali persistono, ma non vi è alcun segno di attività psichica e di partecipazione all’ambiente e le uniche risposte motorie riflesse consistono in una redistribuzione del tono muscolare”. Sopravvissuta perché alimentata a mezzo di un sondino naso-gastrico, ella è stata interdetta e suo tutore è stato nominato il padre. Questi ha chiesto al Tribunale di Lecco, previa nomina di un curatore speciale, l’emanazione di un ordine di interruzione dell’alimentazione forzata in considerazione della irreversibilità dello stato di coma vegetativo in cui si trova sua figlia da 15 anni. Il curatore speciale, nominato dal presidente del Tribunale, ha aderito al ricorso. Il Tribunale con decreto del febbraio 2006 ha respinto il ricorso, sostenendo che, in base agli artt. 2 e 32 della Costituzione, un trattamento terapeutico o di alimentazione, anche invasivo, indispensabile a tenere in vita una persona non capace di prestarvi consenso, non solo è lecito, ma è dovuto, in quanto espressione del dovere di solidarietà posto a carico dei consociati. Il tutore ha proposto reclamo alla Corte di Appello di Milano, chiedendo anche un accertamento istruttorio sulla volontà di Eluana, a sua tempo manifestata, contraria agli accanimenti terapeutici. La Corte, dopo aver sentito come testi tre amiche di Eluana, ha rigettato il reclamo. Dalle concordi deposizioni delle testimoni – ha osservato la Corte di Milano – emerge che Eluana era rimasta profondamente scossa dopo aver fatto visita in ospedale all’amico Alessandro, in coma a seguito di un sinistro stradale; ella aveva dichiarato di ritenere preferibile la situazione di un altro ragazzo, Filippo, che, nel corso dello stesso incidente, era morto sul colpo, piuttosto che rimanere immobile in ospedale in balia di altri attaccato ad un tubo, ed aveva manifestato tale sua convinzione anche a scuola, in una discussione apertasi al riguardo con le sue insegnanti suore.
                   Secondo i giudici del reclamo, si tratterebbe di dichiarazioni generiche, rese a terzi con riferimento a fatti accaduti ad altre persone, in un momento di forte emotività, quando Eluana era molto giovane, si trovava in uno stato di benessere fisico e non nella attualità della malattia, era priva di maturità certa rispetto alle tematiche della vita e della morte e non poteva neppure immaginare la situazione in cui ora versa; non potrebbe dunque attribuirsi alle dichiarazioni di Eluana il valore di una personale, consapevole ed attuale determinazione volitiva, maturata con assoluta cognizione di causa. La posizione di Eluana sarebbe pertanto assimilabile a quella di qualsiasi altro soggetto incapace che nulla abbia detto in merito alle cure ed ai trattamenti medici cui deve essere sottoposto. Il padre di Eluana ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione della Corte di Milano per vizi di motivazione e violazione di legge.
                   La Suprema Corte (Sezione Prima Civile n. 21748 del 16 ottobre 2007, Pres. Luccioli, Rel. Giusti) ha accolto il ricorso, affermando che in materia deve trovare applicazione il principio che il consenso informato costituisce, di norma, legittimazione e fondamento del trattamento sanitario; il consenso informato ha come correlato la facoltà non solo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma anche di eventualmente rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale.
                   Deve escludersi – ha affermato la Corte – che il diritto alla autodeterminazione terapeutica del paziente incontri un limite allorché da esso consegua il sacrificio del bene della vita; benché sia stato talora prospettato un obbligo per l’individuo di attivarsi a vantaggio della propria salute o un divieto di rifiutare trattamenti o di omettere comportamenti ritenuti vantaggiosi o addirittura necessari per il mantenimento o il ristabilimento di essa, deve ritenersi che la salute dell’individuo non possa essere oggetto di imposizione autoritativo-coattiva. Di fronte al rifiuto della cura da parte del diretto interessato, c’è spazio – nel quadro dell’“alleanza terapeutica” che tiene uniti il malato ed il medico nella ricerca, insieme, di ciò che è bene rispettando i percorsi culturali di ciascuno – per una strategia della persuasione, perché compito dell’ordinamento è anche quello di offrire il supporto della massima solidarietà concreta nelle situazioni di debolezza e di sofferenza; e c’è, prima ancora, il dovere di verificare che quel rifiuto sia informato, autentico ed attuale. Ma allorché il rifiuto abbia tali connotati – ha osservato la Corte – non c’è possibilità di disattenderlo in nome di un dovere di curarsi come principio di ordine pubblico.
                   In caso di incapacità del paziente, la doverosità medica trova il proprio fondamento legittimante nei principi costituzionali di ispirazione solidaristica, che consentono ed impongono l’effettuazione di quegli interventi urgenti che risultino nel miglior interesse terapeutico del paziente; e tuttavia, anche in siffatte evenienze, superata l’urgenza dell’intervento derivante dallo stato di necessità, l’istanza personalistica alla base del principio del consenso informato ed il principio di parità di trattamento tra gli individui, a prescindere dal loro stato di capacità, impongono di ricreare il dualismo dei soggetti nel processo di elaborazione della decisione medica: tra medico che deve informare in ordine alla diagnosi e alle possibilità terapeutiche, e paziente che, attraverso il legale rappresentante, possa accettare o rifiutare i trattamenti prospettati.
                   Il carattere personalissimo del diritto alla salute dell’incapace – ha affermato la Corte – comporta che il riferimento all’istituto della rappresentanza legale non trasferisce sul tutore, il quale è investito di una funzione di diritto privato, un potere incondizionato di disporre della salute della persona in stato di totale e permanente incoscienza. Nel consentire al trattamento medico o nel dissentire dalla prosecuzione dello stesso sulla persona dell’incapace, la rappresentanza del tutore è sottoposta a un duplice ordine di vincoli: egli deve, innanzitutto, agire nell’esclusivo interesse dell’incapace; e, nella ricerca del best interest, deve decidere non “al posto” dell’incapace né “per” l’incapace, ma “con” l’incapace: quindi, ricostruendo la presunta volontà del paziente incosciente, già adulto prima di cadere in tale stato, tenendo conto dei desideri da lui espressi prima della perdita della coscienza, ovvero inferendo quella volontà dalla sua personalità, dal suo stile di vita, dalle sue inclinazioni, dai suoi valori di riferimento e dalle sue convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche.
                   Chi versa in stato vegetativo permanente – ha osservato la Corte – è, a tutti gli effetti, persona in senso pieno, che deve essere rispettata e tutelata nei suoi diritti fondamentali, a partire dal diritto alla vita e dal diritto alle prestazioni sanitarie, a maggior ragione perché in condizioni di estrema debolezza e non in grado di provvedervi autonomamente. Ma – accanto a chi ritiene che sia nel proprio miglior interesse essere tenuto in vita artificiosamente il più a lungo possibile, anche privo di coscienza – c’è chi, legando indissolubilmente la propria dignità alla vita di esperienza e questa alla coscienza, ritiene che sia assolutamente contrario ai propri convincimenti sopravvivere indefinitivamente in una condizione di vita priva della percezione del mondo esterno. Uno Stato come il nostro, organizzato, per fondamentali scelte vergate nella Carta costituzionale, sul pluralismo dei valori, e che mette al centro del rapporto tra paziente e medico il principio di autodeterminazione e la libertà di scelta, non può che rispettare anche quest’ultima scelta. All’individuo che, prima di cadere nello stato di totale ed assoluta incoscienza, tipica dello stato vegetativo permanente, abbia manifestato, in forma espressa o anche attraverso i propri convincimenti, il proprio stile di vita e i valori di riferimento, l’inaccettabilità per sé dell’idea di un corpo destinato, grazie a terapie mediche, a sopravvivere alla mente, l’ordinamento dà la possibilità di far sentire la propria voce in merito alla disattivazione di quel trattamento attraverso il rappresentante legale.
                   Non v’è dubbio – ha rilevato la Corte – che l’idratazione e l’alimentazione artificiale con sondino nasogastrico costituiscono un trattamento sanitario. Esse, infatti, integrano un trattamento che sottende un sapere scientifico, che è posto in essere da medici, anche se poi proseguito da non medici, e consiste nella somministrazione di preparati come composto chimico implicanti procedure tecnologiche. Al giudice non può essere richiesto di ordinare il distacco del sondino naso-gastrico ma soltanto di autorizzare o meno la scelta compiuta dal tutore.
                   La decisione del giudice, dato il coinvolgimento nella vicenda del diritto alla vita come bene supremo, non può essere nel senso dell’autorizzazione soltanto (a) quando la condizione di stato vegetativo sia, in base ad un rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile e non vi sia alcun fondamento medico, secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, che lasci supporre che la persona abbia la benché minima possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una percezione del mondo esterno; e (b) sempre che tale istanza sia realmente espressiva, in base ad elementi di prova chiari, concordanti e convincenti, della voce del rappresentato, tratta dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti, corrispondendo al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l’idea stessa di dignità della persona.
                   La Cassazione ha ritenuto che la Corte di Milano sia incorsa in un difetto di motivazione nella interpretazione delle deposizioni testimoniali delle amiche di Eluana, in quanto idonee a delineare, unitamente alle altre risultanze dell’istruttoria, la personalità di Eluana e il suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l’idea stessa di dignità della persona, alla luce dei suoi valori di riferimento e dei convincimenti etici, religiosi, culturali e filosofici che orientavano le sue determinazioni volitive; e quindi ha omesso di accertare se la richiesta di interruzione del trattamento formulata dal padre in veste di tutore riflettesse gli orientamenti di vita della figlia. Tale accertamento – ha affermato la Corte – dovrà essere effettuato dal giudice del rinvio, tenendo conto di tutti gli elementi emersi dall’istruttoria e della convergente posizione assunta dalle parti in giudizio (tutore e curatore speciale) nella ricostruzione della personalità della ragazza. 
                  


 

L’IMPIEGATO CHE ABBIA L’INCARICO DI REGGENTE DI UNA DIREZIONE HA DIRITTO ALLA RETRIBUZIONE SUPERIORE – Se non è stato aperto il procedimento di copertura della sede cavante (Cassazione Sezione Lavoro n. 20899 del 5 ottobre 2007, Pres. Senese, Rel. De Matteis).
                   Giancarlo G., dipendente del Ministero dell’Economia con qualifica di 9° livello, è stato incaricato della reggenza della Direzione Provinciale del Tesoro di Arezzo ed ha svolto tali mansioni nel periodo dal luglio 1998 al settembre 2001. Successivamente egli ha chiesto al Tribunale di Arezzo di condannare il Ministero dell’Economia a corrispondergli le differenze di retribuzione dovutegli per avere svolto, come reggente della Direzione di Arezzo, le mansioni superiori di primo dirigente. Il Tribunale ha accolto la domanda e la sua decisione è stata confermata dalla Corte di Appello di Firenze. Il Ministero ha proposto ricorso per cassazione, sostenendo che tra le mansioni della nona qualifica funzionale, rivestita da Giancarlo G. vi erano le funzioni di sostituzione del dirigente in caso di assenza o impedimento, nonché di reggenza dell’ufficio in attesa della destinazione del dirigente titolare.
                   La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 20899 del 5 ottobre 2007, Pres. Senese, Rel. De Matteis) ha rigettato il ricorso. L’articolo 20 del D.P.R. 8.5.1987 n. 226 – ha osservato la Corte – dispone che il personale appartenente alla nona qualifica funzionale espleta, tra l’altro, le funzioni di sostituzione del dirigente in caso di assenza o impedimento, nonché di reggenza dell’ufficio in attesa della destinazione del dirigente titolare. L’interpretazione della norma, rispettosa del canone di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost. e dei principi di tutela del lavoro (art. 35 e 36 Cost.; art. 2103 c.c.; art. 52 d.lgs. 165/2001) – ha affermato la Corte – è nel senso che l’ipotesi della reggenza costituisce una specificazione dei compiti di sostituzione del titolare assente o impedito, contrassegnata anch’essa dalla straordinarietà e temporaneità, come reso palese dall’espressione “in attesa della destinazione del dirigente titolare”; di conseguenza, la reggenza dell’ufficio è consentita, senza dare luogo agli effetti collegati allo svolgimento di mansioni superiori, allorquando sia stato aperto il procedimento di copertura del posto vacante e nei limiti di tempo ordinariamente previsti per tale copertura. Al di fuori di questa specifica ipotesi contemplata dalla norma regolamentare – ha concluso la Corte – la reggenza dell’ufficio concreta svolgimento di mansioni dirigenziali e correttamente il giudice del merito ne ha ritenuto la sussistenza con riguardo ad una vacanza protrattasi per cinque anni.



Anche l’infarto miocardico verificatosi durante il lavoro può dare diritto al trattamento Inail –  Se sussiste il nesso causale con l’attività lavorativa -Anche l’infarto miocardico insorto durante il lavoro, a causa dello stress subito dal lavoratore, può costituire “evento violento” con conseguente diritto dell’interessato o dei suoi eredi al trattamento INAIL. Mezzo idoneo all’accertamento del nesso causale tra l’evento lesivo e l’attività lavorativa svolta è la consulenza tecnica d’ufficio (Cassazione Sezione Lavoro n. 19107 del 12 settembre 2007, Pres. De Luca, Rel. Di Nubila).