L’AFFISSIONE DEL CODICE DISCIPLINARE E’ NECESSARIA ANCHE PER L’INDIVIDUAZIONE DELLE SANZIONI DA APPLICARE PER LE MANCANZE DISCIPLINARI In base all’art. 7 St. Lav. (Cassazione Sezione Lavoro n. 247 del 10 gennaio 2007, Pres. Ciciretti, Rel. Celentano).
            Alfonso D., dipendente della S.p.A. Freeair Helicopters con mansioni di comandante a bordo di elicotteri, è stato sottoposto a procedimento disciplinare e licenziato con l’addebito di avere rifiutato l’esibizione del libretto di volo all’azienda datrice lavoro. Egli ha chiesto al Tribunale di Torino la dichiarazione di illegittimità del licenziamento, con ordine di reintegrazione nel posto di lavoro e risarcimento del danno, sostenendo che l’azienda non aveva adempiuto all’obbligo, previsto dall’art. 7 St. Lav., di affiggere, nei locali della base cui egli era addetto, il “codice disciplinare” recante l’indicazione delle infrazioni e delle relative sanzioni.
            L’azienda si è difesa sostenendo, tra l’altro, che l’infrazione attribuita al dipendente consisteva in una violazione di norme di legge ed era manifestamente contraria all’etica comune, in quanto l’obbligo di esibizione del libretto di volo è stabilito per ragioni di sicurezza. Il Tribunale ha ravvisato la denunciata violazione dell’art. 7 St. Lav. e pertanto ha annullato il licenziamento disponendo la reintegrazione del comandante nel posto di lavoro, condannando l’azienda  al risarcimento del danno. La Corte d’Appello di Torino ha rigettato l’impugnazione proposta dall’azienda osservando che, pur volendo ritenere mancanza grave quella di rifiutare l’esibizione del libretto di volo al datore di lavoro, la relativa sanzione (peraltro la più grave) non poteva che essere applicata nel rispetto delle norme procedimentali e pertanto doveva risultare preventivamente pubblicizzata mediante affissione. L’azienda ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione della Corte d’Appello per vizi di motivazione e violazione di legge.
            La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 247 del 10 gennaio 2007, Pres. Ciciretti, Rel. Celentano) ha rigettato il ricorso. La motivazione della decisione impugnata – ha affermato la Cassazione – è corretta, atteso che la norma disciplinare quasi mai “crea” l’illecito, ma sicuramente determina il collegamento della sanzione al fatto ed è volta a circoscrivere, a tutela del lavoratore, il campo dell’inadempimento sanzionabile.
           

 


L’accesso abusivo del dipendente a dati archiviati nel sistema informativo aziendale costituisce violazione dell’obbligo di fedeltà – In base all’art. 2105 cod. civ. – L’accesso abusivo, da parte del dipendente, a dati archiviati nel sistema informatico aziendale costituisce, indipendentemente dal contenuto dei dati, come pure dalla configurabilità del reato previsto dall’art. 615 ter cod. pen., un’inadempienza contrattuale riconducibile alla violazione dell’obbligo di fedeltà previsto dall’art. 2105 cod. civ.. Questa norma vieta qualsiasi condotta che sia in contrasto con i doveri connessi all’inserimento del lavoratore nella struttura dell’impresa e sia comunque idonea a ledere irrimediabilmente il presupposto fiduciario del rapporto (Cassazione Sezione Lavoro n. 153 del 9 gennaio 2007, Pres. Mattone, Rel. Miani Canevari).


 
IL GIUDICE ITALIANO HA GIURISDIZIONE SULLE CONTROVERSIE DI NATURA PATRIMONIALE PROMOSSE NEI CONFRONTI DELLE AMBASCIATE STRANIERE DAI LORO DIPENDENTI Non sussiste l’immunità (Cassazione Sezioni Unite Civili n. 118 del 9 gennaio 2007, Pres. Carbone, Rel. Amoroso).
            Elisabetta M. ha lavorato alle dipendenze dell’Ambasciata dello Stato degli Emirati Uniti dal 1° maggio 1991 al 31 agosto 1997 con rapporto regolato dalla “Disciplina del rapporto di lavoro di dipendenti delle Ambasciate, Consolati, Delegazioni, Istituti Culturali ed Organismi Internazionali in Italia”. Le mansioni della lavoratrice consistevano nell’espletamento di pratiche amministrative dell’Ambasciata; ossia aveva compiti di dattilografia di lettere in lingua italiana, di compilazione delle note-verbali al Ministero degli Esteri italiano per pratiche amministrative riguardo i permessi di soggiorno per il personale di Ambasciata e Consolato; di invio di note-circolari al Ministero per questioni amministrative; teneva i contatti con i fornitori dell’Ambasciata, compilando ricevute contabili in italiano per gli stessi; si occupava delle pratiche contabili relative alla richiesta e all’acquisto di carburante per automezzi di diplomatici e dell’Ambasciata; curava la spedizione della posta in uscita. L’orario ufficiale di Ambasciata era dalle 9:00 alle 15:00; l’orario d’ingresso era tassativo (con foglio di presenza da firmare), mentre quello d’uscita era flessibile, nel senso che i dipendenti rimanevano a disposizione ben oltre le 15:00. Di fatto la ricorrente osservava l’orario dalle 9:00 alle 17:00 per cinque giorni la settimana, lavorando anche nelle festività infrasettimanali e talvolta anche di sabato.
            Ella si è rivolta al Tribunale di Roma, sostenendo di avere percepito una retribuzione insufficiente e non proporzionata alla qualità e quantità del lavoro svolto e di non avere ricevuto le mensilità aggiuntive, gli scatti di anzianità e il trattamento di fine rapporto. Pertanto la lavoratrice  ha chiesto la condanna dell’Ambasciata al pagamento della somma di euro 51.000,00 circa.
            L’Ambasciata ha eccepito il difetto di giurisdizione del giudice italiano, contestando comunque il fondamento della domanda. Sia il Tribunale che la Corte d’Appello di Roma hanno ritenuto il ricorso inammissibile per difetto di giurisdizione del giudice italiano. La lavoratrice ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione della Corte d’Appello di Roma per vizi di motivazione e violazione di legge.
            La Suprema Corte (Sezioni Unite Civili n. 118 del 9 gennaio 2007, Pres. Carbone, Rel. Amoroso) ha accolto il ricorso, affermando la giurisdizione del giudice italiano e rinviando la causa, per nuovo esame, ad altra sezione della Corte d’Appello di Roma. La Corte ha richiamato la sua giurisprudenza secondo cui in caso di controversie inerenti al rapporto di lavoro del personale italiano – come di quello straniero – operante alle dipendenze di consolati di Stati stranieri in Italia, sussiste il difetto di giurisdizione del giudice italiano, quando la pronuncia a tale giudice richiesta comporti interferenza sull’organizzazione dell’ufficio consolare, sicché deve essere esclusa la giurisdizione del giudice italiano per la domanda volta alla reintegrazione nel posto di lavoro a seguito di impugnativa di licenziamento, investendo detta pretesa in via diretta i poteri organizzativi-sovrani dell’ente straniero; invece – come ha poi puntualizzato Cass. Sez. Un. 27 novembre 2002 n. 16830 – l’immunità giurisdizionale dell’ambasciatore di Stato estero, ai sensi dell’art. 31 della Convezione di Vienna 18 aprile 1961 sulle relazioni diplomatiche (resa esecutiva con la legge 9 agosto 1967, n. 804), non è invocabile con riferimento a controversia di pagamento di somme per differenze retributive relative all’espletamento di mansioni di autista presso l’ambasciata.
            Quindi, ha osservato la Corte, la giurisprudenza di legittimità ha da tempo abbandonato la tesi dell’“immunità diffusa” per accogliere, invece, il principio dell’“immunità ristretta o relativa”, che risponde, ormai, al diritto internazionale consuetudinario; pertanto, da una parte si è affermato che, al fine dell’esenzione dalla giurisdizione del giudice nazionale è richiesto che l’esame e l’indagine sulla fondatezza della domanda dei lavoratori non comporti apprezzamenti, indagini o statuizioni che possano incidere o interferire sugli atti o comportamenti dello Stato estero che siano espressione dei suoi poteri sovrani di autorganizzazione, vigendo in tali casi il principio generale par in parem non habet iurisdictionem; d’altra parte però può affermarsi che l’esenzione degli Stati stranieri dalla giurisdizione civile è limitata agli atti jure imperii (a quelli atti, cioè, attraverso i quali si esplica l’esercizio delle funzioni pubbliche statali) e non si estende invece agli atti iure gestionis o iure privatorum. Analoga distinzione – ha affermato la Corte –  va operata anche con riguardo ai rapporti di lavoro: occorre tener conto non solo della natura delle mansioni in concreto esercitate dal lavoratore, ma anche del tipo di domanda proposta, con la conseguenza di assegnare rilevanza decisiva – ai fini dell’attribuzione della giurisdizione al giudice italiano – alla natura meramente patrimoniale della pretesa esercitata in giudizio dal lavoratore dipendente di uno Stato estero. In base a questo criterio –  ha concluso la Corte – l’esenzione dello Stato straniero dalla giurisdizione nazionale viene meno, quindi, non solo nel caso di controversie relative a rapporti di lavoro aventi per oggetto l’esecuzione di attività meramente ausiliarie delle funzioni istituzionali degli enti convenuti, ma anche nel caso di controversie promosse dai dipendenti allorquando la decisione richiesta al giudice italiano, attenendo ad aspetti solo patrimoniali, sia inidonea ad incidere o ad interferire sulle funzioni dello Stato sovrano; nella specie le mansioni della ricorrente (impiegatizie d’ordine) non toccano l’esercizio di poteri sovrani dello Stato estero ed inoltre la domanda azionata in giudizio ha contenuto esclusivamente patrimoniale, avendo ad oggetto la pretesa di differenze retributive; talché deve affermarsi la giurisdizione del giudice italiano.