Il datore di lavoro non può contrastare lo svolgimento di un’attività politica da parte del dipendente – Né sindacare le sue scelte Nel rapporto di lavoro il diritto allo svolgimento di attività politica, tutelato dalla Costituzione, non può essere escluso o limitato se non nel caso in cui sia stata prevista una specifica incompatibilità. Al di fuori di questa ultima ipotesi, il datore di lavoro non può contrastare lo svolgimento di un’attività politica (al di fuori, si intende, dell’orario di lavoro, o comunque del servizio) da parte del dipendente, né, tanto meno, sindacare nel merito le scelte fatte e l’impegno assunto (Cassazione Sezione Lavoro n. 21749  del 11 ottobre 2006, Pres. Sciarelli, Rel. Monaci).

 
Al lavoratore impiegato all’estero deve essere assicurata una tutela economico-normativa globalmente non inferiore a quella prevista dal contratto collettivo nazionale – Nel caso di convenzione individuale – La normativa dettata dal contratto collettivo nazionale per i rapporti di lavoro prestati all’interno del territorio nazionale è applicabile anche alle prestazioni lavorative svolte all’estero da lavoratori italiani dipendenti da imprese nazionali, limitatamente a quegli istituti contrattuali nei confronti dei quali venga accertata l’efficacia extraterritoriale e cioè la loro applicabilità anche in un contesto diverso da quello della realtà nazionale.
               In caso di una convenzione individuale che abbia regolato in via autonoma la materia, questa deve assicurare al lavoratore una tutela economico-normativa globalmente non inferiore a quella prevista dal contratto collettivo. Il raffronto deve essere effettuato a livello di trattamento economico globale e non sui singoli istituti retributivi, che non sono applicabili direttamente ai lavoratori che prestano la loro attività all’estero, e non occorre necessariamente che siano “non inferiori” le singole poste retributive (e neppure che siano considerate e conteggiate separatamente) (Cassazione Sezione Lavoro n. 19424  del 11 settembre 2006, Pres. Mattone, Rel. Monaci)

LA LUNGA DURATA DEL DEMANSIONAMENTO PUO’ ESSERE RITENUTA SUFFICIENTE A PROVARE L’ESISTENZA DI UN DANNO PROFESSIONALE – In base all’art. 2103 cod. civ. (Cassazione Sezione Lavoro n. 21826 del 12 ottobre 2006, Pres. De Luca, Rel. Stile).
           
Franco A. impiegato, con qualifica di capo ufficio, presso la Ferrovia Adriatica Appennino, è passato, nel gennaio 1986 alle dipendenze della Società Panoramica, concessionaria del servizio di pubblico trasporto delle Ferrovie di Chieti. Mentre presso la FAA egli era incaricato del coordinamento di vari uffici, con autonomia di iniziativa e poteri di gestione del personale, dopo il passaggio alle dipendenze della Panoramica egli ha avuto mansioni consistenti nello svolgimento di sporadici e generici compiti di impiegato esecutivo. Nell’agosto del 1991 egli ha chiesto al Pretore di Chieti, in base all’art. 2103 cod. civ., la reintegrazione nelle mansioni svolte sino al gennaio 1986 e la condanna dell’azienda al risarcimento del danno professionale e del danno biologico. Il Pretore ha rigettato la domanda in quanto ha ritenuto inapplicabile agli autoferrotramvieri l’art. 2103 cod. civ., stanti gli ampi poteri, in materia di mansioni, attribuiti alle aziende di trasporto in concessione, da R.D. n. 148/31.
           
In grado di appello il Tribunale di Chieti ha riformato questa decisione in quanto ha ritenuto che la normativa del rapporto di lavoro degli autoferrotramvieri non escluda la tutela della professionalità del lavoratore in base all’art. 2103 cod. civ.; pertanto ha ordinato alla società Panoramica di assegnare al ricorrente mansioni adeguate alla qualifica di capo ufficio ed l’ha condannata al risarcimento del danno professionale da dequalificazione, determinandolo equitativamente in 25 mila euro, mentre ha rigettato, per mancanza di prove, la domanda di risarcimento del danno biologico. L’azienda ha proposto ricorso per cassazione per vizi di motivazione e violazione di legge, sostenendo che nel caso in esame l’art. 2103 cod. civ. era inapplicabile e che il Tribunale di Chieti aveva erroneamente ravvisato l’esistenza del danno professionale pur non essendone stata data la prova.
           
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 21826 del 12 ottobre 2006, Pres. De Luca, Rel. Stile) ha rigettato il ricorso. Il Tribunale – ha affermato la Corte – ha correttamente ritenuto applicabile l’art. 2103 cod. civ., in presenza di un demansionamento non giustificato da alcuna esigenza di servizio. Per quanto attiene al risarcimento del danno – ha aggiunto la Corte – il Tribunale di Chieti ha risolto il caso di specie traendo dalla accertata esistenza di un demansionamento, ritenuto del tutto immotivato e ingiusto, conseguenze coerenti con le deduzioni delle parti e le risultanze istruttorie. In particolare – ha osservato la Corte – il Giudice di appello ha accertato in concreto la esistenza di un danno da dequalificazione professionale, stante la impossibilità per il lavoratore per lungo lasso di tempo “di esprimere e realizzare il bagaglio di conoscenze teoriche e pratiche acquisite sino ad allora venendo addirittura ad essere lasciato in uno stato di quasi totale inattività”; di conseguenza, ha compiuto in via equitativa la “valutazione per tale danno per dequalificazione”, dando pieno conto del proprio convincimento. A tal proposito – ha osservato la Corte – il Tribunale ha ritenuto opportuno evidenziare che l’entità del danno, quantificato nella misura di € 25.000, era giustificato dal lungo tempo trascorso di inattività (a partire dal gennaio 1986), ponendo del tutto correttamente, a base di tale valutazione equitativa, il dato temporale incidente in maniera determinante sulle negative conseguenze della accertata dequalificazione.