L’ACCERTAMENTO DI INIDONEITA’ FISICA DEL LAVORATORE DA PARTE DI UN ISTITUTO PUBBLICO NON E’ INSINDACABILE – Può essere disatteso dal Giudice (Cassazione Sezione Lavoro n. 3095 dell’8 febbraio 2008, Pres. Mattone, Rel. La Terza).
              .... è stata assunta alle dipendenze della S.p.A. Azienda Provinciale Trasporti di Gorizia con contratto biennale di formazione e lavoro come conducente di linea. L’azienda, in seguito  a una prolungata assenza della lavoratrice per malattia, le ha chiesto di sottoporsi a un accertamento di idoneità fisica presso la Direzione Sanità delle Ferrovie dello Stato. Poiché l’accertamento si è concluso con un giudizio di inidoneità, la lavoratrice è stata licenziata prima della scadenza del contratto. Ella ha impugnato il licenziamento contestando la validità del giudizio di inidoneità fisica. L’azienda si è difesa sostenendo il carattere vincolante di tale giudizio, in quanto espresso dall’ente a tal fine designato, per il settore dei trasporti pubblici, dal D.P.R. n. 88 del 1999. Il Tribunale ha disposto una consulenza tecnica, dalla quale è risultata l’idoneità fisica della lavoratrice; pertanto ha dichiarato illegittimo il licenziamento  ed ha condannato l’azienda al pagamento, a titolo di risarcimento, di tre mensilità per il danno professionale e di tre mensilità per la perdita delle retribuzioni. Questa decisione è stata confermata dalla Corte d’Appello di Trieste che ha fatto riferimento alla sentenza della Corte Costituzionale n. 420 del 1998, secondo cui la dichiarazione di inidoneità fisica, a termini dell’art. 5 St. Lav. non ha carattere di definitività, potendo pervenirsi, in sede giudiziaria, a diverse conclusioni in base ad una consulenza tecnica. L’art. 5 St. Lav. stabilisce che il datore di lavoro ha facoltà di far controllare l’idoneità fisica del lavoratore da parte di enti pubblici ed istituti specializzati di diritto pubblico. L’azienda ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione impugnata per vizi di motivazione e violazione di legge.
              La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 3095 dell’8 febbraio 2008, Pres. Mattone, Rel. La Terza) ha rigettato il ricorso. Il ritenere insindacabili in sede giudiziaria accertamenti tecnici e/o sanitari, effettuati in sede amministrativa (su circostanze configuranti elementi costitutivi del diritto fatto valere) – ha affermato la Corte – finirebbe per tradursi in una violazione del disposto dell’art. 24 Cost., perché in tal modo si perverrebbe al risultato di condizionare lo stesso riconoscimento del diritto a momenti decisori sottratti alla dialettica processuale svuotandosi così di contenuto la generale regola costituzionale, che vuole che ogni controversia intorno ad un diritto sia decisa, in definitiva, dal giudice. Inoltre nessun accertamento di carattere tecnico effettuato al di fuori del processo, anche se, come nella specie, sia contemplata la possibilità di far ricorso in sede amministrativa, riveste un tale carattere di definitività da impedire la sua verifica nel processo, come ritenuto dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 420 del 1998, che riguardava una fattispecie di incolpevole affidamento, da parte del datore, nella dichiarazione di inidoneità fisica in esito alle procedure di cui all’art. 5 dello Statuto. Con tale sentenza si è affermato che “il datore di lavoro, nel momento in cui opta per l’immediato licenziamento del dipendente, anziché chiedere, secondo le normali regole contrattuali, la risoluzione giudiziaria del rapporto di lavoro per sopravvenuta impossibilità della prestazione, agisce a suo rischio, che rientra nel principio del “rischio d’impresa”, secondo una scelta del legislatore chiaramente rivolto a tutela del soggetto più debole”.
              Il datore di lavoro infatti – ha osservato la Cassazione – è vincolato solo in ordine alla scelta dell’organo amministrativo di controllo della idoneità, ma non gli è precluso di adire immediatamente il giudice per sottoporre il relativo parere alla verifica di congruità, chiedendo, secondo le normali regole contrattuali, la risoluzione giudiziaria del rapporto di lavoro per sopravvenuta impossibilità della prestazione; mentre il medesimo datore, non potendo ignorare che l’esito della procedura non è incontrovertibile, nel momento in cui opta per l’immediato licenziamento del dipendente agisce evidentemente a suo rischio. D’altra parte, diversamente opinando – ha affermato la Corte – il rischio di un errato accertamento da parte dell’organo amministrativo deputato verrebbe fatalmente a gravare sul lavoratore, che si troverebbe a subire la risoluzione del rapporto anche in assenza di una causa giustificativa.
              
 

La pubblica amministrazione risponde direttamente del danno ingiusto causato dall’attività di suoi dipendenti – Purché tra l’espletamento delle mansioni e l’evento dannoso vi sia un rapporto di “occasionalità necessaria” – La pubblica amministrazione risponde direttamente per le azioni o attività dei suoi funzionari e dipendenti, quali ne siano le mansioni espletate (di concetto, esecutive, materiali), se esse siano state produttive di un danno ingiusto. Il fondamento di tale responsabilità diretta implica la necessità che, perché essa ricorra, vi sia, oltre al nesso di casualità fra il comportamento del funzionario (o dipendente) e l’evento dannoso anche la riferibilità all’Amministrazione del comportamento stesso ed, in altri termini, che l’attività del funzionario o del dipendente possa essere considerata, in virtù del rapporto c.d. organico, esplicazione dell’attività della pubblica amministrazione.
             Ciò comporta la necessità che l’evento si ricolleghi in qualche modo, indipendentemente da eventuali abusi o dolo, ad una attività posta in essere per i fini istituzionali dell’ente perché solo in questo caso, e non quando il dipendente abbia agito per fini prettamente individuali o privati, essa può innestarsi nel contesto della attività complessiva dell’ente rendendo possibile il riconoscimento di quel nesso tra l’espletamento delle mansioni e l’evento che la giurisprudenza, con una sintetica espressione di comodo, definisce di “occasionalità necessaria”, e che consente di ricondurre anche alla p.a. (oltre che al dipendente) la responsabilità del danno prodotto dalla condotta predetta (Cassazione Sezione Terza Civile n. 2089 del 30 gennaio 2008, Pres. Varrone, Rel. Fantacchiotti).

 
IL DIPENDENTE DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE NON HA DIRITTO AL RISARCIMENTO DEL DANNO PER L’ASSEGNAZIONE A MANSIONI INFERIORI A QUELLE IN PRECEDENZA SVOLTE – In base all’art. 52 del decreto legislativo n. 165 del 2001 (Cassazione Sezione Lavoro n. 1346 del 22 gennaio 2008, Pres. Senese, Rel. La Terza).
              Antonio C. dipendente dell’Agenzia delle Entrate, ha superato il concorso per 999 posti di dirigente bandito nel gennaio 1993. Con decreto ministeriale del luglio 1999, egli è stato inserito nel ruolo della dirigenza, con riserva di attribuzione di funzioni dirigenziali. Dal giugno 1998 al febbraio 2000 ha svolto mansioni dirigenziali come responsabile della sezione distaccata della direzione regionale delle entrate di Milano. Nel febbraio 2000 è stato nominato direttore dell’Ufficio distrettuale imposte dirette di Clusone, con mansioni non dirigenziali. Egli ha chiesto al Tribunale di Milano, Sezione Lavoro,  tra l’altro, la condanna dell’Agenzia delle Entrate al risarcimento del danno per il demansionamento subito per effetto dell’assegnazione all’ufficio distrettuale di Clusone con mansioni non dirigenziali, inferiori a quelle in precedenza svolte a Milano. Egli ha fondato la sua domanda sull’art. 2103 cod. civ. che vieta ogni dequalificazione. Sia il Tribunale che la Corte d’Appello di Milano hanno ritenuto fondata la domanda di risarcimento del danno professionale per violazione dell’art. 2103 cod. civ. L’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per cassazione, censurando la sentenza della Corte di Milano per violazione dell’art. 2103 cod. civ. e dell’art. 52 del decreto legislativo n. 165/2001, nonché per difetto di motivazione.
              La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 1346 del 22 gennaio 2008, Pres. Senese, Rel. La Terza) ha accolto il ricorso, in quanto ha ritenuto inapplicabile, nell’ambito del pubblico impiego, la tutela della professionalità recata dall’art. 2103 cod. civ.. Com’è noto – ha osservato la Corte – l’art. 2 comma 2 del d.lvo 165/2001 prevede che i rapporti di lavoro delle amministrazioni pubbliche siano disciplinati “dalle disposizioni del capo I, titolo II del libro V del codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato, fatte salve le diverse disposizioni contenute nel presente decreto”; tuttavia la riconduzione della disciplina del lavoro alle regole privatistiche del contratto e dell’autonomia privata individuale e collettiva, con conseguente devoluzione alla giurisdizione del giudice ordinario, non elimina la perdurante particolarità del datore di lavoro pubblico che, pur munito nella gestione dei rapporti degli strumenti tipici del lavoro privato, per ciò che riguarda l’organizzazione del lavoro resta pur sempre condizionato da vincoli strutturali di conformazione al pubblico interesse e di compatibilità finanziaria generale. In forza della specialità di tale lavoro e dei principi rinvenibili negli artt. 97 e 98 Costituzione – ha rilevato la Corte – il decreto reca, all’art. 52, una disciplina delle mansioni articolata ed organica, tale da costituire un sistema normativo conchiuso, che è per intero alternativo alla regolamentazione posta, nel settore privato, dall’art. 2103 del codice civile.

              L’art. 52 dispone in primo luogo che il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o alle mansioni considerate equivalenti nell’ambito della qualifica professionale prevista dai CCNL; soggiunge che, “ovvero”, deve essere altresì adibito a quelle corrispondenti alla qualifica superiore che abbia successivamente acquisito; la disposizione esplicita poi le modalità di tale acquisizione, prevedendo che essa avvenga “per effetto dello sviluppo professionale o di procedure concorsuali o selettive”. Con ciò – ha osservato la Corte –implicitamente già nega che la qualifica superiore sia conseguibile, come avviene nell’impiego privato, in ragione dello svolgimento di fatto delle mansioni superiori per il tempo determinato dalla legge, ai sensi dell’art. 2103 cod. civ.; il che viene poi esplicitata dalla parte successiva, laddove si statuisce che “l’esercizio di fatto di mansioni non corrispondenti alla qualifica di appartenenza non ha effetto, né ai fini dell’inquadramento del lavoratore, né ai fini dell’assegnazione di incarichi di direzione”.
              Peraltro, a differenza che nell’impiego privato, l’adibizione a mansioni proprie della qualifica immediatamente superiore, per essere legittima, deve essere necessariamente “causale” dal momento che può avvenire solo “per obiettive esigenze di servizio”, e nei due casi tassativamente elencati, e cioè nel caso di vacanza di posto in organico o nel caso di sostituzione di altro dipendente assente con diritto alla conservazione del posto. In ogni caso, neppure in queste due ipotesi legislativamente contemplate, e quindi legittime, l’espletamento di fatto procura vantaggi diversi da quello del diritto al trattamento retributivo corrispondente (comma quarto dell’art. 52). L’assegnazione a mansioni superiori viene quindi concepita, nel pubblico impiego privatizzato, come intrinsecamente temporanea, escludendo quindi il diritto alla acquisizione della qualifica superiore ad esse corrispondente.
              Ne consegue – ha affermato la Corte – che l’inquadramento del lavoratore viene reso insensibile allo svolgimento di fatto di mansioni superiori, così impedendo la perpetuazione delle pregresse prassi di sovra inquadramento e di progressivo scivolamento dei dipendenti pubblici nelle qualifiche superiori, come è ulteriormente dimostrato dalla previsione di specifica responsabilità del dirigente pubblico il cui comportamento illegittimo nell’assegnazione di mansioni superiori abbia comportato un aggravio finanziario per l’amministrazione (quinto comma dell’art. 52).
              Se dunque l’espletamento di fatto di mansioni superiori non conferisce il diritto alla superiore qualifica, di talché il lavoratore rimane in possesso di quella di assunzione – ha concluso la Corte – non può considerarsi illegittima, e quindi passibile di risarcimento, la loro successiva sottrazione con riassegnazione a quelle precedenti, posto che con ciò altro non si fa che ottemperare all’obbligo di cui alla prima parte dell’art. 52, per cui il prestatore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto, e cioè alle mansioni corrispondenti alla qualifica di assunzione o a quelle considerate equivalenti nell’ambito della classificazione professionale prevista dai contratti collettivi.

 

L’ESISTENZA DEL DANNO DA DEMANSIONAMENTO PUO’ ESSERE PROVATA MEDIANTE PRESUNZIONI FONDATE SU NOZIONI GENERALI DERIVANTI DALL’ESPERIENZA – In base all’art. 115 cod. proc. civ. (Cassazione Sezione Lavoro n. 1974 del 29 gennaio 2008, Pres. Senese, Rel. De Renzis).
              Maurizio S. dipendente della s.p.a. Rete Ferroviaria Italiana, con qualifica di segretario tecnico superiore e inquadramento in 8a categoria, ha svolto dal novembre 1995 al dicembre 2001, presso la Stazione di Genova, le mansioni di direttore dei lavori, occupandosi anche di collaudo tecnico amministrativo, esame delle pratiche, partecipazione a commissioni di gara come presidente. Nel dicembre 2001 egli è stato trasferito a Torino con mansioni di incaricato della gestione esecutiva dei lavori ed incarichi di collaborazione e assistenza. Egli ha chiesto al Tribunale di Torino di accertare il suo diritto, per le mansioni svolte sino al dicembre 2001, all’inquadramento nella qualifica superiore di Ispettore Capo aggiunto di 9a categoria, nonché al risarcimento del danno per il demansionamento subito dal dicembre 2001. Il Tribunale gi ha riconosciuto il diritto alla qualifica superiore e ha condannato l’azienda a pagamento delle differenze di retribuzione. In grado di appello egli ha ottenuto dalla Corte di Torino anche la condanna dell’azienda al risarcimento del danno per il demansionamento subito a far tempo dal dicembre 2001. La s.p.a. Rete Ferroviaria Italiana ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione della Corte di Torino, sia per aver confermato il diritto del lavoratore alla qualifica superiore, sia per avergli attribuito il risarcimento del danno come conseguenza automatica del demansionamento.
              La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 1974 del 29 gennaio 2008, Pres. Senese, Rel. De Renzis) ha rigettato il ricorso nella parte relativa al riconoscimento della qualifica superiore, mentre l’ha accolto nella parte concernente la condanna dell’azienda al risarcimento del danno da demansionamento. Il giudice dell’appello – ha affermato la Corte – non ha svolto alcuna indagine sulla sussistenza e l’entità del danno da demansionamento, in quanto si è limitato a rilevare che il lavoratore era stato assegnato a mansioni inferiori a quelle in precedenza svolte.
              In questo modo – ha affermato la Cassazione – la Corte di Torino non ha rispettato i principi affermati dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 6572 del 2006, che, nel comporre il contrasto insorto in materia, ha chiarito che dall’inadempimento del datore di lavoro, che non può prescindere da una specifica allegazione nel ricorso introduttivo, non deriva automaticamente l’esistenza del danno, essendo necessario che si produca una lesione aggiuntiva ed autonoma, con riflessi sulle aspettative di progressione professionale, sulle abitudini di vita del lavoratore e sulle relazioni da lui intrattenute. Tali profili di danno peraltro possono essere dimostrati con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento, ivi compresa la prova per presunzioni, la quale, con prudente apprezzamento del giudice dei precisi elementi dedotti, consente di risalire al fatto ignoto, con ricorso ex art. 115 cod. proc. civ. a quelle nozioni generali derivanti dall’esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove.
              La Suprema Corte ha cassato sul punto la sentenza impugnata e ha rinviato la causa alla Corte d’Appello di Genova incaricandola di valutare se nel corso del giudizio di merito siano state offerte prove anche presuntive del danno da demansionamento allegato dal lavoratore.
 

 

 

 
LE ASSENZE DAL DOMICILIO DEL DIPENDENTE MALATO IN OCCASIONE DELLE VISITE DI CONTROLLO POSSONO GIUSTIFICARE IL LICENZIAMENTO – Per inadempienza agli obblighi derivanti dal rapporto di lavoro (Cassazione Sezione Lavoro n. 3226 dell’11 febbraio 2008, Pres. Ianniruberto, Rel. Amoroso).
              Chabchoub L., dipendente della s.r.l. System Service con mansioni di cuoco, si è assentato dal lavoro per malattia il 22 gennaio 2005 (sabato); il 24 gennaio ha ottenuto dal suo medico un certificato con prognosi al 1 febbraio 2005 e lo ha inviato alla datrice di lavoro e all’INPS. L’INPS ha disposto due visite di controllo, il 25 e 26 gennaio, ma in tali occasioni il lavoratore non è stato trovato in casa; egli non si è nemmeno presentato alle visite di controllo ambulatoriali fissate per il 27 e il 28 gennaio. L’azienda gli ha applicato le sanzione disciplinare di un giorno di sospensione per l’assenza del 22 gennaio e lo ha quindi nuovamente sottoposto a procedimento disciplinare per assenza ai controlli. Egli si è giustificato sostenendo di non essere stato trovato in casa perché si era recato presso il domicilio di una cugina per farsi assistere. L’azienda lo ha licenziato motivando la decisione con riferimento all’art. 167 del CCNL per i dipendenti di pubblici esercizi, che prevede la sanzione espulsiva in caso di assenza ingiustificata superiore a cinque giorni. Il lavoratore ha impugnato il licenziamento davanti al Tribunale di Bolzano sostenendo che la sua assenza dal lavoro doveva ritenersi giustificata in quanto non era stata contestata l’esistenza della malattia e che l’assenza al controllo doveva ritenersi sufficientemente sanzionata con la perdita del trattamento economico di malattia. Sia il Tribunale che la Corte d’Appello di Bolzano hanno ritenuto la domanda priva di fondamento, affermando l’esistenza di una giusta causa di licenziamento. Il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione della Corte di Bolzano per vizi di motivazione e violazione di legge.
              La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 3226 dell’11 febbraio 2008, Pres. Ianniruberto, Rel. Amoroso) ha rigettato il ricorso, ricordando la sua giurisprudenza secondo cui la giustificazione dell’assenza nelle fasce di reperibilità deve essere fondata su motivi seri che determinano l’impossibilità di osservare l’obbligo di reperibilità e che la violazione dell’obbligo di reperibilità alla visita medica di controllo può giustificare il licenziamento, in quanto violazione degli obblighi derivanti dal contratto di lavoro; la valutazione complessiva della gravità dell’infrazione deve tener conto delle violazioni anteriori e delle sanzioni disciplinari inflitte. Quindi – ha affermato la Corte – al fine della giustificatezza del licenziamento, rileva la violazione di un obbligo, quale quello di reperibilità, che inficia il nesso fiduciario ex se, senza necessità che risulti la falsità della allegazione della malattia.

              La valutazione dell’incidenza di questa violazione sul vincolo fiduciario – ha precisato la Corte – è rimessa all’apprezzamento del giudice di merito, sindacabile in sede di legittimità solo sotto il profilo della insufficienza o contraddittorietà della motivazione, non potendo predicarsi invece un generale difetto di proporzionalità e quindi di inidoneità ad integrare un’ipotesi di giusta causa di licenziamento; nella specie la Corte d’Appello ha correttamente preso le mosse in diritto dal principio secondo cui la violazione dell’obbligo di reperibilità durante le fasce orarie previste per le viste mediche ispettive costituisce ragione autonoma e sufficiente non solo per l’applicazione della conseguenza di legge automaticamente connessa (la perdita del trattamento economico, nei limiti previsti dalla cit. legge n. 683 del 1983) ma anche per l’irrogazione delle sanzioni disciplinari quali il licenziamento. Nel caso in esame – ha aggiunto la Cassazione – è stato correttamente motivato anche il giudizio di gravità del fatto, in quanto la Corte d’Appello ha osservato che l’inizio del periodo di congedo per malattia (il giorno 22.1.2005) è stato connotato da una riconosciuta indifferenza del lavoratore rispetto all’obbligo di diligenza, atteso che egli non ebbe ad avvisare in alcun modo la datrice di lavoro e neppure si recò quello stesso giorno dal medico per munirsi della opportuna certificazione; indifferenza che aveva una particolare connotazione di gravità stante le mansioni specifiche del lavoratore – quelle di cuoco – che non erano agevolmente fungibili; tutto ciò si saldava poi con la natura della patologia invalidante, successivamente certificata, che non era sicuramente tale da impedire di provvedere alla pronta e tempestiva comunicazione al datore di lavoro del luogo di provvisoria dimora e per dare ragguagli sul luogo di sua pronta reperibilità; ciò che invece il lavoratore omise di fare fino alla data del suo rientro e cioè fino al 2.2.2005. 

              
 

 
IL LAVORATORE PUO’ RIFIUTARE IL TRASFERIMENTO SE E’ ACCOMPAGNATO DA UN DEMANSIONAMENTO – In base all’art. 1460 cod. civ. (Cassazione Sezione Lavoro n. 4060 del 19 febbraio 2008, Pres. Mattone, Rel. Nobile).
              Guido A. dipendente della S.p.A. Imat Felco, azienda commerciale, ha svolto sino al luglio 2003 le mansioni di responsabile della filiale di Cantù con qualifica di secondo livello. Gli è stato poi comunicato il trasferimento a Como con assegnazione delle mansioni di commesso. Egli ha rifiutato di eseguire il trasferimento, sostenendo che esso avrebbe comportato un grave demansionamento, anche perché le mansioni di commesso erano proprie della qualifica di IV e V livello. Nel settembre del 2003 l’azienda lo ha licenziato con motivazione riferita al mancato adempimento alla disposizione di trasferimento. Il lavoratore ha impugnato il licenziamento davanti al Tribunale di Como, sostenendo che l’azienda, trasferendolo a Como come commesso, si era resa inadempiente all’obbligo, derivante dall’art. 2103 cod. civ., di non modificare in peggio le sue mansioni e che pertanto il suo rifiuto di dar corso al provvedimento aziendale doveva ritenersi giustificato in base all’art. 1460 cod. civ.. Questa norma stabilisce che nei contratti con prestazione corrispettive ciascuno dei contraenti può rifiutarsi di adempiere alla sua obbligazione, se l’altro non adempie.
              Il Tribunale ha rigettato il ricorso, in quanto ha ritenuto che il rifiuto del lavoratore di trasferirsi da Cantù a Como motivato con il fatto che l’esercizio delle nuove mansioni avrebbe costituito un demansionamento, costituiva una grave inadempienza, poiché, da un lato, di demansionamento si poteva parlare solo in caso di esercizio delle mansioni, dall’altro il ricorrente aveva reagito al trasferimento con l’autotutela, strumento non consentito dalla legge, anche a fronte della rassicurazione del datore di lavoro circa l’equivalenza delle mansioni (equivalenza, in ogni caso, ritenuta dal Tribunale). Questa decisione è stata integralmente riformata dalla Corte d’Appello di Milano che, in base alle risultanze documentali (in particolare la corrispondenza interna tra le parti), alle deposizioni dei testi e alle declaratorie contrattuali relative a qualche e mansioni, ha ravvisato che al trasferimento a Como si accompagnava un palese demansionamento e pertanto ha ritenuto giustificato il rifiuto opposto dal lavoratore alla disposizione aziendale. La società ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione impugnata per vizi di motivazione e violazione di legge.
              La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 4060 del 19 febbraio 2008, Pres. Mattone, Rel. Nobile) ha rigettato il ricorso, richiamando la sua giurisprudenza secondo cui “l’illegittimo comportamento del datore di lavoro consistente nell’assegnazione del dipendente a mansioni inferiori a quelle corrispondenti alla sua qualifica può giustificare il rifiuto della prestazione lavorativa, in forza dell’eccezione di inadempimento di cui all’art. 1460 cod. civ., purchè la reazione risulti proporzionata e conforme a buona fede”. Il giudice, ove venga proposta dalla parte l’eccezione “inadimplenti non est adimplendum” – ha affermato la Corte – deve procedere ad una valutazione comparativa degli opposti inadempimenti avuto riguardo anche alla loro proporzionalità rispetto alla funzione economico-sociale del contratto e alla loro rispettiva incidenza sull’equilibrio sinallagmatico, sulle posizioni delle parti e sugli interessi delle stesse; tale valutazione rientra nei compiti del giudice di merito ed è incensurabile in sede di legittimità se assistita da motivazione sufficiente e non contraddittoria; non si può ritenere che sussista una presunzione di legittimità dei provvedimenti aziendali, che imponga l’ottemperanza agli stessi fino a un contrario accertamento in giudizio.
              La sentenza impugnata – ha osservato la Corte – esaminate attentamente le risultanze documentali (in specie la corrispondenza intercorsa) e testimoniali nonché le declaratorie contrattuali, ha correttamente concluso che risultava provato in causa che al trasferimento a Como si accompagnava un palese demansionamento

La circostanza che il lavoro straordinario sia prestato in maniera fissa e continuativa non è sufficiente a farne includere il compenso nella retribuzione ordinaria – Ai fini delle spettanze per ferie e mensilità aggiuntive – Per stabilire se i compensi relativi al lavoro straordinario vadano inclusi nella retribuzione base, ai fini del calcolo delle spettanze per ferie, mensilità aggiuntive, festività e riposi settimanali, occorre procedere all’interpretazione del contratto collettivo. La circostanza che il lavoro straordinario sia prestato in maniera fissa e continuativa non è sufficiente a trasformare la natura della prestazione lavorativa, salvo che, alla stregua di una corretta indagine di fatto riservata al giudice di merito, non risulti una “specifica” volontà delle parti intese ad ampliare l’orario normale di lavoro conglobandovi lo straordinario fisso e continuativo, nonché a trasformare il relativo compenso in retribuzione ordinaria utile ai fini del calcolo delle spettanze la cui quantificazione debba essere effettuata con riferimento ad essa; ne consegue che, in mancanza della prova di una siffatta deroga pattizia, il compenso per il cosiddetto straordinario fisso non è computabile nel calcolo degli istituti indiretti, quali le spettanze per ferie, mensilità aggiuntive, festività e riposi settimanali, non esistendo nell’ordinamento un principio generale di onnicomprensività della retribuzione (Cassazione Sezione Lavoro n. 3514 del 13 febbraio 2008, Pres. e Rel. Ianniruberto).