IL DIPENDENTE DELLA PUBBLICA
AMMINISTRAZIONE NON HA DIRITTO AL RISARCIMENTO DEL DANNO PER L’ASSEGNAZIONE
A MANSIONI INFERIORI A QUELLE IN PRECEDENZA SVOLTE – In base
all’art. 52 del decreto legislativo n. 165 del 2001 (Cassazione Sezione
Lavoro n. 1346 del 22 gennaio 2008, Pres. Senese, Rel. La Terza).
Antonio C. dipendente dell’Agenzia delle Entrate, ha superato
il concorso per 999 posti di dirigente bandito nel gennaio 1993. Con decreto
ministeriale del luglio 1999, egli è stato inserito nel ruolo della
dirigenza, con riserva di attribuzione di funzioni dirigenziali. Dal giugno
1998 al febbraio 2000 ha svolto mansioni dirigenziali come responsabile
della sezione distaccata della direzione regionale delle entrate di Milano.
Nel febbraio 2000 è stato nominato direttore dell’Ufficio distrettuale
imposte dirette di Clusone, con mansioni non dirigenziali. Egli ha chiesto
al Tribunale di Milano, Sezione Lavoro, tra l’altro, la condanna
dell’Agenzia delle Entrate al risarcimento del danno per il demansionamento
subito per effetto dell’assegnazione all’ufficio distrettuale di Clusone con
mansioni non dirigenziali, inferiori a quelle in precedenza svolte a Milano.
Egli ha fondato la sua domanda sull’art. 2103 cod. civ. che vieta ogni
dequalificazione. Sia il Tribunale che la Corte d’Appello di Milano hanno
ritenuto fondata la domanda di risarcimento del danno professionale per
violazione dell’art. 2103 cod. civ. L’Agenzia delle Entrate ha proposto
ricorso per cassazione, censurando la sentenza della Corte di Milano per
violazione dell’art. 2103 cod. civ. e dell’art. 52 del decreto legislativo
n. 165/2001, nonché per difetto di motivazione.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 1346 del 22 gennaio 2008,
Pres. Senese, Rel. La Terza) ha accolto il ricorso, in quanto ha ritenuto
inapplicabile, nell’ambito del pubblico impiego, la tutela della
professionalità recata dall’art. 2103 cod. civ.. Com’è noto – ha osservato
la Corte – l’art. 2 comma 2 del d.lvo 165/2001 prevede che i rapporti di
lavoro delle amministrazioni pubbliche siano disciplinati “dalle
disposizioni del capo I, titolo II del libro V del codice civile e dalle
leggi sui rapporti di lavoro subordinato, fatte salve le diverse
disposizioni contenute nel presente decreto”; tuttavia la riconduzione
della disciplina del lavoro alle regole privatistiche del contratto e
dell’autonomia privata individuale e collettiva, con conseguente devoluzione
alla giurisdizione del giudice ordinario, non elimina la perdurante
particolarità del datore di lavoro pubblico che, pur munito nella gestione
dei rapporti degli strumenti tipici del lavoro privato, per ciò che riguarda
l’organizzazione del lavoro resta pur sempre condizionato da vincoli
strutturali di conformazione al pubblico interesse e di compatibilità
finanziaria generale. In forza della specialità di tale lavoro e dei
principi rinvenibili negli artt. 97 e 98 Costituzione – ha rilevato la Corte
– il decreto reca, all’art. 52, una disciplina delle mansioni articolata ed
organica, tale da costituire un sistema normativo conchiuso, che è per
intero alternativo alla regolamentazione posta, nel settore privato,
dall’art. 2103 del codice civile.
L’art. 52 dispone in primo luogo che il
prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato
assunto o alle mansioni considerate equivalenti nell’ambito della qualifica
professionale prevista dai CCNL; soggiunge che, “ovvero”, deve essere
altresì adibito a quelle corrispondenti alla qualifica superiore che abbia
successivamente acquisito; la disposizione esplicita poi le modalità di tale
acquisizione, prevedendo che essa avvenga “per effetto dello sviluppo
professionale o di procedure concorsuali o selettive”. Con ciò – ha
osservato la Corte –implicitamente già nega che la qualifica superiore sia
conseguibile, come avviene nell’impiego privato, in ragione dello
svolgimento di fatto delle mansioni superiori per il tempo determinato dalla
legge, ai sensi dell’art. 2103 cod. civ.; il che viene poi esplicitata dalla
parte successiva, laddove si statuisce che “l’esercizio di fatto di
mansioni non corrispondenti alla qualifica di appartenenza non ha effetto,
né ai fini dell’inquadramento del lavoratore, né ai fini dell’assegnazione
di incarichi di direzione”.
Peraltro, a differenza che nell’impiego
privato, l’adibizione a mansioni proprie della qualifica immediatamente
superiore, per essere legittima, deve essere necessariamente “causale” dal
momento che può avvenire solo “per obiettive esigenze di servizio”, e nei
due casi tassativamente elencati, e cioè nel caso di vacanza di posto in
organico o nel caso di sostituzione di altro dipendente assente con diritto
alla conservazione del posto. In ogni caso, neppure in queste due ipotesi
legislativamente contemplate, e quindi legittime, l’espletamento di fatto
procura vantaggi diversi da quello del diritto al trattamento retributivo
corrispondente (comma quarto dell’art. 52). L’assegnazione a mansioni
superiori viene quindi concepita, nel pubblico impiego privatizzato, come
intrinsecamente temporanea, escludendo quindi il diritto alla acquisizione
della qualifica superiore ad esse corrispondente.
Ne consegue – ha affermato la Corte – che
l’inquadramento del lavoratore viene reso insensibile allo svolgimento di
fatto di mansioni superiori, così impedendo la perpetuazione delle pregresse
prassi di sovra inquadramento e di progressivo scivolamento dei dipendenti
pubblici nelle qualifiche superiori, come è ulteriormente dimostrato dalla
previsione di specifica responsabilità del dirigente pubblico il cui
comportamento illegittimo nell’assegnazione di mansioni superiori abbia
comportato un aggravio finanziario per l’amministrazione (quinto comma
dell’art. 52).
Se dunque l’espletamento di fatto di mansioni superiori non
conferisce il diritto alla superiore qualifica, di talché il lavoratore
rimane in possesso di quella di assunzione – ha concluso la Corte – non può
considerarsi illegittima, e quindi passibile di risarcimento, la loro
successiva sottrazione con riassegnazione a quelle precedenti, posto che con
ciò altro non si fa che ottemperare all’obbligo di cui alla prima parte
dell’art. 52, per cui il prestatore deve essere adibito alle mansioni per le
quali è stato assunto, e cioè alle mansioni corrispondenti alla qualifica di
assunzione o a quelle considerate equivalenti nell’ambito della
classificazione professionale prevista dai contratti collettivi.