Cassazione, multe ai medici che non avvertono pazienti del 'colpo di sonno' da farmaci

La Suprema Corte: i camici bianchi devono mettere per iscritto l'avvertimento nel ''foglio di dimissioni''

Rischiano una multa salata i medici che, pur somministrando ai pazienti medicinali che come effetti collaterali inducono sonnolenza, dimenticano di avvertirli del possibile 'colpo di sonno'. Non solo: i camici bianchi non sono tenuti ad una semplice comunicazione verbale ma, sottolinea la Corte di Cassazione, devono mettere per iscritto l'avvertimento ''nel foglio di dimissioni''. Diversamente, in caso di incidente sopravvenuto ai danni del paziente inconsapevole che ha assunto il farmaco, possono essere chiamati a rispondere per il reato di lesioni colpose. Lo sottolinea la Quarta sezione penale (sentenza 1025) che si è occupata della vicenda di un medico di Pronto soccorso presso l'ospedale civile di Gorizia, Giorgio C., condannato in primo e in secondo grado (con una riduzione della provvisionale concessa) per lesioni colpose ad un mese di reclusione, sostituito da una multa di 1.140 euro, oltre al risarcimento danni, in solido con la Asl, nei confronti di Dario S., un uomo che si era presentato al pronto soccorso ''lamentando un malore diagnosticato come cardiopalmo tachiaritmico''. Il medico gli aveva somministrato un tranquillante, l''En' da 5 mg, che come ''possibili effetti collaterali dava il colpo di sonno''. Consigliabile, dunque, ''non mettersi alla guida per almeno dodici ore''. L' avvertimento che era bene non mettersi alla guida perché il farmaco provocava tra gli altri effetti ''sedazione'', si legge nella sentenza, ''non era contenuto nel foglio di dimissioni consegnato al paziente'' e così Dario S., appena dimesso, si era messo al volante e, ''colto da un colpo di sonno, invadeva la opposta corsia della strada, entrando in collisione con un'altra autovettura e riportando lesioni gravi''. Sulla ''responsabilità del medico'', il cui ricorso è stato accolto dalla Cassazione solo parzialmente relativamente alla richiesta di una ''integrazione probatoria'' poiché era emerso che il paziente era un ''cattivo guidatore'', gli 'ermellini' non hanno avuto nulla da eccepire rispetto ai colleghi della Corte d'appello di Trieste, settembre 2005, e hanno messo nero su bianco che era compito del dottor Giorgio C. ''mettere al corrente il paziente'' degli effetti collaterali del farmaco.

 


 

 

 

Giro di vite contro i prepotenti in auto, ora rischiano il carcere

Condannato a 15 giorni di reclusione un 46enne di Udine che si era messo a fare l'arrogante in autostrada alla guida della sua Porsche

 

 Giro di vite nei confronti di chi usa prepotenza alla guida dell'auto. La Corte di Cassazione ha infatti stabilito che tagliare la strada costituisce una vera e propria violenza privata punibile perfino con la reclusione. In questo modo la quinta Sezione penale (sentenza 42276) ha reso definitiva la condanna a 15 giorni di reclusione per il reato di violenza privata a Sandro T., un 46enne di Udine che in autostrada si era messo a fare l'arrogante alla guida della sua Porsche, tagliando la strada a un altro conducente, Maurizio B., costretto a brusche frenate. Secondo la Suprema Corte, che ha dichiarato inammissibile il ricorso dell'automobilista udinese, configura violenza privata ''la condotta del conducente di autoveicolo, il quale compia deliberatamente manovre insidiose al fine di interferire con la condotta di guida di altro utente della strada, realizzando così una privazione della libertà di determinazione e di azione della persona offesa''. Sandro T. è stato inoltre condannato a una multa di 300 euro per ingiuria per aver fatto anche un gestaccio con il dito medio della mano all'altro automobilista. Già la Corte d'Appello di Trieste, nel novembre 2005, aveva condannato a 15 giorni di reclusione per violenza privata e alla multa per ingiuria il conducente della Porsche perché, in autostrada, mentre Maurizio B. ''stava compiendo manovra di sorpasso sopraggiungeva la Porsche che lampeggiava per ottenere strada''. ''Rientrava a destra - si legge ancora nella sentenza - e la Porsche lo superava e rientrava anch'essa bruscamente, tagliandogli la strada e frenando repentinamente, così da costringerlo a frenata di emergenza per evitare il tamponamento''. La Porsche proseguiva quindi ''alla modesta velocità di 50-60 chilometri orari e l'altro automobilista decideva di sorpassarla ma iniziata la manovra, la Porsche riaccelerava e si riportava sulla corsia di sorpasso, tagliandogli di nuovo la strada e costringendolo ancora a brusca frenata e al rientro a destra''. A quel punto l'altro automobilista suonava il clacson e a questo punto il guidatore della Porsche alzava il dito medio, cominciando a zigzagare in tutte le corsie per parecchi chilometri. Un caso di prepotenza automobilistica finito davanti alla magistratura che ha deciso di usare mano pesante per scoraggiare questi comportamenti. E oggi la conferma da parte della Cassazione che ha dichiarato inammissibile il ricorso dell'automobilista prepotente condannato pure al pagamento di 500 euro alla cassa delle ammende.

 


 

 

Cassazione: rischia carcere automobilista che non si ferma anche per incidente lieve

Rischia il carcere l'automobilista che non si ferma a prestare soccorso anche in caso di incidente lieve. Chi infatti si sottrae a questo dovere sentito come ''fastidioso'' rischia fino ad un anno di reclusione, oltre ad una multa. A scoraggiare la cattive abitudini dei cosidetti 'pirati' della strada e' la Corte di Cassazione che ha confermato la condanna penale (non e' specificata l'entita' della pena) nei confronti di un automobilista 28enne, Gaetano F. per il reato di omissione di soccorso perche', ''sceso dalla propria autovettura e limitatosi a constatare i danni provocati dalla sua autovettura dal tamponamento di quella che lo precedeva, immediatamente dopo si dileguava senza averne giustificazione dal luogo del sinistro, in tal modo dando la prova che la fuga sia stata voluta per sottrarsi al dovere, ritenuto fastidioso, di prestare l'assistenza occorrente alle vittime dell'incidente''. Per la Cassazione, e' ''irrilevante'' ai fini della responsabilita' ''che le lesioni patite dalle vittime dell'incidente siano gravi o lievi'', l'automobilista deve comunque fermarsi e ha l'obbligo di ''prestare assistenza'' in caso vi siano ''persone ferite''. La Quarta sezione penale (sentenza 41962) ricorda che ''l'inottemperanza all'obbligo di fermarsi e' punita con la sanzione amministrativa in caso di incidente con danno alle sole cose e con quella penale della reclusione fino a quattro mesi in caso di incidente con danno alle persone''. In questo caso specifico, poi, annota la Suprema Corte, ''se il conducente si e' dato alla fuga la norma contempla la possibilita' dell'arresto in flagranza nonche' la sanzione accessoria della sospensione della patente; la sanzione penale e' piu' grave per chi non ottempera all'obbligo di prestare assistenza (reclusione fino ad un anno e multa)''.
 


 

 

 

Cassazione: lui si accolla il mutuo della casa? Mantenga anche la ex

Il fatto che il marito si sobbarchi per intero il mutuo della casa in comproprieta' con la moglie non significa, in caso di separazione, che questo lo esenti dal mantenerla. Lo sottolinea la Corte di Cassazione in una sentenza della Prima sezione civile (26835) con la quale ha respinto il ricorso di Cristofaro L.C., divenuto questore nel 1996, che si era opposto al mantenimento dell'ex moglie Franca G., dalla quale si era separato nel '98, imostogli dalla Corte d'appello di Roma, nel dicembre 2002. Secondo la Suprema Corte, e' del tutto irrilevante che l'uomo pagasse ''interamente il mutuo sulla casa in compropieta''' con la moglie, perche' ''l'attribuzione dell'assegno richiede di accertare, sulla base delle prove offerte, il tenore di vita del quale i coniugi erano in grado di godere durante il matrimonio in base al reddito complessivo; quindi di accertare se, con i propri mezzi, il coniuge richiedente sia in grado di conservare un tenore di vita tendenzialmente analogo''. In caso negativo, ''di valutare comparativamente la posizione economica al momento della pronuncia della separazione e, ove la situazione del coniuge richiedente sia deteriore rispetto a quella dell'altro, di quantificare l'assegno in funzione tendenzialemente restitutoria, in suo favore, del tenore di vita''.
 

 

 


 

 

 

Cassazione: il venditore non consegna la documentazione al momento del rogito? Si può chiedere la risoluzione del preliminare

La Seconda Sezione Civile della Corte di Cassazione (Sent. n. 25703/2006) ha stabilito che il promissorio acquirente può chiedere la risoluzione del contratto preliminare di compravendita per inadempimento da parte del promittente venditore nel caso in cui questi non adempia all'obbligo di consegnare, alla data del rogito, i documenti relativi all’immobile promesso in vendita. I Giudici del Palazzaccio hanno infatti osservato che la mancata produzione di documentazione relativa al accatastamento dell’immobile, all’assenza di concessione edilizia e soprattutto alla mancanza della abitabilità costituiscono “fatti impeditivi del trasferimento della proprietà dell’immobile”. Con questa decisione la Corte ha respinto il ricorso del promissorio venditore che si era presentato alla data stabilita per il rogito senza la documentazione relativa al certificato di abitabilità e alla concessione in sanatoria.
 

 

 


 

 

 

Cassazione: coniugi di fede diversa, non condannabili per liti anche violente

I coniugi con un diverso credo religioso che hanno ''dissidi'' anche ''violenti'' a causa delle divergenze sull'educazione da impartire ai figli non necessariamente vanno condannati penalmente se il loro dissenso sfocia in reazioni violente. In questo modo la Sesta sezione penale della Cassazione ha confermato l'assoluzione dal reato di maltrattamenti ad un marito calabrese Vincenzo E., 54 anni, denunciato dalla moglie Chiarina, testimone di Geova, per ''averla maltrattata con ripetute offese, minacce, aggressioni alla sua integrita' fisica''. Le liti tra la coppia, come si legge nella sentenza 40789, erano diventate sempre piu' accese ''in parte per i continui dissidi circa l'educazione religiosa dei figli, che la moglie, testimone di Geova, impartiva secondo la propria fede, in contrasto con il marito'', in parte per la ''relazione adulterina'' che il coniuge intratteneva con un'altra donna. Secondo la Suprema Corte, che ha dichiarato inammissibile il ricorso presentato dalla Procura presso la Corte d'appello di Catanzaro che si era opposta all'assoluzione dell'uomo, legittimamente l'uomo e' stato assolto sia in primo che in secondo grado (Corte appello di Catanzaro, dicembre 2004), perche' ''si e' ritenuto che le condotte'' a lui imputate ''fossero espressione di una reattivita' estemporanea che affondava le sue radici nel clima del dissidio tra i coniugi derivante sia dalla diversa religione praticata'' dalla donna ''sia, soprattutto, dalla relazione adulterina intrattenuta'' dal marito ''che tuttavia la congiunta era disposta a subire, non sollecitando la separazione dal marito''. In ''tale clima'', annota ancora piazza Cavour, ''andavano collocati gli episodi di percosse di cui aveva parlato la figlia Roberta''. Da qui la definitiva assoluzione dell'uomo.
 

 

 

 

 


LA MOBILITA’ VOLONTARIA NELL’AMBITO DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE DA’ LUOGO AD UNA CESSIONE DI CONTRATTO Ciò impedisce la richiesta, da parte del nuovo datore di lavoro, della firma di un patto di prova. (Cassazione Sezioni Unite Civili n. 26420 del 12 dicembre 2006, Pres. Nicastro, Rel. De Matteis).
           
Paola M. è stata assunta il 3 novembre 1997 dal Comune di Trenzano (BS) con contratto a tempo indeterminato, con la qualifica di istruttore direttivo contabile-economico; passata, a seguito di mobilità volontaria, al comune di Roccabianca (PR), vi ha preso servizio il 29 giugno 1998; si è assentata per malattia dal 20 luglio al 22 novembre 1998; l’11 dicembre successivo l’amministrazione comunale di Roccabianca le ha sottoposto per la firma il contratto di lavoro, con patto di prova; alla sua richiesta di tempo per riflettere, in relazione alla inserzione del patto di prova, è stata allontanata dal servizio. Paola M. ha proposto davanti al Tribunale di Parma, giudice del lavoro, le seguenti domande:

1.      in via principale, accertata l’illegittimità del licenziamento, ordinare la immediata reintegra con le mansioni di istruttore direttivo contabile economico; condannare il comune di Roccabianca a pagare tutte le retribuzioni spettanti ed il risarcimento del danno, conseguente all’illegittimo demansionamento e all’illegittimo recesso, ivi compreso il danno alla professionalità, alla dignità della persona e biologico;

2.      in via subordinata, ritenuta la trilateralità del rapporto, ordinare al comune di Trenzano la riammissione in servizio, con le mansioni attribuite da tale ente prima del trasferimento, nonché condannarlo al risarcimento del danno.
           
           
Il Giudice adito ha respinto la domanda. Egli ha ritenuto che la delibera di assunzione abbia il valore di un atto di nomina; che il rapporto di lavoro deve essere costituito in forma scritta ad substantiam; che, non avendo Paola M. sottoscritto il contratto di assunzione con l’amministrazione di Roccabianca, il rapporto vada qualificato come rapporto di fatto, disciplinato dall’art. 36, comma 8, D.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, e, per gli enti locali, dall’art. 5 legge 3 del 1979; che dall’art. 2126 cod. civ. non deriva il diritto alla prosecuzione del rapporto. La sentenza è stata confermata dalla Corte d’Appello di Bologna con sentenza 23 ottobre/28 novembre 2003 n. 362. Il giudice d’appello ha preliminarmente qualificato la mobilità volontaria come passaggio diretto che consente la costituzione, senza soluzione di continuità, di un nuovo e diverso rapporto di lavoro con altra amministrazione pubblica, senza l’espletamento di una nuova procedura concorsuale; esso – secondo la Corte – comporta la estinzione del rapporto originario con l’amministrazione cedente. Paola M. ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione impugnata per violazione di legge.
           
La Suprema Corte (Sezioni Unite Civili n. 26420 del 12 dicembre 2006, Pres. Nicastro, Rel. De Matteis) ha accolto il ricorso. La mobilità volontaria nel settore pubblico, prevista dall’art. 33 D. Lgs. 3.2.1993 n. 29 – ha osservato la Corte – è soggetta a vincoli quanto a conservazione dell’anzianità, della qualifica, del trattamento economico; la dottrina amministrativa, già sotto la vigenza del D.Lgs. 29/1993, aveva qualificato in maniera pressoché unanime tale fenomeno, denominato nel testo legislativo passaggio diretto, come modificazione meramente soggettiva del rapporto, con continuità del suo contenuto, e quindi come cessione di contratto; tale qualificazione sembra corretta alla luce del tipo contrattuale delineato nell’art. 1406 cod. civ. e della giurisprudenza della Suprema Corte. Infatti – ha affermato la Corte – la cessione del contratto, ammissibile anche per il contratto di lavoro, comporta il trasferimento soggettivo del complesso unitario di diritti ed obblighi derivanti dal contratto, lasciando immutati gli elementi oggettivi essenziali; tale qualificazione riceve conforto dall’art. 16 Legge 28.11.2005 n. 246 il quale, nel modificare l’art. 30 D. Lgs. 30.3.2001 n. 165, pur mantenendo la rubrica di “passaggio diretto”, nel testo della norma parla testualmente di “cessione di contratto”.
           
Trattandosi di cessione di contratto – ha concluso la Corte – ne deriva l’illegittimità della pretesa, da parte del Comune di Roccabianca, della stipulazione di un nuovo contratto di assunzione e di un nuovo patto di prova; da ciò consegue altresì l’illegittimità del licenziamento per mancata sottoscrizione del patto di prova. La Corte ha cassato la sentenza impugnata rinviando la causa alla Corte di Appello di Firenze per la quale ha enunciato il seguente principio di diritto: “La mobilità volontaria prevista dall’art. 33 D. Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, come modificato da ultimo dall’art. 16 legge 28 novembre 2005 n. 246, integra una modificazione soggettiva del rapporto di lavoro, con il consenso di tutte le parti, e quindi una cessione del contratto, per cui è illegittima la pretesa di un nuovo patto di prova nell’amministrazione ad quem, ove il periodo di prova sia stato già superato nell’amministrazione a quo”.
           
 


 

 


La lesione dell’integrità psico-fisica della persona può dar luogo a un duplice risarcimento – Per il danno biologico e per la riduzione della capacità lavorativa specifica – Il comportamento illecito lesivo dell’integrità psico-fisica della persona può dar luogo a due distinte voci di risarcimento, rispettivamente a titolo di danno biologico e di danno patrimoniale per la riduzione della capacità lavorativa specifica. Pertanto il giudice è tenuto a verificare se le lesioni accertate, oltre ad incidere sulla salute del soggetto, abbiano anche ridotto la sua capacità lavorativa specifica, con riduzione, per il futuro, della sua capacità di reddito (Cassazione Sezione Lavoro n. 238 del 10 gennaio 2007, Pres. Senese, Rel. De Matteis).