Il comportamento posto in essere dal dipendente che accede ad una cartella protetta sul server aziendale di cui non possiede le credenziali autorizzative, configura una responsabilità contrattuale del dipendente, in relazione alla violazione dello spazio riservato di un soggetto titolare del diritto di disporre delle informazioni ivi contenute e quindi di escludere l'accesso indesiderato di terzi. Tale comportamento è riconducibile alla inosservanza dell'obbligo di fedeltà di cui all'articolo 2105 Codice Civile, che, secondo consolidata giurisprudenza, vieta qualsiasi condotta in contrasto con i doveri connessi all'inserimento nella struttura del lavoratore dell'impresa e sia comunque idonea a ledere irrimediabilmente il presupposto fiduciario del rapporto.
La Cassazione ha pertanto confermato la sentenza di secondo grado (della Corte d'appello di Trento) che aveva a sua volta confermato quella del Tribunale di Rovereto che aveva giudicato legittimo il licenziamento del dipendente resosi colpevole della condotta sopra descritta. Tutto ciò, ha affermato la Cassazione, indipendentemente dal contenuto dei dati raccolti nella cartella oggetto dell'accesso, come pure dalla sussistenza degli estremi della fattispecie dell'accesso abusivo ad un sistema informatico, prevista e punita dall'articolo 615ter Codice Penale.
(Corte di Cassazione - Sezione Lavoro, Sentenza 7 novembre 2006 - 9 gennaio 2007, n. 153: Licenziamento dipendente - Accesso a cartella protetta su server aziendale - Legittimità)
GIUDICE DI PACE SUL DANNO DA VACANZA ROVINATA E SULLA CORRETTEZZA DEI DEPLIANT PUBBLICITARI
Si segnala una recente sentenza del Giudice di pace di Castellammare di Stabia dr. Ennio D'Alessio in tema di danno da c.d. da " vacanza rovinata", con cui sono stati proporzionalmente condannati sia l'agenzia viaggi (30%) che il tour operator (70%).
Preliminarmente il giudice ha statuito che il reclamo sui difetti della struttura formulato senza il rispetto del termine di dieci giorni sostenuto dalla difesa della convenuta non può essere considerato condizione di procedibilità, perché non considerato tale né dalla normativa in vigore nel 2004, né dal successivo Codice del Consumo ex D.Lgs 206/2005 che all'art.64 si riferisce al recesso che può manifestarsi mediante comunicazione scritta anche mediante telegramma, telex e/o fax.
In secondo luogo il Giudice ha ritenuto che l'agenzia viaggi, quale venditore del servizio turistico, risponde delle obbligazioni nei confronti del cliente, giacchè attraverso il catalogo avrebbe dovuto informare l'attore sull'utilizzo comodo ma alternativo o della zona pranzo o dei due posti-letto a piano terra, potendo il divano-letto essere aperto solo dopo aver spostato tavolo e sedie. La mancanza di indicazione nel depliant pubblicitario (che vincola sempre l'organizzatore-venditore alle proprie responsabilità, art.9 § 2 D.Lgs n.111/1995) ha senz' altro indotto in errore l'attore che, a causa di quanto sopra, fu costretto ad un limitato uso della casa e, nelle ore notturne, fu costretto a far alloggiare il figlio presso amici.
In definitiva la condanna per il risarcimento del danno non patrimoniale ammonta ad Euro 600,00 oltre alle spese legali.
[Avv. Luigi Vingiani]
(Ufficio del Giudice di Pace - Castellammare di Stabia, Sentenza 8 gennaio 2007, n.98).
LA COMUNICAZIONE DI
APERTURA DEL PROCEDIMENTO DISCIPLINARE DEVE CONSISTERE NELLA CONTESTAZIONE
DI SPECIFICI ADDEBITI –
In base all’art. 7 St. Lav.
(Cassazione Sezione Lavoro n. 1579 del 24 gennaio
2007, Pres. De Luca, Rel. Stile).
Gioacchino S., dipendente della s.p.a. Polifarma ha ricevuto
dall’azienda, nel settembre del 1994 una lettera che, dopo aver ricostruito le
difficoltà verificate nel rapporto di lavoro, concludeva: “a
questo punto non vogliamo trovare alcuna conseguenza, ma solo verificare che
Ella sia tuttora inserito nell’organigramma e risulti adempiente alle sue
obbligazioni”.
Il lavoratore non ha risposto ed è stato licenziato per ragioni disciplinari.
Egli si è rivolto al Giudice del Lavoro di Roma sostenendo l’illegittimità del
licenziamento per violazione, tra l’altro, dell’art. 7 St. Lav. che esclude
l’applicabilità di provvedimenti disciplinari ove il lavoratore non abbia
ricevuto preventivamente la contestazione in forma scritta degli addebiti e
non sia stato posto nelle condizioni di difendersi, pertanto ha chiesto la
condanna dell’azienda alla reintegrazione nel posto di lavoro e al
risarcimento del danno in base all’art. 18 St. Lav.. Il Giudice, pur
riconoscendo l’illegittimità del licenziamento per violazione dell’art. 7 St.
Lav., ha rigettato la domanda in quanto ha ritenuto non provato, da parte del
lavoratore, il requisito numerico per l’applicabilità dell’art. 18 St. Lav.;
vale a dire che l’azienda avesse, al momento del licenziamento, oltre 15
dipendenti. La Corte d’Appello di Roma ha escluso che la lettera inviata
dall’azienda al lavoratore nel settembre 1994 costituisse la contestazione di
addebito prevista dall’art. 7 St. Lav. e ha dichiarato pertanto
l’illegittimità del licenziamento; essa ha però applicato la legge n. 604 del
1966, condannando l’azienda alla riassunzione del lavoratore ovvero in difetto
al pagamento di un’indennità pari a 10 mensilità. La Corte ha escluso
l’applicabilità dell’art. 18 St. Lav. rilevando che il lavoratore non aveva
offerto la prova del numero dei dipendenti.
Il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione censurando la
decisione della Corte d’Appello per avere escluso l’applicabilità dell’art. 18
St. Lav.. L’azienda ha proposto ricorso incidentale sostenendo l’erroneità
della dichiarazione di illegittimità del licenziamento per violazione
dell’art. 7 St. lav., in quanto essa aveva proceduto alla contestazione
dell’addebito con la lettera del settembre 1994.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 1579 del 24 gennaio 2007,
Pres. De Luca, Rel. Stile) ha accolto il ricorso del lavoratore, richiamando
la sentenza delle Sezioni Unite n. 141 del 10 gennaio 2006, secondo cui il
lavoratore licenziato non ha l’onere di provare che il numero dei dipendenti
dell’azienda sia superiore a 15.
La Cassazione ha inoltre rigettato il ricorso incidentale
proposto dalla Polifarma, osservando che dall’esame della lettera aziendale
del settembre ‘94, la Corte d’Appello ha tratto, del tutto ragionevolmente, il
convincimento che con essa non si contestava alcunché al lavoratore, ma si
chiedeva solo di svolgere una relazione su uno dei punti controversi nei
rapporti tra le parti, senza formulare alcun invito formale a Gioacchino S.,
ex art. 7 St. lav., a discolparsi da specifiche contestazioni. La previa
contestazione dell’addebito, necessaria in funzione dei licenziamenti
qualificabili come disciplinari – ha affermato la Suprema Corte – ha lo scopo
di consentire al lavoratore l’immediata difesa e deve per ciò stesso rivestire
il carattere della specificità, che è integrato quando sono fornite le
indicazioni necessarie ed essenziali per individuare, nella sua materialità,
il fatto o i fatti nei quali il datore di lavoro abbia ravvisato infrazioni
disciplinari; il requisito della specificità della contestazione costituisce
oggetto di un’indagine di fatto, incensurabile in sede di legittimità, salva
la verifica di logicità e congruità delle ragioni esposte dal giudice di
merito.
IL PAZIENTE HA DIRITTO
AL RISARCIMENTO DEL DANNO PER IL PATEMA D’ANIMO CAUSATO DALL’ERRATA DIAGNOSI
DI UNA GRAVE MALATTIA
–
L’intervento del medico riguarda la persona nella sua integrità (Cassazione
Sezione Terza Civile n. 1511 del 24 gennaio 2007, Pres. Vittoria, Rel.
Marrone). Riferimento alla sentenza delle Sezioni Unite n. 6572/2006 in
materia di demansionamento.
L’Istituto di Anatomia Patologica
dell’Università di Firenze ha diagnosticato nel 1988 a Angelo P., affetto da
tumefazione nasale, un “carcinoma schneideriano” per il quale il paziente è
stato indirizzato all’Ospedale di Pisa per un ciclo di terapia radiante.
Ultimata la terapia, Angelo P. si è recato in Francia per un ulteriore ciclo
di cure presso l’Istituto Gustave Roussy di Villejuif. I medici francesi hanno
proceduto a una nuova lettura dei preparati istologici eseguiti a Firenze,
pervenendo alla diversa diagnosi di “papilloma transizionale con metaplasia
malpighiana estesa” malattia molto meno grave del carcinoma diagnosticato in
Italia. Angelo P. ha chiesto al Tribunale Civile di Firenze la condanna
dell’Istituto di Anatomia patologica di Firenze e del suo responsabile al
risarcimento dei danni anche non patrimoniali sostenendo che, per effetto
dell’errata diagnosi, egli aveva dovuto sottoporsi a una cura inutile e
dannosa oltre ad avere subito un grave patema d’animo. Sia il Tribunale che la
Corte d’Appello di Firenze hanno ritenuto la domanda priva di fondamento,
avendo accertato, mediante consulenza tecnica, che la radioterapia era una
cura appropriata anche per il “papilloma transizionale”; conseguentemente è
stato escluso il diritto di Angelo P. al risarcimento di qualsiasi danno.
Angelo P. ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione della
Corte d’Appello di Firenze per vizi di motivazione e violazione di legge.
La Suprema Corte (Sezione Terza Civile n.
1511 del 24 gennaio 2007, Pres. Vittoria, Rel. Marrone) ha parzialmente
accolto il ricorso in quanto ha ritenuto che, pur trattandosi di
responsabilità contrattuale, la Corte di Firenze sia incorsa in errore
escludendo la configurabilità di un danno non patrimoniale risarcibile nel
patema d’animo causato dall’errore di diagnosi. La Cassazione ha richiamato la
sua giurisprudenza secondo cui il danno morale soggettivo (patema d’animo) è
risarcibile anche se il danno non sia configurabile come reato (sentenza n.
8827 del 31 maggio 2003). Più di recente, in materia di rapporto di lavoro –
ha ricordato la Corte – la sentenza delle Sezioni Unite n. 6572 del 24
marzo 2006, con riguardo alle responsabilità da
demansionamento e quindi, di natura contrattuale, ha ritenuto risarcibile il
danno non patrimoniale alla luce dell’art. 2087 cod. civ., che impone al
datore di lavoro di rispettare l’integrità fisica e la personalità morale del
prestatore di lavoro. Questa linea interpretativa deve ritenersi valida – ha
affermato la Corte – sol che si consideri la particolare natura del rapporto
professionale che si instaura tra il medico ed il paziente che, a differenza
degli altri rapporti con professionisti nei quali risalta in via esclusiva o
di gran lunga prevalente l’aspetto economico, investe il paziente nella sua
totalità psico-fisica; in altri termini, poiché l’intervento del medico
riguarda non tanto o non solo la fisicità del soggetto ma la persona nella sua
integrità (si cura non la malattia ma il malato), è ragionevole ritenere che
eventuali errori diagnostici compromettano, oltre alla salute fisica,
l’equilibrio psichico della persona, specie se l’errore – come nel caso di
specie – riguarda la diagnosi di malattie assai gravi e comunque in grado di
pregiudicare grandemente la serenità del paziente per le loro prospettive
infauste e quindi ansiogene.
La Suprema Corte ha cassato la sentenza
impugnata, rinviando la causa, per nuovo esame, ad un’altra Sezione della
Corte d’Appello di Firenze.
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