L’ISTITUTO DI VIGILANZA PRIVATA CHE IMPIEGHI UN DIPENDENTE IN UN DOPPIO TURNO DI LAVORO, IN VIOLAZIONE DI UN’ORDINANZA DEL QUESTORE, DEVE RISARCIRE IL DANNO SUBITO DAL LAVORATORE PER EFFETTO DI UNA RAPINAIn applicazione dell’art. 2087 cod. civ. (Cassazione Sezione Lavoro n. 8230 del 23 maggio 2003 Pres. Trezza, Rel. Cuoco).
          Gennaro C., dipendente della S.p.A. Mondialpol Milano con mansioni di guardia giurata, era a bordo di un furgone portavalori quando l’automezzo è stato oggetto di una rapina a mano armata. Per le lesioni subite in questa occasione egli ha riportato un’invalidità temporanea di 3 anni e 5 mesi ed una permanente riduzione della capacità lavorativa nella misura del 60 %. Gennaro C. ha chiesto al Pretore di Milano, giudice del lavoro, di condannare la Mondialpol al risarcimento del danno sostenendo che al momento della rapina egli era in servizio da circa dodici ore, avendolo l’azienda impiegato in un doppio turno di lavoro, in violazione di specifiche disposizioni impartite dal Questore di Milano agli istituti di vigilanza privata al fine di evitare sovraccarichi di lavoro e conseguenti inefficienze del servizio. Il Pretore ha rigettato la domanda in quanto non ha ravvisato un nesso causale fra violazione del divieto di doppio turno stabilito dal Questore e il danno riportato dal lavoratore nella rapina. Questa decisione è stata confermata, in grado di appello, dal Tribunale di Milano, che ha rilevato che il danno avrebbe potuto verificarsi anche se la rapina fosse avvenuta durante il primo turno di lavoro. Il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione contro la sentenza del Tribunale di Milano per difetto di motivazione e per violazione dell’art. 2087 cod. civ. che prescrive al datore di lavoro di adottare tutte le misure necessarie per tutelare la salute del dipendente. La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 8230 del 23 maggio 2003 Pres. Trezza, Rel. Cuoco) ha accolto il ricorso.
          La Corte ha rilevato che il Questore, autorità di pubblica sicurezza (che “veglia al mantenimento dell’ordine pubblico, alla sicurezza dei cittadini ed alla loro incolumità”: art. 1 del R.D. 18 giugno 1931 n. 773), “ha la direzione ed il coordinamento, a livello tecnico operativo, dei servizi di ordine e di sicurezza pubblica e dell’impiego a tal fine della forza pubblica” (art. 14 della legge 1° aprile 1981 n. 121). E’ nel quadro di questa generale funzione – ha osservato la Corte – che si colloca anche il potere che il Questore esercita sulle guardie giurate, le quali, pur prestando servizio alle dipendenze di istituti di vigilanza privata e “fermo restando il rapporto di impiego fra guardie e titolari della licenza di polizia, sono poste, per quanto riguarda il servizio, alla dipendenza del Questore, che ne vigila pure l’ordinamento” (art. 1 del R.D.L. 12 novembre 1936 n. 2144). Poiché la funzione del Questore non attiene direttamente al rapporto di impiego – ha affermato la Corte – l’ordinanza, con cui egli interviene sull’orario e sui turni della guardia giurata, non ha la funzione di regolare l’interno assetto di questo rapporto, bensì l’efficienza ed il buon andamento del servizio ai fini della tutela della sicurezza pubblica e dell’incolumità dei cittadini (comprensiva della stessa guardia). La Corte ha cassato la sentenza del Tribunale di Milano, ed ha rinviato la causa, per un nuovo esame, alla Corte d’Appello di Brescia stabilendo, per il giudice di rinvio, il seguente principio di diritto: “Nello spazio dell’art. 2087 cod. civ. rientra anche l’obbligo, da parte del datore di lavoro di guardie giurate, di osservare le disposizioni del Questore (alla cui dipendenza, per quanto riguarda il servizio, le guardie sono poste, come prevede l’art. 1 del R.D.L. 12 novembre 1936 n. 2144), le quali, attenendo all’efficienza ed al buon andamento del servizio cui la guardia giurata è adibita, siano idonee ad evitare o limitare anche il danno del lavoratore, che un servizio non pienamente efficiente può determinare. E, poiché il dolo o la colpa di terzi (e la colpa dello stesso lavoratore) non sono idonei ad escludere la concorrente responsabilità del datore, questi ha l’obbligo di adottare tutte le misure attinenti all’efficienza ed al buon andamento del servizio, idonee ad evitare o limitare anche il danno del lavoratore, che il servizio non pienamente efficiente possa contribuire a determinare”.
 

L’INFARTO SUBITO DA UN AUTISTA PER AVER CERCATO DI LIBERARE DA UN PANTANO L’AUTOCARRO AZIENDALE PUO’ COSTITUIRE INFORTUNIO SUL LAVORO – Il nesso causale va accertato mediante consulenza tecnica (Cassazione Sezione Lavoro n.  8019 del 21 maggio 2003, Pres. Sciarelli, Rel. Capitanio).
          Domenico G., autista dipendente della C.S.M.T. s.r.l., ha chiesto al Pretore di Benevento di condannare l’INAIL a corrispondergli l’indennità per inabilità temporanea, sostenendo che per lo sforzo impiegato nel liberare da un pantano l’autocarro della ditta che stava conducendo era stato colto da un malore a seguito del quale, dopo essere rientrato a casa dal lavoro, la stessa notte era stato ricoverato in ospedale con diagnosi di infarto al miocardio.
          Con sentenza del 12 ottobre 1998 il Pretore ha rigettato la domanda. La decisione è stata confermata, in grado di appello, dal Tribunale di Benevento, che ha rilevato come la consulenza tecnica disposta dal Pretore non avesse fornito la prova del mancato funzionamento del servosterzo dell’autocarro nel momento in cui si era impantanato e che, in difetto di tale prova, gli altri indizi emersi in istruttoria non potevano considerarsi gravi, precisi e concordanti.
          La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 8019 del 21 maggio 2003, Pres. Sciarelli, Rel. Capitanio) ha accolto il ricorso del lavoratore, richiamando la propria giurisprudenza secondo cui anche lo sforzo fisico del lavoratore, in condizioni tipiche e abituali di lavoro e diretto a vincere una resistenza peculiare delle condizioni di lavoro e del suo ambiente, assurge a causa violenta allorché, con azione rapida ed intensa, arrechi una lesione all’organismo (Cass. 4 novembre 1988 n. 5966). In tema di indennizzabilità delle conseguenze di un infarto del miocardio occorso in occasione della prestazione lavorativa – ha osservato la Corte - deve tenersi presente che lo sforzo fisico compiuto o lo stress emotivo o psicologico subito durante il lavoro può integrare la causa violenta prevista dall’art. 2 del D.P.R. 30 giugno 1965 n. 1124, anche nel caso in cui vi sia una predisposizione morbosa, che non esclude il nesso causale in applicazione del principio di equivalenza delle condizioni di cui all’art. 41 c.p..
          In applicazione di questi principi, ha affermato la Corte, il Tribunale di Benevento avrebbe dovuto prendere in considerazione gli sforzi compiuti e gli stress subiti dal lavoratore per trarre fuori dal pantano il pesante autocarro (peraltro a pieno carico), a prescindere dal fatto che il servosterzo fosse o no funzionante. Il Tribunale avrebbe dovuto inoltre considerare la deposizione di un testimone, che aveva riferito che l’idroguida del camion non era funzionante, e conseguentemente accogliere la richiesta del lavoratore di esperire una consulenza tecnica medico legale, idonea ad accertare se l’infarto del miocardio subito nella nottata fosse o no posto in relazione a tale episodio. La Corte ha pertanto cassato la sentenza con rinvio alla Corte di Appello di Napoli, al fine di accertare, anche a mezzo di consulenza medica, l’eventuale nesso di causalità tra l’episodio occorso al lavoratore e l’infarto al miocardio dal quale è stato colpito.
 

 
IL MEDICO CHE HA FREQUENTATO UN CORSO UNIVERSITARIO DI SPECIALIZZAZIONE SENZA PERCEPIRE COMPENSI HA DIRITTO AL RISARCIMENTO DEL DANNO DA PARTE DELLO STATOPer violazione della normativa comunitaria (Cassazione Sezione Terza Civivile n. 7630 del 16 maggio 2003, Pres. Duva, Rel. Mazza).
          Luca G., laureato in medicina, ha frequentato con successo un corso di specializzazione in malattie dell’apparato respiratorio presso l’Università di Pisa dal 1986 al 1989, svolgendo attività di assistenza ospedaliera senza ricevere alcuna retribuzione. Egli ha chiesto al Tribunale di Firenze di condannare la Repubblica Italiana al risarcimento del danno, in misura di lire 48 milioni, derivatogli dalla mancata attuazione delle direttive CEE 16 giugno 1975 n. 363 e 26 gennaio 1982 n. 76, con le quali la Comunità Europea ha disciplinato e reso obbligatoria per tutti gli Stati membri l’istituzione di corsi di specializzazione medica con previsione di adeguata retribuzione per i partecipanti. Egli ha fatto presente che queste direttive avrebbero dovuto essere recepite dalla legislazione nazionale dei singoli Stati entro e non oltre il 31 dicembre 1983, mentre sono state attuate dalla Repubblica Italiana soltanto a decorrere dall’anno accademico 1991-1992. Il Tribunale ha rigettato la domanda, ma la sua decisione è stata riformata dalla Corte d’Appello di Firenze che ha condannato lo Stato italiano al risarcimento del danno nella misura richiesta. L’Avvocatura dello Stato ha proposto ricorso per cassazione sostenendo il difetto di giurisdizione del giudice ordinario, l’improponibilità della domanda e la violazione dell’art. 177 del Trattato della Comunità Europea.
          Il ricorso è stato in un primo tempo assegnato alla Sezioni Unite, che hanno affermato la giurisdizione del giudice ordinario, e successivamente alla Sezione Terza Civile che, con sentenza n. 7630 del 16 maggio 2003, (Pres. Duva, Rel. Mazza) lo ha rigettato. La Cassazione ha ricordato che la Corte di Giustizia Europea nella sentenza del 19 novembre 1991 (Francovich + 1 c. Repubblica Italiana) ha enunciato il principio secondo cui lo Stato membro che non abbia tempestivamente adottato i provvedimenti necessari per l’attuazione delle direttive comunitarie, è obbligato al risarcimento del danno da ciò derivato al singolo allorché si verifichino le seguenti condizioni: a) che la direttiva preveda l’attribuzione di diritti ai singoli; b) che tali diritti possano essere individuati in base alle disposizioni della direttiva; c) che sussista il nesso di causalità tra la violazione dell’obbligo a carico dello Stato e il pregiudizio subito dal soggetto leso.
 

 
Il procedimento disciplinare nei confronti dei pubblici impiegati è regolato dalla contrattazione collettiva – Superata la legge 7 febbraio 1990 n. 19 Il procedimento disciplinare nei confronti di pubblici impiegati con rapporto privatizzato deve ritenersi attualmente disciplinato dalla contrattazione collettiva e non più dalla legge 7 febbraio 1990 n. 19. Il decreto legislativo 3 febbraio 1993 n. 29, all’art. 59 (modificato dall’art. 45 del decreto legislativo 31 marzo 1998 n. 80) ha stabilito che nei confronti dei pubblici dipendenti con rapporto di lavoro privatizzato si applicano l’art. 2106 cod. civ. e l’art. 7 comma primo, quinto e ottavo, della legge 20 maggio 1970 n. 300; che “la tipologia delle infrazioni e delle relative sanzioni è definita dai contratti collettivi”; e che “l’Amministrazione, salvo il caso di rimprovero verbale, non può adottare alcun provvedimento disciplinare senza previa contestazione scritta dell’addebito”. Al successivo art. 74 (sostituito dall’art. 38 del d.lgs. 23 dicembre 1993 n. 546) ha disposto che “a far data dalla stipulazione del primo contratto collettivo, ai pubblici dipendenti privatizzati non si applicano gli articoli da 100 a 123 del d.p.r. 10 gennaio 1957 n. 3 e le disposizioni ad esso collegate” e che dalla stessa data “sono abrogate tutte le restanti disposizioni in materia di sanzioni disciplinari incompatibili con le disposizioni del decreto n. 29 del 1993”. Dal complesso di tali disposizioni di legge (ora raccolte in testo unico approvato con d.lgs. 30 marzo 2001 n. 165, modificato con legge 15 luglio 2002 n. 145) è dato ritenere che le norme della legge 7 febbraio 1990 n. 19, in quanto emanate in relazione al procedimento disciplinare  previsto dal T.U. sul pubblico impiego n. 3 del 1957, non sono più applicabili al procedimento disciplinare promosso nel quadro di un rapporto di pubblico impiego privatizzato, per effetto del disposto dell’art. 72 comma primo del d.lgs. n. 29 del 1993, che ha statuito “l’inapplicabilità delle norme generali e speciali del pubblico impiego a seguito della stipulazione dei contratti collettivi in relazione ai soggetti e dalle materie in essi contemplati”, nonché del disposto del terzo comma del medesimo articolo, che “abroga a far data dalla stipulazione del primo contratto collettivo tutte le restanti disposizioni in materia di sanzioni disciplinari per i pubblici impiegati incompatibili con le disposizioni del presente decreto”. Una conferma della inapplicabilità della legge n. 19/1990 ai rapporti privatizzati si ricava dalla successiva legge 27 marzo 2001 n. 97, dedicata specificamente a dettare norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare e sugli effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche; detta legge ha espressamente riproposto per i pubblici dipendenti privatizzati norme simili a quelle di cui all’art. 9 della legge n. 19 del 1990, disponendo all’art. 5 comma 4 che nel caso sia pronunciata sentenza penale irrevocabile di condanna, ancorché a pena condizionalmente sospesa, l’estinzione del rapporto di lavoro può essere pronunciata solo a seguito di procedimento disciplinare iniziato entro 90 giorni dalla comunicazione della sentenza e concluso entro 180 giorni dall’inizio del procedimento (Cassazione Sezione Lavoro n. 7704 del 16 maggio 2003, Pres. Mattone, Rel. D’Agostino).

 

 
Nel procedimento disciplinare il termine di cinque giorni previsto dall’art. 7 St. Lav. ha soltanto lo scopo di consentire al lavoratore la difesa – Non quello di imporre all’azienda una pausa di riflessione – L’art. 7 St. Lav. stabilisce, nel quinto comma, che in ogni caso i provvedimenti disciplinari più gravi del rimprovero verbale non  possono essere applicati prima che siano trascorsi cinque giorni dalla contestazione per iscritto del fatto che vi ha dato causa. Deve escludersi che la previsione di uno spazio temporale tra contestazione ed irrogazione della sanzione sia stata ispirata, oltre che dalla finalità di garantire al lavoratore il diritto di presentare le proprie giustificazioni, anche dall’intento di consentire al datore di lavoro un’effettiva ponderazione in ordine al provvedimento da adottare ed un possibile ripensamento. L’effettivo intento del legislatore è stato quello di assicurare il diritto di difesa del lavoratore in ogni fase del procedimento disciplinare, nel quale opera la regola fondamentale del contraddittorio. In questo sistema, tale regola trova attuazione quando l’incolpato può presentare compiutamente le proprie giustificazioni in ordine all’addebito contestato, secondo la previsione del secondo e terzo comma dell’art. 7; da questo momento, la prescrizione dell’osservanza del termine di cui al successivo quinto comma ha conseguito il proprio scopo. La legge non assegna invece alcun rilievo alla valutazione di tali difese da parte del datore di lavoro, e quindi al processo di formazione della sua volontà per l’esercizio del potere disciplinare, perché il controllo della legittimità della sanzione eventualmente adottata resta comunque affidato al sindacato giudiziale mediante l’impugnazione del provvedimento. Si deve dunque riaffermare il principio secondo cui il provvedimento disciplinare può essere legittimamente irrogato anche prima della scadenza del termine di cui all’art. 7, quinto comma della legge 20 maggio 1970 n. 300, decorrente dal momento della ricezione della contestazione dell’addebito, quando il lavoratore ha esercitato pienamente il proprio diritto di difesa facendo pervenire al datore di lavoro le proprie giustificazioni, senza manifestare alcuna esplicita riserva di ulteriori produzioni documentali o motivazioni difensive (Cassazione Sezioni Unite Civili n. 6900 del 7 maggio 2003 Pres. Ianniruberto, Rel. Miani Canevari).
 

 
ANCHE LA PERSONA GRAVEMENTE MALATA PER LA QUALE SIA PREVEDIBILE IL DECESSO HA DIRITTO ALL’INDENNITA’ DI ACCOMPAGNAMENTO – Per la necessità di assistenza continua (Cassazione Sezione Lavoro n. 7179 del 10 maggio 2003, Pres. Ciciretti, Rel. Celentano).
          Vito M., costretto a letto da gravissime malattie, ha chiesto l’attribuzione dell’indennità di accompagnamento; dieci mesi dopo la presentazione della domanda in via amministrativa, egli è deceduto. La domanda è stata respinta. Gli eredi di Vito M. hanno promosso davanti al Pretore di Bari un giudizio nei confronti del Ministero dell’Interno al fine di ottenere il pagamento dei ratei dell’indennità di accompagnamento maturati prima della morte del loro congiunto. Il Ministero si è difeso sostenendo che l’indennità richiesta non può essere corrisposta ad una persona che si trovi nella fase terminale della sua vita, essendo questa situazione incompatibile con le finalità della prestazione assistenziale richiesta. Il Pretore, dopo avere disposto una consulenza tecnica, ha rigettato la domanda. La sua decisione è stata confermata, in grado di appello dal Tribunale di Bari. Gli eredi di Vito M. hanno proposto ricorso per cassazione censurando la decisione del Tribunale per violazione delle leggi n. 18 del 1980 e n. 508 del 1988 nonché dei principi dell’ordinamento in materia di invalidità civile.
          La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 7179 del 10 maggio 2003, Pres. Ciciretti, Rel. Celentano) ha accolto il ricorso. L’art. 1 della legge 21 novembre 1988, n. 508, applicabile ratione temporis alla fattispecie in esame – ha osservato la Corte – dispone che l’indennità di accompagnamento è concessa: a) ai cittadini riconosciuti ciechi assoluti; b) ai cittadini nei cui confronti sia stata accertata una inabilità totale per affezioni fisiche o psichiche e che si trovino nella impossibilità di deambulare senza l’aiuto permanente di un accompagnatore o, non essendo in grado di compiere gli atti quotidiani della vita, abbisognano di un’assistenza continua. La ratio delle norme che prevedono l’indennità di accompagnamento deve essere individuata anche nella esigenza di incentivare l’assistenza domiciliare dell’invalido, evitandone il ricovero in ospedale e, nel contempo, sollevando lo Stato da un onere ben più gravoso di quello derivante dalla corresponsione dell’indennità. La presenza di gravi patologie, tali non solo da rendere l’individuo inabile al 100% ma da fare ragionevolmente prevedere che la morte sopraggiunga proprio in dipendenza delle stesse, non esclude pertanto il diritto alla indennità di accompagnamento finché l’evento letale sia “certus an” ma “incertus quando”, non apparendo razionale e rispondente alle finalità della legge negare la necessità di un’assistenza continua per il fatto che, entro un periodo di tempo imprecisato, sopraggiungerà la morte a causa delle patologie invalidanti. La indennità – ha precisato la Corte – può essere negata solo quando sia possibile formulare un giudizio prognostico di rapida sopravvenienza della morte, in ambito temporale ben ristretto, tanto che la “continua assistenza” risulti finalizzata non già a consentire il compimento degli atti quotidiani (tra i quali l’alimentazione, la pulizia personale e la vestizione), ma a fronteggiare un’emergenza terapeutica.
          La Corte ha stabilito, per il giudice di rinvio, il seguente principio di diritto: “la presenza di gravi patologie, tali non solo da rendere l’individuo inabile al 100% ma da fare ragionevolmente prevedere che la morte sopraggiunga proprio in dipendenza delle stesse, non esclude il diritto alla indennità di accompagnamento (di cui all’art. 1 della legge 18 del 1980 e all’art. 1 della legge n. 508 del 1988) finché l’evento letale sia <<certus an>> ma <<incertus quando>>, non apparendo razionale e rispondente alle finalità della legge negare la necessità di un’assistenza continua per il fatto che, entro un periodo di tempo imprecisato, sopraggiungerà la morte a causa delle patologie invalidanti. La indennità può essere negata solo quando sia possibile formulare un giudizio prognostico di rapida sopravvenienza della morte, in ambito temporale ben ristretto, tanto che la “continua assistenza” risulti finalizzata non già a consentire il compimento degli atti quotidiani (tra i quali l’alimentazione, la pulizia personale e la vestizione), ma a fronteggiare un’emergenza terapeutica”.