SENTENZA NULLO VERBALE DI ECCESSO DI VELOCITÀ SENZA INDICAZIONE DETRAZIONE TOLLERANZA APPARECCHIO RILEVAMENTO

E' nullo il verbale elevato per eccesso di velocità se non viene indicata la detrazione apportata al valore effettivamente rilevato (art. 345 c. 2 D.P.R. n. 495/1992)

Con questa innovativa motivazione il Giudice di Pace di Borgo San Lorenzo, Avv. Nicola Dei, ha accolto il ricorso proposto da un automobilista avverso l'ordinanza ingiunzione con cui la Prefettura di Firenze aveva respinto il ricorso amministrativo avverso un verbale elevato dalla Polizia Stradale di Firenze per la violazione dell'art. 142 co. 11 C.d.S. (circolazione alla velocità di km/h 130 superando di km/h 56 il limite massimo di velocità fissato in km/h 80).

In particolare, con la richiamata pronuncia il G.d.P. adito ha accolto il ricorso rilevando che nel verbale impugnato non è stata specificata l'effettiva tolleranza dovuta per l'apparecchio di rilevamento, in quanto è riportato esclusivamente che il conducente dell'auto di proprietà del ricorrente "circolava, considerata la tolleranza dovuta per l'apparecchio di rilevamento, ad una velocità di km/h 156 eccedendo di km/h 56 il limite massimo di velocità stabilito dalla legge, per tale categoria di veicolo, in km/h 80".

Ha poi aggiunto il G.d.P. che l'art. 345 c. 2 del Regolamento di esecuzione ed attuazione del CdS (DPR n. 495/1992) dispone come "qualunque sia l'apparecchiatura utilizzata, al valore rilevato sia applicata una riduzione pari al 5%, con un minimo di 5 km/h".

A parere del Giudicante tale norma impone quindi che, al fine di mettere in grado il giudice di poter controllare l'esattezza del procedimento tecnico - logico - giuridico seguito dalla pubblica amministrazione, nel verbale deve essere indicata:
a) in primo luogo, la velocità effettivamente tenuta dal trasgressore e rilevata dall'apparecchiatura;
b) in secondo luogo, la detrazione apportata, in maniera tale da rilevare se è stata apportata la detrazione fissa di 5 km/h oppure quella risultante dalla applicazione del 5%.

(Giudice di Pace di Borgo San Lorenzo - Avv. Nicola Dei, Sentenza 31 dicembre 2006)

 


 

Cassazione: Va licenziato chi si sottrae senza giusta causa alla visita medica di controllo

"La reperibilità del lavoratore ammalato nel domicilio durante le prestabilite ore della giornata costituisce un onere all'interno del rapporto assicurativo con l'ente previdenziale e un obbligo accessorio alla prestazione principale del rapporto di lavoro, la cui violazione assume rilievo disciplinare all'interno del rapporto stesso, salva la prova, da parte del lavoratore, dell'esistenza di un ragionevole impedimento all'osservanza del comportamento dovuto. Per il caso poi che, come nella specie, il contratto collettivo imponga espressamente l'obbligo di reperibilità e quello di dare comunicazione all'azienda della impossibilità di osservare le previste fasce orarie, variamente sanzionandone il mancato rispetto, il principio in più occasioni enunciato è che il dipendente non può limitarsi a produrre il certificato medico attestante l'effettuazione di una visita specialistica o di un trattamento terapeutico durante l'orario di reperibilità, ma deve dare dimostrazione della loro urgenza e indifferibilità, e cioè di una necessità di effettuarli sorta durante le ore della possibile visita di controllo". È quanto ha di recente stabilito la sezione lavoro della Corte di Cassazione (Sent. n. 6618/2007) la quale, ponendosi nel solco dell'orientamento interpretativo già tracciato in precedenza, ha confermato che costituisce giusta causa di licenziamento "il non consentire al datore di lavoro il controllo sullo stato di malattia senza dar prova di un'adeguata ragione di impedimento". Nel caso di specie, in particolare, il lavoratore aveva tentato di giustificare il proprio allontanamento con la necessità di accompagnare la nonna ad una visita di controllo producendo in giudizio il relativo certificato medico che, pur attestando l'avvenuta visita, non era stato in grado di dimostrare la presenza del ricorrente nell'ambulatorio medico.

 


 

 

Cassazione: bloccato nel traffico all'incrocio? Niente multa

La Seconda Sezione Civile della Corte di Cassazione con la Sentenza n. 9167/2007 è intervenuta a mettere un freno alle numerose contravvenzioni che spesso venivano recapitate ad automobilisti che, loro malgrado, erano rimasti imbottigliati nel traffico nel bel mezzo di un incrocio allo scattare del rosso.
La Corte ha ora annullato la multa che era stata inflitta a un automobilista della capitale che era rimasto letteralmente intrappolato dal traffico mentre impegnava un incrocio.
Il Giudice di Pace che si era precedentemente interessato della vicenda aveva confermato la contravvenzione ma ora la Corte ha dato ragione all'automobilista spiegando che il primo giudice avrebbe dovuto tenere conto dell'elemento soggettivo non potendo prescindere dal motivare sulla circostanza che l'utente della strada si era trovato realmente imbottigliato.
Nell'impianto motivazionale della sentenza si legge: "il giudice di pace omette completamente di esaminare e motivare in ordine all'eccepita inesistenza dell'elemento soggettivo, limitandosi ad affermare il valore probatorio" previsto dall'art. 277 cc "dell'impugnato verbale, incorrendo così nella violazione prevista dall'art. 112 Cpc per omessa pronuncia".
Dopo l'accoglimento del ricorso il caso torna ora al Giudice di Pace che dovrà riesaminare il caso e, sicuramente, motivare meglio.

 


 

 

 

In coda per il parcheggio? No alla multa se si è senza cinture

Se ci si trova al volante senza cinture mentre si è in fila per parcheggiare, non è ammessa contravvenzione. E' quanto ha stabilito la Corte di Cassazione (Seconda sezione civile, Sentenza n. 9674/2007) ribaltando una precedente decisione del Giudice di Pace di Cesena che aveva convalidato la multa irrogata ad un automobilista per il mancato uso delle cinture.
Nella circostanza l'autovettura si trovava in coda "in attesa di poter accedere ad un parcheggio quando si fossero liberati dei posti".
I giudici della Corte hanno spiegato che quando una autovettura non si trova "in moto continuo sia pur lento ne' con sollecite riprese della marcia, ne' ancora, in presenza di altri veicoli in marcia" che potrebbero "determinare un urto pericoloso", la sanzione prevista dal codice della srada (art. 172) "non puo' trovare applicazione, non ricorrendo i presupposti oggettivi voluti dalla sua ratio interpretata secondo logica".
Sta di fatto, argomenta la Corte, che la norma è "posta a tutela della sicurezza degli occupanti del veicolo in previsione d'eventuale collisione od uscita in strada o brusca frenata o altri eventi comunque tali da determinare un repentino spostamento del corpo dei detti occupanti e un urto dello stesso all'interno della vettura o una fuoriuscita dell'abitacolo". Proprio per questo l'Art. 172 "ha la sua ratio nel prefigurare situazioni nelle quali il movimento del veicolo nel quale si trovano i soggetti tutelandi, o anche di altri veicoli circolanti, possa determinare gli eventi alla cui prevenzione e' intesa".
Se pertanto la situzione di fatto è tale da escludere il possibile verificarsi di tali eventi come quando l'auto è in fila in attesa di trovare parchegio si puo' fare a meno delle cinture di sicurezza.
 


 

 

Cassazione: mai opporsi alle multe, si rischia il carcere

Mai opporsi alle multe. Bastano le parole per rischiare il carcere, avverte la Cassazione. La Suprema Corte ha confermato la condanna a quattro mesi di reclusione, con la concessione delle attenuanti generiche, ad un 30enne della provincia di Roma per essersi rivolto alla vigilessa Monica B. che gli stava notificando una contravvenzione per violazione del Codice della strada dicendole: "Famme la multa e poi te sistemo io a te". Per la Suprema Corte, che ha dichiarato inammissibile il ricorso di Massimiliano T., il tentativo messo in atto per opporsi alla multa non puo' essere considerato espressione di "atteggiamento parolaio" proprio di chi, vedendo il vigile, tenta tutto il possibile per risparmiarsela. Anzi, "a prescindere dai riflessi personali sulla persona del destinatario", un'opposizione anche solo verbale "ha contenuto oggettivamente idoneo a rappresentare una ragionevole portata intimidatoria". Gia' la Corte d'appello di Roma, nell'aprile del 2006, allineandosi alla decisione del Tribunale monocratico di Velletri, aveva inflitto a Massimiliano T. la condanna a quattro mesi di reclusione per il reato di resistenza a pubblico ufficiale. Invano l'automobilista si e' opposto in Cassazione, sostenendo che le espressioni rivolte alla vigilessa non erano proprie di un "atteggiamento parolaio e genericamente minaccioso". E che, insomma, mancava l'"elemento oggettivo" del reato punito dall'art. 337 del c.p. La Sesta sezione penale, sentenza 14659, ha bocciato la protesta dell'uomo sostenendo che, indipendentemente da come una frase del genere possa essere interpretata da chi sta stilando il verbale di multa, il tentare di opporsi anche a parole ha in se' una "ragionevole portata intimidatoria, direttamente collegata al compimento dell'atto di ufficio o servizio del pubblico ufficiale e quindi niente affatto equivocabile in punto di reale finalita' realizzatrice di condotta positiva di resistenza a pubblico ufficiale". Da qui l'inammissibilita' del ricorso di Massimiliano T. e la conseguente condanna al pagamento di mille euro alla cassa delle ammende, oltre alle spese processuali.

 


 

 

L’IMPIEGATO MINISTERIALE INCARICATO DELLA REGGENZA DI UN UFFICIO DIRIGENZIALE HA DIRITTO ALLE DIFFERENZE DI RETRIBUZIONE – Per mansioni superiori svolte (Cassazione Sezione Lavoro n. 9130 del 17 aprile 2007, Pres. Ianniruberto, Rel. Picone).
           
Carla M., dipendente del Ministero della Giustizia inquadrata con la IX qualifica funzionale, ha svolto dall’aprile 95 all’ottobre 2000 le mansioni superiori di primo dirigente dell’ufficio del giudice di pace, essendo stata nominata reggente di tale ufficio, in attesa della copertura del posto rimasto vacante. Quando è stato nominato il nuovo titolare dell’ufficio, sono cessate le sue funzioni di reggente. Nel marzo del 2001 ella ha chiesto al Tribunale di Firenze di condannare il Ministero a corrisponderle le differenze di retribuzione per le mansioni superiori svolte. Il Tribunale ha dichiarato il suo difetto di giurisdizione per il periodo sino al 30 giugno 98 ed ha condannato il Ministero al pagamento di 41.000,00 euro a titolo di differenze retributive maturate nel periodo successivo. Questa decisione è stata confermata dalla Corte d’Appello di Firenze con le seguenti argomentazioni: a) la funzione vicaria rispetto al dirigente, attribuita all’impiegato inquadrato nell’ex IX qualifica funzionale, poi area C3, presuppone che il posto sia coperto dal titolare, mentre nel caso di specie il titolare dell’ufficio era stato nominato solo in data 17.10.2000; b) sebbene stipulato in data 19.2.1999, il contratto collettivo di comparto, recante il nuovo sistema di inquadramento del personale, trovava applicazione dal 1° gennaio 1998, giusta la previsione specifica del suo art. 2, e questa era la data di decorrenza del diritto alla retribuzione delle mansioni superiori, diritto contemplato dall’art. 56, comma 6, primo periodo, d.lgs. 29/1993 nel testo introdotto dall’art. 15 d.lgs. 387/1998 (ora art. 52 d.lgs. 165/2001); c) la diversa previsione dell’art. 24, comma 4, dello stesso c.c.n.l., circa la necessità della definizione da parte delle amministrazioni dei criteri relativi alla materia del conferimento delle mansioni superiori per l’entrata in vigore della nuova disciplina delle mansioni superiori, non poteva derogare la previsione legale. Il Ministero della Giustizia ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione della Corte di Firenze per erronea interpretazione della normativa collettiva applicabile e per violazione di legge.
           
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 9130 del 17 aprile 2007, Pres. Ianniruberto, Rel. Picone) ha rigettato il ricorso in quanto, tra l’altro, ha ritenuto infondata la tesi ministeriale secondo cui tra le mansioni del personale appartenente alla nona qualifica funzionale erano comprese le funzioni di reggenza dell’ufficio. La Corte ha comunque affermato che il diritto del pubblico impiegato di essere compensato per lo svolgimento di mansioni superiori non è condizionato alla sussistenza dei presupposti di legittimità dell’assegnazione e alla previsione dei contratti collettivi.
           
Nella motivazione della sentenza della Suprema Corte si legge, sul punto, quanto segue: “Infondata è la tesi secondo la quale la “reggenza” dell’ufficio sarebbe compresa tra le mansioni della IX qualifica funzionale (poi C/3). Dispone l’art. 20 del d.P.R. 8 maggio 1987, n. 266 – Norme risultanti dalla disciplina prevista dall’accordo del 26 marzo 1987 concernente il comparto del personale dipendente dai Ministeri – che il personale appartenente alla nona qualifica funzionale, istituita dall’art. 2 del decreto-legge 28 gennaio 1986, n. 9, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 1986, n. 78, espleta, tra l’altro, le funzioni di sostituzione del dirigente in caso di assenza o di impedimento, nonché di reggenza dell’ufficio in attesa della destinazione del dirigente titolare. L’interpretazione della norma, rispettosa del canone di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost. e dei principi di tutela del lavoro (art. 35 e 36 Cost.; art. 2103 c.c.; art. 52 d.lgs. 165/2001), è nel senso che l’ipotesi della reggenza costituisce una specificazione dei compiti di sostituzione del titolare assente o impedito, contrassegnata anch’essa dalla straordinarietà e temporaneità, come reso palese dall’espressione “in attesa della destinazione del dirigente titolare”. Di conseguenza, la reggenza dell’ufficio è consentita, senza dar luogo agli effetti collegati allo svolgimento di mansioni superiori, allorquando sia stato aperto il procedimento di copertura del posto vacante e nei limiti di tempo ordinariamente previsti per tale copertura. Al di fuori di questa specifica ipotesi contemplata dalla norma regolamentare, la reggenza dell’ufficio concreta svolgimento di mansioni dirigenziali e correttamente il giudice del merito ne ha ritenuto la sussistenza con riguardo ad una vacanza esistente fin dal 1995 e di nomina del dirigente soltanto nell’anno 2000.
           
Né la situazione è mutata per effetto della nuova classificazione del personale attuata dal c.c.n.l. del comparto ministeri 16 febbraio 1999 (all. A), le cui disposizioni, anzi, sono state interpretate da questa Corte nel senso che non ricomprende tra le mansioni proprie del profilo lavorativo relativo alla posizione economica “C3” le funzioni di reggenza della posizione lavorativa dirigenziale. Tutte le restanti censure attengono, con le diverse argomentazioni sopra riferite, al tema del diritto della M. ad essere retribuita per le mansioni superiori svolte. La giurisprudenza della Corte ha già scrutinato la questione con riguardo al periodo precedente l’entrata in vigore della disposizione ora recata dall’art. 52 d.lgs. 165/2001 (art. 56 del d.lgs. n. 29 del 1993, come sostituito dall’art. 25 del d.lgs. n. 80 del 1998 e successivamente modificato dall’art. 15 del d.lgs. n. 387 del 1998), con specifico riferimento alla previsione, del comma 5 (Al di fuori delle ipotesi di cui al comma 2, è nulla l’assegnazione del lavoratore a mansioni proprie di una qualifica superiore, ma al lavoratore è corrisposta la differenza di trattamento economico con la qualifica superiore …).
           
E’ stato enunciato il principio di diritto secondo il quale, nel pubblico impiego privatizzato, il divieto di corresponsione della retribuzione corrispondente alle mansioni superiori, stabilito dal comma 6 dell’art. 56 del d.lgs. n. 29 del 1993 come modificato dall’art. 25 del d.lgs. n. 80 del 1998, è stato soppresso dall’art. 15 del d.lgs. n. 387 del 1998 con efficacia retroattiva, atteso che la modifica del comma 6 ultimo periodo disposta dalla nuova norma è una disposizione di carattere transitorio, non essendo formulata in termini atemporali, come avviene per le norme ordinarie, ma con riferimento alla data ultima di applicazione della norma stessa e quindi in modo idoneo a incidere sulla regolamentazione applicabile all’intero periodo transitorio.
           
In mancanza di ragioni nuove e diverse, opera il principio di fedeltà ai precedenti, sul quale si fonda, per larga parte, l’assolvimento della funzione ordinamentale e, al contempo, di rilevanza costituzionale, di assicurare l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge nonché l’unità del diritto oggettivo nazionale affidata alla Corte di cassazione.
           
La portata retroattiva della disposizione risulta, peraltro, conforme alla giurisprudenza della Corte costituzionale, che ha ritenuto l’applicabilità anche nel pubblico impiego dell’art. 36 Cost., nella parte in cui attribuisce al lavoratore il diritto a una retribuzione proporzionale alla quantità e qualità del lavoro prestato, nonché alla conseguente intenzione del legislatore di rimuovere con la disposizione correttiva una norma in contrasto con i principi costituzionali. Al principio enunciato consegue che il diritto ad essere compensato per lo svolgimento di mansioni superiori (nella misura stabilita specificamente dalla legge, pari alla differenza di retribuzione con la qualifica cui corrispondono le mansioni svolte di fatto) non è condizionato alla sussistenza dei presupposti di legittimità dell’assegnazione e alle previsioni dei contratti collettivi.