Mai opporsi alle
multe. Bastano le parole per rischiare il carcere, avverte la
Cassazione. La Suprema Corte ha confermato la condanna a quattro
mesi di reclusione, con la concessione delle attenuanti generiche,
ad un 30enne della provincia di Roma per essersi rivolto alla
vigilessa Monica B. che gli stava notificando una contravvenzione
per violazione del Codice della strada dicendole: "Famme la multa
e poi te sistemo io a te". Per la Suprema Corte, che ha dichiarato
inammissibile il ricorso di Massimiliano T., il tentativo messo in
atto per opporsi alla multa non puo' essere considerato
espressione di "atteggiamento parolaio" proprio di chi, vedendo il
vigile, tenta tutto il possibile per risparmiarsela. Anzi, "a
prescindere dai riflessi personali sulla persona del
destinatario", un'opposizione anche solo verbale "ha contenuto
oggettivamente idoneo a rappresentare una ragionevole portata
intimidatoria". Gia' la Corte d'appello di Roma, nell'aprile del
2006, allineandosi alla decisione del Tribunale monocratico di
Velletri, aveva inflitto a Massimiliano T. la condanna a quattro
mesi di reclusione per il reato di resistenza a pubblico
ufficiale. Invano l'automobilista si e' opposto in Cassazione,
sostenendo che le espressioni rivolte alla vigilessa non erano
proprie di un "atteggiamento parolaio e genericamente minaccioso".
E che, insomma, mancava l'"elemento oggettivo" del reato punito
dall'art. 337 del c.p. La Sesta sezione penale, sentenza 14659, ha
bocciato la protesta dell'uomo sostenendo che, indipendentemente
da come una frase del genere possa essere interpretata da chi sta
stilando il verbale di multa, il tentare di opporsi anche a parole
ha in se' una "ragionevole portata intimidatoria, direttamente
collegata al compimento dell'atto di ufficio o servizio del
pubblico ufficiale e quindi niente affatto equivocabile in punto
di reale finalita' realizzatrice di condotta positiva di
resistenza a pubblico ufficiale". Da qui l'inammissibilita' del
ricorso di Massimiliano T. e la conseguente condanna al pagamento
di mille euro alla cassa delle ammende, oltre alle spese
processuali.
L’IMPIEGATO MINISTERIALE INCARICATO DELLA
REGGENZA DI UN UFFICIO DIRIGENZIALE HA DIRITTO ALLE DIFFERENZE DI
RETRIBUZIONE –
Per mansioni
superiori svolte (Cassazione Sezione Lavoro n. 9130 del 17 aprile
2007, Pres. Ianniruberto, Rel. Picone).
Carla M., dipendente del Ministero della Giustizia
inquadrata con la IX qualifica funzionale, ha svolto dall’aprile
95 all’ottobre 2000 le mansioni superiori di primo dirigente
dell’ufficio del giudice di pace, essendo stata nominata reggente
di tale ufficio, in attesa della copertura del posto rimasto
vacante. Quando è stato nominato il nuovo titolare dell’ufficio,
sono cessate le sue funzioni di reggente. Nel marzo del 2001 ella
ha chiesto al Tribunale di Firenze di condannare il Ministero a
corrisponderle le differenze di retribuzione per le mansioni
superiori svolte. Il Tribunale ha dichiarato il suo difetto di
giurisdizione per il periodo sino al 30 giugno 98 ed ha condannato
il Ministero al pagamento di 41.000,00 euro a titolo di differenze
retributive maturate nel periodo successivo. Questa decisione è
stata confermata dalla Corte d’Appello di Firenze con le seguenti
argomentazioni: a) la funzione vicaria rispetto al dirigente,
attribuita all’impiegato inquadrato nell’ex IX qualifica
funzionale, poi area C3, presuppone che il posto sia coperto dal
titolare, mentre nel caso di specie il titolare dell’ufficio era
stato nominato solo in data 17.10.2000; b) sebbene stipulato in
data 19.2.1999, il contratto collettivo di comparto, recante il
nuovo sistema di inquadramento del personale, trovava applicazione
dal 1° gennaio 1998, giusta la previsione specifica del suo art.
2, e questa era la data di decorrenza del diritto alla
retribuzione delle mansioni superiori, diritto contemplato
dall’art. 56, comma 6, primo periodo, d.lgs. 29/1993 nel testo
introdotto dall’art. 15 d.lgs. 387/1998 (ora art. 52 d.lgs.
165/2001); c) la diversa previsione dell’art. 24, comma 4, dello
stesso c.c.n.l., circa la necessità della definizione da parte
delle amministrazioni dei criteri relativi alla materia del
conferimento delle mansioni superiori per l’entrata in vigore
della nuova disciplina delle mansioni superiori, non poteva
derogare la previsione legale. Il Ministero della Giustizia ha
proposto ricorso per cassazione censurando la decisione della
Corte di Firenze per erronea interpretazione della normativa
collettiva applicabile e per violazione di legge.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 9130 del 17
aprile 2007, Pres. Ianniruberto, Rel. Picone) ha rigettato il
ricorso in quanto, tra l’altro, ha ritenuto infondata la tesi
ministeriale secondo cui tra le mansioni del personale
appartenente alla nona qualifica funzionale erano comprese le
funzioni di reggenza dell’ufficio. La Corte ha comunque affermato
che il diritto del pubblico impiegato di essere compensato per lo
svolgimento di mansioni superiori non è condizionato alla
sussistenza dei presupposti di legittimità dell’assegnazione e
alla previsione dei contratti collettivi.
Nella motivazione della sentenza della Suprema
Corte si legge, sul punto, quanto segue: “Infondata
è la tesi secondo la quale la “reggenza” dell’ufficio sarebbe
compresa tra le mansioni della IX qualifica funzionale (poi C/3).
Dispone l’art. 20 del d.P.R. 8 maggio 1987, n. 266 – Norme
risultanti dalla disciplina prevista dall’accordo del 26 marzo
1987 concernente il comparto del personale dipendente dai
Ministeri – che il personale appartenente alla nona qualifica
funzionale, istituita dall’art. 2 del decreto-legge 28 gennaio
1986, n. 9, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo
1986, n. 78, espleta, tra l’altro, le funzioni di sostituzione del
dirigente in caso di assenza o di impedimento, nonché di reggenza
dell’ufficio in attesa della destinazione del dirigente titolare.
L’interpretazione della norma, rispettosa del canone di
ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost. e dei principi di tutela
del lavoro (art. 35 e 36 Cost.; art. 2103 c.c.; art. 52 d.lgs.
165/2001), è nel senso che l’ipotesi della reggenza costituisce
una specificazione dei compiti di sostituzione del titolare
assente o impedito, contrassegnata anch’essa dalla straordinarietà
e temporaneità, come reso palese dall’espressione “in attesa della
destinazione del dirigente titolare”. Di conseguenza, la reggenza
dell’ufficio è consentita, senza dar luogo agli effetti collegati
allo svolgimento di mansioni superiori, allorquando sia stato
aperto il procedimento di copertura del posto vacante e nei limiti
di tempo ordinariamente previsti per tale copertura. Al di fuori
di questa specifica ipotesi contemplata dalla norma regolamentare,
la reggenza dell’ufficio concreta svolgimento di mansioni
dirigenziali e correttamente il giudice del merito ne ha ritenuto
la sussistenza con riguardo ad una vacanza esistente fin dal 1995
e di nomina del dirigente soltanto nell’anno 2000.
Né la situazione è mutata per effetto della nuova
classificazione del personale attuata dal c.c.n.l. del comparto
ministeri 16 febbraio 1999 (all. A), le cui disposizioni, anzi,
sono state interpretate da questa Corte nel senso che non
ricomprende tra le mansioni proprie del profilo lavorativo
relativo alla posizione economica “C3” le funzioni di reggenza
della posizione lavorativa dirigenziale. Tutte le restanti censure
attengono, con le diverse argomentazioni sopra riferite, al tema
del diritto della M. ad essere retribuita per le mansioni
superiori svolte. La giurisprudenza della Corte ha già scrutinato
la questione con riguardo al periodo precedente l’entrata in
vigore della disposizione ora recata dall’art. 52 d.lgs. 165/2001
(art. 56 del d.lgs. n. 29 del 1993, come sostituito dall’art. 25
del d.lgs. n. 80 del 1998 e successivamente modificato dall’art.
15 del d.lgs. n. 387 del 1998), con specifico riferimento alla
previsione, del comma 5 (Al di fuori delle ipotesi di cui al comma
2, è nulla l’assegnazione del lavoratore a mansioni proprie di una
qualifica superiore, ma al lavoratore è corrisposta la differenza
di trattamento economico con la qualifica superiore …).
E’ stato enunciato il principio di diritto secondo
il quale, nel pubblico impiego privatizzato, il divieto di
corresponsione della retribuzione corrispondente alle mansioni
superiori, stabilito dal comma 6 dell’art. 56 del d.lgs. n. 29 del
1993 come modificato dall’art. 25 del d.lgs. n. 80 del 1998, è
stato soppresso dall’art. 15 del d.lgs. n. 387 del 1998 con
efficacia retroattiva, atteso che la modifica del comma 6 ultimo
periodo disposta dalla nuova norma è una disposizione di carattere
transitorio, non essendo formulata in termini atemporali, come
avviene per le norme ordinarie, ma con riferimento alla data
ultima di applicazione della norma stessa e quindi in modo idoneo
a incidere sulla regolamentazione applicabile all’intero periodo
transitorio.
In mancanza di ragioni nuove e diverse, opera il
principio di fedeltà ai precedenti, sul quale si fonda, per larga
parte, l’assolvimento della funzione ordinamentale e, al contempo,
di rilevanza costituzionale, di assicurare l’esatta osservanza e
l’uniforme interpretazione della legge nonché l’unità del diritto
oggettivo nazionale affidata alla Corte di cassazione.
La portata retroattiva della disposizione risulta,
peraltro, conforme alla giurisprudenza della Corte costituzionale,
che ha ritenuto l’applicabilità anche nel pubblico impiego
dell’art. 36 Cost., nella parte in cui attribuisce al lavoratore
il diritto a una retribuzione proporzionale alla quantità e
qualità del lavoro prestato, nonché alla conseguente intenzione
del legislatore di rimuovere con la disposizione correttiva una
norma in contrasto con i principi costituzionali. Al principio
enunciato consegue che il diritto ad essere compensato per lo
svolgimento di mansioni superiori (nella misura stabilita
specificamente dalla legge, pari alla differenza di retribuzione
con la qualifica cui corrispondono le mansioni svolte di fatto)
non è condizionato alla sussistenza dei presupposti di legittimità
dell’assegnazione e alle previsioni dei contratti collettivi.”
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