RIVOLGERE FALSE ACCUSE DI VIOLENZA A UN
DIRIGENTE PUO’ GIUSTIFICARE IL LICENZIAMENTO
–
Anche se
ciò avviene a fini di difesa in un procedimento disciplinare (Cassazione
Sezione Lavoro n. 8679 del 13 aprile 2006, Pres. Mercurio, Rel. Balletti).
Vladimiro
D., dipendente della s.p.a. Aeroporti di Roma è stato sottoposto, nel febbraio
1995, a procedimento disciplinare con l’addebito di essersi rifiutato di
mostrare a un dirigente della società alcuni atti che stava fotocopiando. Egli
si è difeso con una lettera di giustificazione, sottoscritta anche dal suo
legale, nella quale da un lato ha sostenuto di avere usato legittimamente la
fotocopiatrice e dall’altro ha fatto presente di avere subito, in occasione
dell’episodio contestatogli, una violenza fisica da parte del dirigente che,
nel tentativo di togliergli di mano i documenti oggetto di fotocopiatura, lo
aveva strattonato facendolo andare a terra e provocandogli una distorsione al
ginocchio destro. L’azienda gli ha inflitto cinque giorni di sospensione e lo
ha sottoposto nuovamente a procedimento disciplinare con l’addebito di avere,
nella lettera di giustificazione relativa alla prima contestazione, falsamente
accusato il dirigente di un atto di violenza che, secondo i risultati di
un’indagine interna, non si era verificato.
Il
secondo procedimento disciplinare si è concluso con il licenziamento in
tronco. Nel giudizio che ne è seguito, il Tribunale di Roma, dopo avere svolto
l’istruttoria, ha respinto la domanda di annullamento del licenziamento, in
quanto ha ritenuto provata la falsità dell’accusa rivolta al dirigente. La
decisione è stata confermata dalla Corte di Appello di Roma che ha ritenuto
proporzionata la sanzione, in quanto il lavoratore aveva rappresentato
all’azienda una situazione non solo totalmente falsa, ma tale da poter
pregiudicare la situazione di un superiore. Vladimiro D. ha proposto ricorso
per cassazione, censurando la decisione della Corte di Appello per vizi di
motivazione e violazione di legge.
La
Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 8679 del 13 aprile 2006, Pres. Mercurio, Rel.
Balletti) ha rigettato il ricorso. Non può ritenersi che la responsabilità
disciplinare a carico del ricorrente possa venire meno, o essere attenuata –
ha affermato la Corte – per essere stato il comportamento in questione
commesso da Vladimiro D. in una lettera di giustificazione (firmata anche dal
suo difensore, il che non toglie la piena responsabilità del lavoratore, per
la dichiarazione coscientemente sottoscritta) rispetto ad una precedente
contestazione disciplinare e ciò in quanto – come esattamente è stato
rimarcato nella sentenza impugnata – “il
comportamento di Vladimiro D. di avere rappresentato una situazione non solo
totalmente falsa, ma tale da poter pregiudicare la situazione di un
superiore, al mero fine di trovare una giustificazione per un episodio, a sua
volta di responsabilità disciplinare, è idoneo a rompere il vincolo fiduciario
tra le parti, minando quel rapporto di mutuo affidamento, alla base del
rapporto lavorativo”.
Il funzionario pubblico che abbia svolto
mansioni di dirigente ha diritto alle differenze di retribuzione – Nonostante
la diversità delle carriere –
In base all’art. 52 del D. Lgs. 30.3.2001 n. 165, in materia di
pubblico impiego, l’esercizio di fatto di mansioni non corrispondenti alla
qualifica di appartenenza non ha effetto ai fini dell’inquadramento del
lavoratore o dell’assegnazione di incarichi di direzione. L’assegnazione del
lavoratore a mansioni proprie delle qualifica superiore (al di fuori delle
ipotesi di temporanea vacanza di posto in organico e di sostituzione di altro
dipendente assente) è nulla, ma al lavoratore è corrisposta la differenza di
trattamento economico con la qualifica superiore. Quest’ultima disposizione è
applicabile anche nel caso di svolgimento da parte di un funzionario, delle
mansioni di dirigente. Il fatto che la carriera del dirigente sia diversa da
quella del funzionario non preclude a quest’ultimo il diritto alle differenze
di retribuzione ove abbia svolto mansioni dirigenziali (Cassazione Sezione
Lavoro n. 8529 del 12 aprile 2006, Pres. Sciarelli, Rel. Miani Canevari).
AI FINI DELLA DECISIONE SULLA
ADOTTABILITA’ DEL MINORE SI DEVE ATTRIBUIRE CARATTERE PRIORITARIO ALLA SUA
ESIGENZA DI CRESCERE NELLA SUA FAMIGLIA DI ORIGINE
– In base
alle legge n. 184 del 1983 (Cassazione Sezione Prima Civile n. 8877 del 14
aprile 2006, Pres. Luccioli, Rel. San Giorgio).
In materia di dichiarazione di adottabilità
del minore, l’art. 1 della legge n. 184 del 1983 attribuisce carattere
prioritario alla esigenza del minore di crescere nella famiglia di origine:
una esigenza della quale è consentito il sacrificio solo in presenza di una
situazione di carenza di cure materiali e morali, da parte dei genitori e
degli stretti congiunti – ed a prescindere dalla imputabilità a costoro di
detta situazione – tale da pregiudicare in modo grave e non transeunte lo
sviluppo ed equilibro psico fisico del minore stesso. La valorizzazione del
legame naturale rende necessario un particolare rigore nella valutazione della
situazione di abbandono del minore quale presupposto per la dichiarazione
dello stato di adottabilità dello stesso, finalizzata esclusivamente
all’obiettivo della tutela dei suoi interessi. In particolare, tale
valutazione non può discendere da un mero apprezzamento circa la inidoneità
dei genitori (o congiunti) del minore cui non si accompagni l’ulteriore,
positivo accertamento che tale inidoneità abbia provocato o possa provocare,
danni gravi ed irreversibili alle equilibrata crescita dell’interessato. In
proposito il giudizio deve necessariamente basarsi su di una reale, obiettiva
situazione esistente in atto, nella quale soltanto vanno individuate e
rigorosamente accertate e approvate le gravi ragioni che, impedendo al nucleo
famigliare di origine di garantire una normale crescita, ed adeguati
riferimenti educativi, al minore, ne giustifichino la sottrazione allo stesso
nucleo.
NELLA DECISIONE
SULL’ATTRIBUZIONE DELL’ASSEGNO DI DIVORZIO IL
GIUDICE PUO’ FARE RIFERIMENTO ALLA DOCUMENTAZIONE ATTESTANTE I REDDITI
–
Per stabilire il tenore
di vita della coppia in costanza di matrimonio (Cassazione Sezione Prima
Civile n. 8221 del 7 aprile 2006, Pres. Luccioli, Rel. Giuliani).
Il giudice di merito investito della domanda
di attribuzione dell’assegno di divorzio deve verificare, sulla base degli
elementi acquisiti, la sussistenza nel richiedente del requisito della
mancanza dei mezzi adeguati alla conservazione del tenore di vita precedente.
L’inadeguatezza può essere affermata attraverso l’apprezzamento di un
rilevante divario nelle rispettive potenzialità reddituali e patrimoniali dei
coniugi. Il richiedente ha l’onere di fornire la dimostrazione della fascia
socio-economico di appartenenza della coppia all’epoca della convivenza e del
relativo tenore di vita adottato in costanza di matrimonio, nonché della
situazione economica attuale. Peraltro il giudice può tener conto della
situazione reddituale e patrimoniale della famiglia al momento della
cessazione della convivenza quale elemento induttivo da cui desumere, in via
presuntiva, il tenore di vita anzidetto e può, in particolare, in mancanza di
prova da parte del richiedente medesimo, fare riferimento, quale parametro di
valutazione del pregresso stile di vita, alla documentazione attestante i
redditi dell’onerato.