UNA SENTENZA PENALE DI CONDANNA RIPORTATA DAL LAVORATORE IN PRIMO GRADO NON E’ SUFFICIENTE A GIUSTIFICARE IL SUO LICENZIAMENTO Se al Giudice del lavoro non viene offerta la prova del fatto (Cassazione Sezione Lavoro n. 21409 del 5 ottobre, Pres. Sciarelli, Rel. Figurelli).
           
G.B. e L.Z., dipendenti dalla S.p.A. Poste Italiane con qualifica di operatori di gestione sono stati licenziati in tronco, nell’ottobre del 1998, con l’addebito di essere stati sottoposti a processo penale con l’imputazione di avere commesso, presso la loro abitazione, nel gennaio del 1998, il reato di violenza sessuale ai danni di una donna che aveva sporto denuncia penale per l’accaduto. Il Pretore di Ancona, con provvedimento di urgenza emesso nel novembre 1998 ha ordinato all’azienda di reintegrare il due dipendenti nel posto di lavoro in quanto ha ritenuto che la sola instaurazione di un processo penale a loro carico fosse insufficiente a determinare la rottura del vincolo fiduciario posto a base del rapporto.
           
Il giudizio è proseguito per la decisione sul merito. L’azienda ha in un primo momento reintegrato i lavoratori, ma quando, nell’aprile 1999, il Tribunale penale di Ancona li ha condannati per il reato di violenza, li ha nuovamente estromessi. Essa ha fatto presente al giudice del lavoro questi nuovi sviluppi e gli ha chiesto di dichiarare la legittimità del licenziamento intimato nel settembre del 1998 o in subordine di accertare la definitiva risoluzione del rapporto con effetto dalla data della sentenza penale di condanna.
           
L’azienda ha chiesto di essere ammessa a provare con testimoni che i due dipendenti erano stati sottoposti a procedimento penale con l’imputazione di violenza sessuale, che la vicenda ebbe eco nella stampa locale e che i giornali evidenziarono la qualifica di impiegati postali rivestita dai lavoratori, che successivamente intervenne la sentenza di condanna di primo grado, la quale ebbe vasta risonanza nella stampa. Il Tribunale di Ancona, giudice del lavoro, non ha ammesso la prova e, con sentenza emessa nel febbraio 2001, ha annullato il licenziamento, confermando l’ordine di reintegrazione dei due impiegati nel posto di lavoro. La decisione è stata motivata con il rilievo che nessuna prova era stata offerta in ordine all’effettivo svolgimento dei fatti e alla responsabilità dei due dipendenti. La Corte d’Appello di Ancona ha confermato questa decisione osservando che l’essere accusati di un grave reato ed anche l’essere condannati in primo grado con sentenza non definitiva non costituiva prova sufficiente della responsabilità. L’azienda ha proposto ricorso per cassazione censurando la sentenza della Corte di Ancona per vizi di motivazione e violazione di legge; essa ha lamentato, tra l’altro, la mancata ammissione della prova offerta.
           
 La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 21409 del 5 ottobre, Pres. Sciarelli, Rel. Figurelli) ha rigettato il ricorso, rilevando, tra l’altro, l’inammissibilità delle censure relative alla mancata ammissione della prova; sul punto – ha osservato – il motivo di ricorso è inammissibile, per mancanza di autosufficienza, in quanto non sono riportati i capitoli dell’interrogatorio formale e della prova per testimoni, non ammessi perché ritenuti inidonei a provare i fatti oggetto di contestazione posti a base del licenziamento disciplinare; invero, il ricorrente per cassazione il quale denunci vizi della sentenza correlati al rifiuto del giudice di merito di dare ingresso ai mezzi istruttori ritualmente introdotti oppure l’omessa valutazione da parte dello stesso di una certa deposizione, ha l’onere da un lato di dimostrare l’esistenza di un nesso eziologico tra l’errore addebitato al giudice e la pronuncia emessa in concreto che senza quell’errore sarebbe stata diversa, al fine di consentire al giudice di legittimità un controllo sulla decisività delle prove e, dall’altro, di indicare specificamente nel ricorso le deduzioni di prova che asserisce disattese onde consentire al giudice di legittimità la verifica, sulla base di tale atto di impugnazione e senza necessità di inammissibili indagini integrative, della validità e della decisività delle disattese deduzioni.
           
Dalla sentenza impugnata – ha rilevato la Corte – emerge che la condotta ascritta ai due dipendenti non risulta provata, non solo perché la sentenza di condanna penale non è divenuta definitiva, ma anche “perché nessuna ulteriore prova della verità dei fatti stessi è stata data dal datore di lavoro, che neppure ha sottoposto alla valutazione del Giudice le risultanze probatorie raccolte nel giudizio penale e che non ha provocato la formazione di autonome prove, vertenti sul fatto, in sede civile”.
           
 

 

Cassazione: marito paga in ritardo l'ex? Via i soldi dalla busta paga

Il marito versa in ritardo gli alimenti alla ex moglie? Rischia di vedersi decurtare, per ordine del giudice civile, i soldi direttamente dalla busta paga. Lo ha sottolineato la prima sezione civile della Cassazione nel respingere il ricorso di un marito napoletano, Giovanni S., separato dalla moglie Maria Rosaria che si era opposto alla decisione del Tribunale di Torre Annunziata che aveva ordinato al ministero delle Finanze di decurtare all'uomo 568 euro dalla busta paga, il corrispettivo del mantenimento che doveva alla consorte. Secondo la Cassazione decurtare i soldi dallo stipendio al marito inadempiente o semplicemente in ritardo con i pagamenti alla moglie e' legittimo in quanto ''l'articolo 156 del codice civile attribuisce al giudice la possibilita', oltre che di disporre il sequestro di parte dei beni del coniuge obbligato, di ordinare ai terzi, tenuti a corrispondere, anche periodicamente, somme di denaro all'obbligato, che una parte di esse venga versata direttamente agli aventi diritto''.


 

Cassazione: gare in velocità? Scatta la confisca dell'auto

Gare in velocita', scatta l'obbligo della confisca dell'auto. Lo sottolinea la Corte di Cassazione con una sentenza nella quale ha confermato la legittimita' della decisione di confiscare il veicolo ad un 27enne torinese, ........, che aveva ''gareggiato in velocita', alla guida di un'auto vettura con i conducenti di altri veicoli a motori''. Una misura obbligatoria data la ''pericolosita' della disponibilita''' di un veicolo impiegato per una gara di velocita'. Inutilmente il giovane si e' rivolto alla Cassazione contro la decisione del Tribunale di Torino del dicembre 2005, rilevando che lo stesso giudice, nei confronti degli altri coimputati, non aveva disposto la confisca del mezzo con palese disparita' di trattamento. La quarta sezione penale ha respinto il ricorso rilevando che la nuova norma contemplata nella legge 214 del 2003 ''ha introdotto una fattispecie incriminatrice piu' grave di quella precedente non solo perche' la pena e' stata aumentata ma altresi' per la trasformazione della fattispecie da contravvenzione a delitto''. In ogni caso, sottolineano ancora gli 'ermellini' nella sentenza 38017, ''anche a voler ritenere che la confisca fosse da giudicare facoltativa, il giudice di merito ha implicitamente motivato sulla pericolosita' della disponibilita' dell'autovettura impiegata per una gara di velocita'''. Da qui il rigetto del ricorso di Emanuele. F. condannato pure al pagamento delle spese processuali. Torna all'indice di questa sezione Torna a inizio pagina