IL DATORE DI LAVORO RISPONDE DEL COMPORTAMENTO “MOBBIZZANTE” TENUTO DA UN SUO DIRIGENTE NEI CONFRONTI DI UN DIPENDENTE Per non averlo prevenuto, in base all’art. 2087 cod. civ. (Cassazione Sezione Lavoro n. 12445 del 25 maggio 2006, Pres. Ciciretti, Rel. De Luca).
            Maria M. dipendente dell’Associazione nazionale mutilati e invalidi del lavoro, Anmil, ha presentato le dimissioni senza preavviso per reazione al trattamento, ritenuto vessatorio, usatole dal presidente dell’associazione, Antonio P. Quindi la lavoratrice ha proposto, davanti al Pretore di Potenza, un giudizio nei confronti dell’Anmil per fare accertare la giusta causa delle dimissioni, con conseguente suo diritto all’indennità sostitutiva del preavviso e per ottenere il risarcimento dei danni non patrimoniali e alla salute derivatile dal comportamento tenuto nei suoi confronti dal presidente. Il Pretore ha riconosciuto il diritto della lavoratrice all’indennità sostitutiva del preavviso, ma, pur avendo accertato che ella aveva subito un trattamento vessatorio con rilevanti conseguenze sul piano morale e psico-fisico, ha rigettato la domanda di risarcimento dei danni in quanto proposta nei confronti dell’Anmil e non del presidente Antonio P. Questa decisione è stata confermata, in grado di appello, dal Tribunale di Potenza che ha rilevato che i fatti denunciati erano stati commessi dal presidente, onde non era ravvisabile in capo all’associazione una diretta e immediata responsabilità.
            Il Tribunale ha anche rilevato che l’Anmil, per i fatti denunciati dalla lavoratrice, aveva deferito il presidente al collegio dei probiviri ed ha ritenuto che in tal modo l’associazione avesse adempiuto all’obbligo contrattuale, derivante dall’art. 2087 cod. civ., di tutelare la salute e la personalità morale della dipendente. Maria M. ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione del Tribunale per vizi di motivazione e violazione di legge.
            La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 12445 del 25 maggio 2006, Pres. Ciciretti, Rel. De Luca) ha accolto il ricorso. Nel caso in esame – ha affermato la Corte – essendo stato accertato che i fatti mobbizzanti posti in essere dal presidente dell’associazione hanno danneggiato la lavoratrice, incombeva all’associazione, contrattualmente tenuta a tutelarla, in base all’art. 2087 cod. civ., l’onere di provare di avere adottato tutte le misure necessarie a prevenire l’evento dannoso. Per contro – ha osservato la Corte – l’associazione si è limitata a sostenere di avere deferito il presidente al collegio dei probiviri, attuando un’iniziativa diretta alla repressione, non già alla prevenzione dei fatti mobbizzanti e pertanto non idonea a costituire adempimento agli obblighi previsti dall’art. 2087 cod. civ.

E’ ILLEGITTIMO IL LICENZIAMENTO DI UN DIPENDENTE CHE ABBIA REAGITO CON PAROLE OFFENSIVE ALLE INGIURIE RIVOLTEGLI DA UN DIRIGENTE Si deve tener conto della provocazione (Cassazione Sezione Lavoro n. 12438 del 25 maggio 2006, Pres. Senese, Rel. Monaci).
            Domenico C., dipendente della s.r.l Tekno Progetti, è stato sottoposto a procedimento disciplinare con l’addebito di avere rivolto parole ingiuriose a un  dirigente dell’azienda. Egli si è difeso sostenendo di avere reagito ad insulti rivoltigli dal dirigente. L’azienda lo ha licenziato. Nel giudizio che ne è seguito il Pretore di Cassino ha annullato il licenziamento, ordinando la reintegrazione del dipendente nel posto di lavoro e condannando l’azienda al risarcimento del danno. Questa decisione è stata confermata dalla Corte di Appello di Roma che ha motivato la sua decisione rilevando che il lavoratore, prima di pronunciare parole offensive nei confronti del dirigente, era stato da questo ingiuriato con un’espressione lesiva della sua dignità e della sua personalità morale; questa circostanza – ha osservato la Corte di Roma – era sufficiente ad escludere la gravità della condotta del lavoratore e la sua sanzionabilità con il licenziamento. L’azienda ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione della Corte di Roma per vizi di motivazione e violazione di legge.
            La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 12438 del 25 maggio 2006, Pres. Senese, Rel. Monaci) ha rigettato il ricorso. Un comportamento altrimenti sanzionabile anche con il licenziamento – ha affermato la Corte – non è più tale quando costituisce una reazione ad un comportamento provocatorio di un altro soggetto.

IL RIFIUTO DELLA PRESTAZIONE LAVORATIVA PER PERICOLOSITA’ DELL’AMBIENTE DI LAVORO DEVE RITENERSI LEGITTIMO – Non costituisce insubordinazione (Cassazione Sezione Lavoro n. 11664 del 18 maggio 2006 Pres. Mileo, Rel. D’Agostino).
            Fabio A. e Junior B., dipendenti della s.p.a. Laterizi Arbia come operai addetti alla cromatura, nel settembre del 1997 hanno rifiutato di continuare a lavorare nel locale “galvanica”, per la pericolosità dell’ambiente ove erano presenti gas e vapori tossici. L’azienda, previo procedimento disciplinare, li ha licenziati, ma, dopo aver ricevuto le lettere di impugnazione dei licenziamenti, li ha richiamati in servizio. I lavoratori non hanno aderito all’invito e si sono rivolti al Tribunale di Siena, chiedendo l’annullamento del licenziamento. Il Tribunale, dopo aver disposto una consulenza tecnica, ha accolto la domanda, ordinando la reintegrazione dei lavoratori e condannando l’azienda al risarcimento del danno. La Corte d’Appello di Firenze ha confermato la decisione di primo grado, rilevando che il rifiuto dei lavoratori di continuare a prestare la loro attività era giustificato, in quanto nel locale “galvanica” si sviluppavano gas e vapori tossici, contenenti agenti notoriamente cancerogeni quali il cromo, senza idonea aspirazione, con diffusione di polveri in ambiente di altezza inferiore a tre metri. La Corte ha escluso pertanto la configurabilità dell’insubordinazione ed ha anche affermato che il licenziamento non poteva ritenersi revocato, mancando l’accordo degli interessati, necessario per la ricostituzione del rapporto di lavoro. L’azienda ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione impugnata per vizi di motivazione e violazione di legge.
            La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 11664 del 18 maggio 2006 Pres. Mileo, Rel. D’Agostino) ha rigettato il ricorso, in quanto ha ritenuto che la Corte di Firenze abbia adeguatamente motivato la sua decisione con riferimento alle risultanze istruttorie, da cui emergeva la pericolosità dell’ambiente di lavoro. Essa inoltre ha richiamato la sua giurisprudenza secondo cui, affinché il licenziamento disciplinare possa ritenersi revocato ed il rapporto di lavoro ricostituito, non è sufficiente in mero invito a riprendere servizio rivolto dal datore di lavoro al licenziato, ma è necessario un accordo che presuppone corrispondenza fra proposta e accettazione.