Cassazione: no indennizzo per furto auto se chiavi sono dimenticate nel mezzo

L'automobilista distratto che lascia le chiavi all'interno dell'auto, non ha diritto all'indennizzo dell'assicurazione. E' quanto ha dichiarato la Cassazione in una sentenza, confermando così precedente pronuncia della Corte di appello di Trento. La Cassazione ha infatti respinto il ricorso di un uomo a cui era stata rubata l'auto alcuni anni fa

Cassazione: indennità di accompagnamento per i minori di tenera età

La Sezione Lavoro della Corte di Cassazione (Sent. n. 11525/2006) ha stabilito che "la situazione d'inabilità (impossibilità di deambulare senza l'aiuto di un accompagnatore o necessità di assistenza continua per impossibilità di compiere gli atti quotidiani della vita), necessaria per l’attribuzione dell'indennità di accompagnamento della L. n. 18 del 1980, ex art. 1, può configurarsi anche con riguardo a bambini in tenera età, ancorchè questi, per il solo fatto di essere tali abbisognino comunque di assistenza". I Giudici del Palazzaccio hanno infatti precisato che "la legge, la quale attribuisce il diritto anche ai minori degli anni diciotto, non pone un limite minimo di età; 'tenuto conto che detti bambini possono trovarsi in uno stato tale da comportare, per le condizioni patologiche del soggetto, la necessità di un'assistenza diversa, per forme e tempi di esplicazione, da quella occorrente ad un bambino sano'".

Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, Sentenza 17-05-2006, n. 11525

Motivi della decisione


Con l'unico motivo il ricorrente, denunciando violazione e falsa applicazione di norme di diritto, lamenta che la Corte di Appello di Milano, "prescindendo da qualsiasi esame o valutazione nel merito della sindrome da cui è affetta la bambina, ha escluso a priori la possibilità di poter riconoscere l'indennità di accompagnamento a qualsiasi tipo di patologia per il semplice fatto di essere in tenera età, ovvero per il fatto che un infante deve essere comunque sempre assistito e accompagnato da parte degli adulti".


All'uopo deduce che "i bambini gravemente handicappati richiedono un'attenzione e un'assistenza continua e specializzata che nulla hanno a che vedere con le cure di cui necessitano i bambini sani "ed in particolare, nella fattispecie, evidenzia in dettaglio le cure particolari e specialistiche delle quali ha avuto bisogno la bambina fin dai primissimi giorni di vita, a causa delle sue affezioni ed in specie della "ipotonicità muscolare".


Il motivo è fondato e va accolto.


Come affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte (v. 24/10/1991 n. 11329), "la situazione d'inabilità (impossibilità di deambulare senza l'aiuto di un accompagnatore o necessità di assistenza continua per impossibilità di compiere gli atti quotidiani della vita), necessaria per l'attribuzione dell'indennità di accompagnamento della L. n. 18 del 1980, ex art. 1, può configurarsi anche con riguardo a bambini in tenera età, ancorchè questi, per il solo fatto di essere tali abbisognino comunque di assistenza, atteso che la legge, la quale attribuisce il diritto anche ai minori degli anni diciotto, non pone un limite minimo di età; "tenuto conto che detti bambini possono trovarsi in uno stato tale da comportare, per le condizioni patologiche del soggetto, la necessità di un'assistenza diversa, per forme e tempi di esplicazione, da quella occorrente ad un bambino sano" (v. anche da ultimo Cass. 29/1/2003 n. 1377 e Cass. 20/2/2003 n. 2523 , che ha precisato che "i presupposti stabiliti per l'attribuzione di questa indennità non sono stati modificati a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 467 del 2002, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale della L. n. 289 del 1990, art. 1, comma 3, nella parte in cui non prevedeva l'attribuzione dell'indennità di frequenza ai minori, mutilati o invalidi civili, che frequentano l'asilo nido, essendo quest'ultima indennità diversa e non equiparabile a quella di accompagnamento").


In particolare Cass. S.U. n. 11329 del 1991, (in un caso di accoglimento della domanda relativa ad un bambino deceduto a meno di due anni, per leucosi acuta) ha osservato che:


"Si deve ritenere che anche per gli infanti, che pure, per il solo fatto di essere tali abbisognano comunque di assistenza, può verificarsi una situazione, determinata dall'inabilità, la quale comporti che l'assistenza, per le condizioni patologiche in cui versi la persona, assuma forme e tempi di esplicazione ben diversi da quelli di cui necessita un bambino sano. Per il compimento degli atti della vita quotidiana, cui la legge ha riguardo, non esiste identità di situazioni tra soggetti sani e soggetti inabili, anche se, in un caso e nell'altro, di tenera età".


Tanto affermato in astratto, le Sezioni Unite, hanno, poi, riscontrato che "nel concreto", in quel caso, con accertamento di fatto, non specificamente ed efficacemente censurato, i giudici del merito avevano ritenuto che il bambino "a causa della grave malattia da cui era affetto, si trovava proprio nella situazione, prevista dalla legge, comportante la necessità di un'assistenza assidua, tale che di essa non avrebbe avuto bisogno qualora fosse stato sano".


Riguardo a tale accertamento, inoltre, Cass. n. 2523 del 2003 cit. ha precisato che, nella prima infanzia (così come nella senilità avanzata) "non può prescindersi" "dal parametro mediamente riconducibile a quella determinata fascia di età", in quanto "solo sul presupposto della valutazione del parametro medio riconducibile ad una determinata fascia di età, si può, successivamente, verificare se lo stato di alterazione derivante dalla patologia in atto sia tale da integrare il presupposto medico - legale per il riconoscimento dell'indennità di accompagnamento".


Orbene la Corte di Appello di Milano, nell'impugnata sentenza, riconoscendo il diritto in astratto ed aprioristicamente soltanto dal compimento del terzo anno di vita, sulla base delle considerazioni che "un bambino di età inferiore ai tre anni non è in grado di compiere nessuna " delle funzioni "quotidiane necessarie ", "nè può vivere da solo perchè , anche se sano, ha sempre la necessità di essere assistito e accompagnato da parte degli adulti ", e che "non rileva, alfine che qui interessa, l'avere il bambino handicappato bisogno di cure assidue e particolari che impegnano i genitori o altri soggetti" ha disatteso del tutto i principi sopra richiamati.


La Corte territoriale infatti:


ha, in sostanza, configurato in via generale ed astratta un limite di età, per il riconoscimento del diritto, che non è affatto previsto dalla legge;


ha ipotizzato una fascia di età (della prima infanzia) al di sotto della quale, sempre in via aprioristica ed astratta, sarebbe identica la necessità di assistenza per tutti gli infanti;


ha negato qualsiasi rilevanza, in tale fascia, alle cure assidue e particolari necessarie ai bambini handicappati, laddove sono proprio queste, in concreto, a determinare quella alterazione rispetto al parametro medio dei bambini sani, che giustifica il riconoscimento del diritto de quo;


infine, ha del tutto ignorato gli aspetti concreti della particolare patologia sofferta dalla M.C., e delle conseguenze sulla assistenza e sulle cure specifiche necessarie, anche prima del compimento del terzo anno di vita.


Il ricorso va, pertanto, accolto e l'impugnata sentenza va cassata con rinvio alla Corte di Appello di Milano in diversa composizione, la quale procederà al riesame, attenendosi ai principi richiamati e provvedendo anche sulle spese del giudizio di legittimità.


P.Q.M.


La Corte accoglie il ricorso; cassa la impugnata sentenza e rinvia, anche per le spese, alla Corte di Appello di Milano in diversa composizione.


Così deciso in Roma, il 23 febbraio 2006.


Depositato in Cancelleria il 17 maggio 2006.

 


 

Cassazione: è reato umiliare la donna con le pulizie domestiche

La Sesta Sezione Penale della Corte di Cassazione, in una recentissima sentenza, ha stabilito che commette reato per maltrattamento chi umilia la propria moglie costringendola alle pulizie di casa. I Giudici di Piazza Cavour hanno precisato che un comportamento di questo tipo è umiliante e vessatorio e dunque meritevole di condanna penale. Con questa decisione i Giudici del Palazzaccio hanno confermato la condanna per maltrattamenti di un marito che umiliava e vessavala moglie costringendola a pulire il pavimento in ginocchio quale punizione per l’insufficienza cura che la donna dedicava ai lavori di casa.
 

Cassazione: la testimonianza della suocera? Ha valore per i processi di maltrattamenti

La Quarta Sezione Penale della Corte di Cassazione (Sent. n. 15187/2006) ha precisato che nei procedimenti penali aventi ad oggetto maltrattamenti in famiglia, deve ritenersi ammissibile anche la testimonianza della suocera. I Giudici del Palazzaccio, hanno infatti ritenuto che la testimonianza di una persona legata da uno stretto grado di parentela, come la suocera, può ritenersi senza dubbio attendibile e di sicuro valore probatorio. Con questa decisione la Corte ha confermato la condanna per il reato di maltrattamenti inflitta nei confronti di un uomo reo di aver tenuto diversi comportamenti illeciti, dai maltrattamenti dall'ingiuria alla falsificazione della firma su assegni bancari.
Corte di Cassazione, Sesta Sezione Penale, Sentenza n.15187/2006

IN FATTO E IN DIRITTO

Avverso la sentenza della Corte di Appello di Potenza 3 nov. 2005 n. 370, con la quale, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Matera 10 feb. 2004 n. 91, da lui appellata, è stato dichiarato colpevole di reato previstodall'art. 572 c.p. [1], commesso in Matera fino al 12 maggio 1999 e contestato al capo b) dell'imputazione, in esso assorbiti il reato previsto dagli artt. 81, 594 e 581 c.p., commesso in Matera il 4 giu. 1999 e contestato al capo a), e il reato previsto dall'art. 572 c.p., commesso in Matera fino al 19 giu. 1999, A. R. F. ha proposto ricorso per cassazione, chiedendone l'annullamento per i seguenti motivi: violazione degli artt. 572 c.p. e 192 c.p.p. e illogicità della motivazione (art. 606 lett. b) d e) c.p.p.) perché nella sentenza impugnata non si tiene conto della separazione di fatto, intervenuta già il 12 magg. 1999, ne della circostanza che nessuno dei fatti esposti nella querela del 19 giu. 1999 era stato rappresentato nelle due precedenti denuncie; inoltre, la questione dei rapporti bancari e della necessità di accenderli presso piazze lontane dai luoghi di residenza, mentre, per quanto riguarda gli elementi descrittivi del menage familiare, quelli desunti dall'unico intervento della polizia il 12 magg. 1999 e i due referti medici non sono rappresentativi di un clima di violenza instaurato dal F. e la testimonianza della suocera è chiaramente di parte.

Violazione degli artt. 582 c.p. e 192 c.p.p. e vizio di motivazione (art. 606 lett. b) ed e) c.p.p.) perché la colpevolezza dell'imputato in ordine al reato di lesioni in danno di S. N., contestato al capo d) dell'imputazione, si basa sulla testimonianza della parte offesa, inattendibile come quelle della figlia, D. P., per le medesime ragioni; violazione degli artt. 132 e 133 c.p.p. (art. 606 lett. b) ed e) c.p.p.) perché nel trattamento sanzionatorio il giudice si è limitato alla rideterminazione della pena, malgrado che la qualificazione della pena sia stata fatta oggetto di impugnazione, con richiesta di riduzione al minimo.

L'impugnazione è inammissibile.

Col primo motivo di ricorso il ricorrente ripropone censure già prese in esame e disattese dalla sentenza di appello, la quale ha valutato le obiezioni dell'appellante e ritenuto motivatamente che la proposizione di denuncie a querele in relazione, dapprima a singoli episodi, e successivamente alla vicenda complessiva svoltasi nel corso del rapporto coniugale, non costituisce di per se ragione di dubbio sull'attendibilità della testimonianza da lei resa.

La sentenza impugnata ha peso in considerazione anche la questione dei conti bancari, rilevando che l'imputato li intetatva alla moglie, della quale a volte falsificava anche la sua firma sugli assegni, in quanto era interdetto all'emissione dei predetti titoli; ed ha concluso correttamente che questa circostanza non solo non inficiava l'affermazione della parte lesa di non conoscere l'andamento di tali conti, ma ne confermava in tal senso la deposizione testimoniale.

A fronte di questa motivazione, adeguata ai fatti e logicamente coerente, il ricorrente muove in realtà censure in fatto, peraltro già smentite dagli accertamenti dei giudici del merito e, quindi, manifestamente infondate, che implicano una ricostruzione della vicenda diversa da quella eseguita con la sentenza e non può, quindi, estendersi all'esame e alla valutazione degli elementi di fatto acquisiti alla causa, riservati alla competenza del giudice di merito, rispetto al quale la Corte di cassazione non ha alcun potere di sostituzione al fine della ricerca di una diversa ricostruzione dei fatti in vista di una decisione alternativa (Cass., Sez. un., 2 lug. 1997 n. 6402, ric. Dessimone; Sez. III, 12 feb. 1999 n. 3539, ric. Suini; Sez. III, 14 lug. 1999 n. 2609/99, ric. Paone; Id., 12 nov. 1999 n. 3560, ric. Drigo; Sez. VII, 9 lug. 2002 n. 35758, ric. Manni G.).

Anche sulla questione posta col secondo motivo di ricorso il giudice di appello si è pronunciato, escludendo che la testimonianza della N., suocera dell'imputato, potesse ritenersi inattendibile per il solo fatto della sua collocazione in epoca prossima alla rottura dei rapporti tra sua figlia e il marito e ribadendo il valore probatorio.

Il ricorrente contesta genericamente la valutazione, qualificando come non corretta l'operazione di omologazione delle deposizioni della P. e della N., senza tuttavia dedurne alcuna specifica censura, in contrasto con la regola, stabilita a pena di inammissibilità dagli artt. 581 lett. c) e 591 comma I, lett. c) c.p.p., per cui nei motivi di impugnazione devono essere indicate specificamente le ragioni di diritto e gli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta, considerando che quelle mosse in appello sono state motivatamente rigettate.

Peraltro anche il secondo è per più versi, inammissibile.

Quanto al terzo motivo si osserva, quanto al trattamento sanzionatorio, che il giudice di appello, confermando la pena base determinata dal primo giudice al fine del calcolo della continuazione e applicando lo stesso aumento per il reato contestato al capo d) dell'imputazione, ha di fatto confermato la congruità della pena inflitta in primo grado, sicché il vizio eccepito dal ricorrente appare manifestamente privo di consistenza.

Peraltro il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, con la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento di Euro 1000,00 alla Cassa delle ammende.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e di Euro 1000,00 alla Cassa delle ammende.

Roma, 12 apr. 2006.


Depositata in Cancelleria il 3 maggio 2006.

 

Cassazione: ingiurie dette in dialetto? E’ reato lo stesso

La Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione (Sent. n. 19967/2006) ha stabilito che si può offendere anche parlando in dialetto. I Giudici del Palazzaccio, nella fattispecie, hanno precisato che “le parole usate dall’imputato erano obiettivamente scurrili e lesive dell’onore e del decoro della persona offesa ed erano comprensibili da parte di chiunque, al di la della provenienza dialettale di alcune di esse, in quanto usate in ambito nazionale e riconosciute dalla generalità degli italiani come espressioni ingiuriose, per cui deve ritenersi provato che la persona offesa abbia percepito le espressioni ingiuriose in tutta la loro carica specificamente offensiva, come dalla stessa affermato”.

Corte di Cassazione, Prima Sezione Penale, Sentenza n. 19967/2006

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il ricorso è infondato.

Quanto al primo motivo, che attiene alla mancata applicazione della scriminante della legittima difesa, consistente, ad avviso del ricorrente, nella reazione all’aggressione subita, alla stregua delle dichiarazioni da lui rese nel giudizio, la Corte di merito ha operato diversa ricostruzione del fatto per cui la persona offesa si era limitata a rivolgere una torcia elettrica verso il viso dell’imputato che aveva reagito con una condotta violenta consapevole, al di fuori di qualsiasi intento difensivo, provocando alla vittima lesioni personali poi riscontrate in sede di visita medica.

Si tratta di una ricostruzione fondata su una valutazione della prova conforme al parametro normativo di cui all’art. 192, commi 1, 2 e 3 c.p.p.[1] e comunque immune da vizi logico e giuridici, essendo state correttamente valutate come veritiere le dichiarazioni della persona offesa, poiché intrinsecamente attendibili per aver la vittima inizialmente cercato di approfittare della situazione a qualsiasi fine, essendo poi stata costretta a dire il vero dopo la visita medica che aveva incontestabilmente ed oggettivamente ed oggettivamente dimostrato come si erano svolti i fatti ed inoltre riscontrate dal rilievo obiettivo delle lesioni subite (perfettamente rispondenti alla versione resa dalla vittima) e dalle dichiarazioni di altri due testimoni.

Ed a fronte di tale ricostruzione non ha pregio la tesi del ricorrente per cui mancherebbero riscontri alla versione della persona offesa, essendo stati i riscontri individuati in modo ineccepibile sulla base di supporto probatorio ed è stata quindi correttamente respinta.

Anche il secondo motivo è infondato.

Le dichiarazioni rese da persone imputate o già imputate in un procedimento connesso, che sono sentite, come nel caso in esame, come testimoni, a norma dell’art. 197 bis, co. 1, c.p., sono annoverate fra le prove e non tra i semplici indizi, anche se il giudizio di attendibilità delle stesse necessità di riscontri esterni, deve essere cioè confrontato da altri elementi o dati probatori, che non sono peraltro predeterminati nella specie e nella qualità e che di conseguenza possono essere, in via generale, di qualsiasi tipo o natura, (v. sez. un. 3/32/1990, Belli).

A tale valutazione si è attenuta la Corte di merito che ha indicato i riscontri individuati nonché i motivi per cui ha ritenuto inattendibile e priva di alcun supporto probatorio la tesi difensiva per cui sarebbe stata la persona offesa ad aggredire per prima l’imputato e tale valutazione, attenendo al mero fatto, non è contestabile in sede di legittimità.

Quanto al terzo motivo, in tema di reato di ingiurie la sfera morale altrui può essere lesa sia con modalità direttamente ed oggettivamente aggressive del diritto all’apprezzamento e alla opinione altrui, sia con modalità che, oggettivamente non lesive, diventino tali per le forme in cui vengono estrinsecate.

Nel caso in esame le parole usate dall’imputato erano obiettivamente scurrili e lesive dell’onore e del decoro della persona offesa ed erano comprensibili da parte di chiunque, al di la della provenienza dialettale di alcune di esse, in quanto usate in ambito nazionale e riconosciute dalla generalità degli italiani come espressioni ingiuriose, per cui deve ritenersi provato che la persona offesa abbia percepito le espressioni ingiuriose in tutta la loro carica specificamente offensiva, come dalla stessa affermato.

In ordine infine alla richiesta di applicazione della causa di non punibilità prevista dall’art. 228, co. 2, del c.p.m.p., il motivo è specifico, non avendo il ricorrente neppure indicato le condizioni che legittimerebbero tale applicazione.

In ogni caso non è individuabile un fatto ingiusto della persona offesa, tale non potendo qualificarsi l’indirizzo della luce di una torcia elettrica in ambiente abituale verso una persona conosciuta, la cui reazione sarebbe stata comunque del tutto sproporzionata ed inaccettabile rispetto ad un fatto banale come quello posto in essere dalla persona offesa.

Il ricorso deve essere in definitiva respinto perché infondati sono tutti i profili addotti, con le conseguenze di legge in punto di spese processuali.

P.Q.M .

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Roma, 23 mag. 2006.


Depositata in Cancelleria il 12 giugno 2006.