La prescrizione decennale del diritto alla qualifica decorre all’ultimo giorno in cui sono state svolte le mansioni superiori – In base all’art. 2046 cod. civ. Il diritto al riconoscimento di una qualifica superiore soggiace alla prescrizione ordinaria decennale di cui all’art. 2046 cod. civ. Tuttavia il decorso del decennio dal momento dell’insorgenza del diritto (compimento di un trimestre di svolgimento di mansioni superiori in base all’art. 2103 cod. civ.) non preclude definitivamente l’accesso all’inquadramento più elevato allorché il lavoratore continui a svolgere le mansioni superiori dopo la maturazione del diritto alla promozione automatica. Invero, permanendo la situazione cui la norma collega il diritto, la prescrizione decorre autonomamente da ogni giorno successivo a quello nel quale si è per la prima volta concretata tale situazione, sino alla cessazione della medesima (Cassazione Sezione Lavoro n. 14140 del 20 giugno 2006, Pres. Mercurio, Rel. Di Nubila).
              

 


 

 

Cassazione: si può fare la 'spia' sulle cattive abitudini dei condomini

La Corte di Cassazione offre un'arma in piu' ai condomini per tutelarsi dalle cattive abitudini degli inquilini maleducati e sancisce che e' legittimo, nel corso delle assemblee condominiali, fare la 'spia' sulle cattive abitudini degli inquilini che a volte sfociano addirittura nel reato. In particolare, la Quinta sezione penale ha accolto il ricorso di Egidio R., un 57enne di Lodi che per ben due volte si era visto condannare per avere offeso l'onore e il decoro, con tanto di condanna al risarcimento dei danni morali, dell'inquilina Bruna A. che era stata sorpresa a ''danneggiare, il 29 gennaio del '98, la fiancata di un'autovettura parcheggiata mediante l'utilizzo di una chiave'' in prossimita' del passo carraio condominiale. Per il Tribunale di Lodi, e il verdetto era stato confermato dalla Corte d'appello di Milano (gennaio 2002), Egidio R. andava condannato per diffamazione ''a prescindere dalla verita' dell'accaduto'', data ''l'offensivita''' del fatto attribuito. Per la Suprema Corte, invece, che ha accolto il ricorso di Egidio, e' legittimo il comportamento del condomino che denuncia, in mezzo agli altri, i comportamenti deplorevoli di qualche inquilino, diversamente ''sarebbe inibito ai condomini di segnalare all'amministratore condominiale la condotta pregiudizievole per il diritto sulla cosa comune posta in essere da altro condomino''.
 


 

La Cassazione condanna il Viminale al risarcimento dopo un fermo troppo “muscoloso”
«Basta con gli eccessi delle forze dell’ordine»
 
 
Roma - Stop agli “eccessi” delle forze dell’ordine “nell’adempimento di un dovere”. Lo intima la Corte di Cassazione, che ha respinto un ricorso del ministero dell’Interno, condannato dalla Corte d’appello di Firenze a risarcire un fiorentino con diecimila euro per la “frattura di tre costole” riportata in seguito all’operazione di “cinturamento” compiuta da un poliziotto nel tentativo di immobilizzare l’uomo.
Per la Suprema Corte, che ha analizzato il ricorso del Viminale nella qualità di “responsabile civile” dopo che la Corte d’appello fiorentina, nell’aprile 2005, aveva dichiarato non doversi procedere nei confronti del giovane fermato e del poliziotto, in maniera legittima, il giudice di merito “ha ravvisato un evidente errore di valutazione della situazione da parte dell’agente di polizia e un altrettanto evidente eccesso nell’uso del mezzo usato per ottenere il risultato di immobilizzare” la persona fermata, vale a dire “un cinturamento compiuto con una pressione tale da produrre la frattura di tre costole”.
In definitiva, per la Sesta sezione penale (sentenza 22266) la Corte di merito “ha ricostruito e rappresentato in termini estremamente concreti e realistici la situazione in cui si trovava l'agente della Polizia di Stato nel momento in cui ha cagionato” al fermato “la frattura di tre costole, sottolineando che l’agente operava insieme ad altri due poliziotti e che il soggetto che aveva di fronte era solo e di costituzione notevolmente più gracile della sua”.
La Cassazione conclude dicendo che è stato “correttamente dimostrato” nei confronti del poliziotto “l'eccesso colposo nell’adempimento del dovere”.
 

 


 

 
 

 

Cassazione: E' reato filmare le effusioni sentimentali del coniuge con l'amante

La Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione, in una recentissima Sentenza, ha stabilito che è reato filmare le effusioni sentimentali della moglie con l’amante. I Giudici di Piazza Cavour hanno infatti precisato che integra gli estremi del reato di diffamazione girare video, diffonderlo e comunicarne telefonicamente il contenuto. Aggiunge infatti la Corte che l’uso combinato dei due mezzi (filmato e telefonata) rende esplicito l’intento del soggetto di offendere la reputazione di un’altra persona. Con questa decisione la Corte ha confermato la condanna di diffamazione nei confronti di un marito che, in corso di separazione con la moglie, aveva effettuato delle videoriprese nelle quali la moglie veniva ritratta in momenti di effusione sentimentale con un altro uomo. Il video era stato fatto pervenire ai parenti della donna accompagnato da una telefonata nella quale il marito comunicava ai suoceri il tradimento della figlia.

 

 

 


 

 

 

Cassazione: si offende anche parlando in dialetto, dire 'recchione' è reato

Si puo' offendere anche parlando in dialetto. Pertanto dire a qualcuno 'recchione', ad esempio, costituisce ingiuria anche se l'espressione viene detta ad una persona di ''un'altra area geografica'' dove non vige quel vernacolo. Lo dice la Corte di Cassazione che, nel condannare il vocabolo 'recchione' pronunciato da un militare nei confronti di un pari grado, sottolinea come la parola ''di provenienza dialettale'' ma ''usata in ambito nazionale e' riconosciuta dalla generalita' degli italiani come espressione ingiuriosa''. L'espressione era stata pronunciata dal 22enne Giuseppe S. contro il paro grado Alessio D.F. durante il servizio di ronda. 'Recchione, siciliano di m.' aveva detto Giuseppe al collega e i due erano venuti anche alle mani. Di qui la condanna per ingiuria e lesione personale (due mesi e quindici giorni di reclusione con i benefici della sospensione condizionale e della non menzione della condanna) inflitta dalla Corte d'appello militare di Roma nel giugno 2005. Invano Giuseppe S. si e' rivolto alla Cassazione, sostenendo, quanto all'offesa, che l'espressione pronunciata in dialetto non poteva essere ''comprensibile da persona proveniente da diversa area geografica''. La Prima sezione penale, sentenza 19967, ha respinto il ricorso e ha annotato che ''le parole usate dall'imputato erano scurrili e lesive dell'onore e del decoro della persona offesa ed erano comprensibili da parte di chiunque, al di la' della provenienza dialettale di alcune di esse, in quanto usate in ambito nazionale e riconosciute dalla generalita' degli italiani come espressioni ingiuriose''. Ecco perche', concludono gli 'ermellini' ''deve ritenersi provato che la persona offesa abbia percepito le espressioni ingiuriose in tutta la loro carica specificamente offensiva''

 

 


 

 

 

Cassazione: cognome madre a figli riconosciuti in ritardo

I figli naturali, riconosciuti dal padre in ritardo, potranno da oggi scegliere di mantenere il cognome della madre. Lo ha stabilito la Cassazione, respingendo il ricorso di un padre naturale contro la donna dalla quale aveva avuto un bambino nel 1997, riconoscendone la paternita' solo in un secondo momento. L'uomo si era rivolto alla suprema corte chiedendo che il bambino portasse il suo cognome, ma si e' visto respingere la richiesta in quanto la Cassazione ha stabilito che il criterio di trasmissione del cognome, basato sul modello patriarcale, 'non e' piu' attuale. La Cassazione ha inoltre esortato il Parlamento ad adeguare la norma sulla trasmissione del cognome alle mutate condizioni della societa' attuale, nella quale il modello patriarcale stesso sembra oramai in declino


 

 

Cassazione:Obbligo del locatore ottenere il certificato di abitabilità dell'immobile

La Terza Sezione della Corte di Cassazione (Sent. n. 8409/2006) ha stabilito che rientra tra le obbligazioni del locatore quella di procurare al conduttore il certificato di abitabilità dell’immobile. I Giudici del Palazzaccio hanno infatti precisato che “in giurisprudenza di legittimità si è già affermato che […] in assenza di patto contrario, incombe all'alienante o disponente […] l'obbligo di curare l'ottenimento del certificato di abitabilità, posto a tutela delle esigenze igieniche e sanitarie nonché degli interessi urbanistici, richiedenti l'accertamento pubblico della sussistenza delle condizioni di salubrità, stabilità e sicurezza dell'edificio […], attestante l'idoneità dell'immobile ad essere "abitato" e più generalmente ad essere frequentato dalle persone fisiche”. Detto obbligo sussiste qualunque sia la destinazione del bene locato (abitativo, commerciale, deposit0 ecc.). Aggiunge inoltre la Corte che nel caso di contratto di locazione tale obbligo deve ritenersi incombere al locatore, quale proprietario o comunque titolare del potere di disposizione sulla cosa e che “la mancanza del certificato di abitabilità si è ritenuta determinare, sul piano civilistico, la nullità del contratto per illiceità dell'oggetto” e “il definitivo diniego del rilascio del certificato di abitabilità legittima il ricorso ai rimedi della risoluzione del contratto e del risarcimento del danno”.
 

 

 


 

IL DANNO ESISTENZIALE PRODOTTO DALLA PERDITA DI UN CONGIUNTO HA NATURA NON PATRIMONIALE ED E’ DIVERSO DAL DANNO BIOLOGICO La sua esistenza  è presunta, salvo prova contraria (Cassazione Sezione Terza Civile n. 13546 del 12 giugno 2006, Pres. Nicastro, Rel. Scarano).
           
Angelo C. è morto nel febbraio 1993 a causa di un incidente stradale. La vedova Lidia ed i figli Alex e Massimiliano hanno chiesto al Tribunale di Brescia la condanna del responsabile dell’incidente e della compagnia presso la quale questi era assicurato al risarcimento di tutti i danni da loro subiti ivi compreso il danno biologico. Il Tribunale ha condannato i convenuti al pagamento delle somme di lire 285 milioni a titolo di danno patrimoniale subito per la perdita dell’apporto di contribuzione economica che era dato dal defunto ai suoi famigliari e di lire 200 milioni a titolo di danno morale; ha rigettato invece la domanda di risarcimento del danno biologico per mancanza di prove di malattie psico-fisiche insorte a causa della scomparsa del congiunto. In grado di appello la Corte di Brescia ha condannato i convenuti al pagamento dell’ulteriore somma di lire 90 milioni a titolo di risarcimento del danno subito dai congiunti della vittima “jure proprio” in ragione della “permanente alterazione del rapporto familiare conseguente alla perdita dello stretto congiunto e alla privazione improvvisa di tutti quei legami affettivi, etici e psicologici che costituivano il suo modo d’essere anche nei rapporti esterni e che erano una componente fondamentale dell’equilibrio e armonia del nucleo familiare”. La Corte ha fatto rientrare questa permanente alterazione o danno esistenziale nel concetto di danno biologico, osservando che “in una moderna concezione della persona intesa come portatrice di valori, aspettative e diritti che trova il suo punto di riferimento costituzionale negli artt. 2, 29 e 32 della Costituzione, l’ordinamento giuridico deve tutelare il diritto alla salute, ossia il benessere fisico e psichico inteso in senso ampio, da ogni ingiusta offesa altrui”. In proposito la Corte ha rilevato, tra l’altro, che il defunto conviveva pacificamente con la moglie ed i figli ed aveva con loro anche rapporti di collaborazione. La compagnia assicuratrice ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione della Corte di Brescia per vizi di motivazione e violazione di legge; essa ha tra l’altro rilevato che la Corte avrebbe dovuto porre a carico dei congiunti della vittima la prova del danno esistenziale.
           
La Suprema Corte (Sezione Terza Civile n. 13546 del 12 giugno 2006, Pres. Nicastro, Rel. Scarano) ha rigettato il ricorso, pur correggendo la motivazione della Corte di Brescia nel senso che il danno esistenziale costituisce un pregiudizio non patrimoniale diverso dal danno biologico. In proposito essa ha richiamato la recente decisione delle Sezioni Unite n. 6572 del 24 marzo 2006, secondo cui il danno esistenziale consiste in “ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare areddittuale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno”.
           
Per quanto attiene alla prova la Suprema Corte ha affermato che nel caso di perdita del congiunto il danno esistenziale va presunto, ferma restando la possibilità della prova contraria. Provato il fatto-base della sussistenza di un rapporto di coniugio o di filiazione e della convivenza con il congiunto defunto, è da ritenersi – ha affermato la Corte – che la privazione di tale rapporto presuntivamente determini ripercussioni (anche se non necessariamente per tutta la vita) sia sull’assetto degli stabiliti ed armonici rapporti del nucleo familiare, sia sul modo di relazionarsi degli stretti congiunti del defunto (anche) all’esterno di esso rispetto ai terzi, nei comuni rapporti della vita di relazione.
           
Incombe allora alla parte in cui sfavore opera la presunzione – ha aggiunto la Corte – dare la prova contraria al riguardo, idonea a vincerla (es. situazione di mera convivenza “forzata”, caratterizzata da rapporti deteriorati, contrassegnati da continue tensioni e screzi; coniugi in realtà “separati in casa” ecc.).
           
 

 


 

 

 


Cumulo dei periodi di svolgimento alle mansioni superiori ai fini della promozione automatica – Per frequenza e sistematicità dell’assegnazione – In base all’art. 2103 cod. civ. il lavoratore ha diritto alla promozione automatica in caso di assegnazione a mansioni superiori per un periodo fissato dai contratti collettivi e comunque non superiore a tre mesi. Il compimento del periodo di assegnazione a mansioni superiori, cui consegue, ai sensi dell’art. 2103 cod. civ., il diritto del lavoratore alla promozione automatica, può risultare anche dal cumulo di vari periodi, quando le prestazioni di mansioni superiori abbiano assunto – indipendentemente da un intento fraudolento dell’imprenditore diretto ad impedire la maturazione del diritto alla promozione – carattere di frequenza e di sistematicità, desumibile dal numero di assegnazioni e dal tempo intercorso fra un’assegnazione e l’altra (Cassazione Sezione Lavoro n. 14466 del 22 giugno 2006, Pres. Mercurio, Rel. Miani Canevari).