La Corte di Cassazione offre un'arma
in piu' ai condomini per tutelarsi dalle cattive abitudini degli inquilini
maleducati e sancisce che e' legittimo, nel corso delle assemblee
condominiali, fare la 'spia' sulle cattive abitudini degli inquilini che a
volte sfociano addirittura nel reato. In particolare, la Quinta sezione
penale ha accolto il ricorso di Egidio R., un 57enne di Lodi che per ben
due volte si era visto condannare per avere offeso l'onore e il decoro,
con tanto di condanna al risarcimento dei danni morali, dell'inquilina
Bruna A. che era stata sorpresa a ''danneggiare, il 29 gennaio del '98, la
fiancata di un'autovettura parcheggiata mediante l'utilizzo di una chiave''
in prossimita' del passo carraio condominiale. Per il Tribunale di Lodi, e
il verdetto era stato confermato dalla Corte d'appello di Milano (gennaio
2002), Egidio R. andava condannato per diffamazione ''a prescindere dalla
verita' dell'accaduto'', data ''l'offensivita''' del fatto attribuito. Per
la Suprema Corte, invece, che ha accolto il ricorso di Egidio, e'
legittimo il comportamento del condomino che denuncia, in mezzo agli
altri, i comportamenti deplorevoli di qualche inquilino, diversamente
''sarebbe inibito ai condomini di segnalare all'amministratore
condominiale la condotta pregiudizievole per il diritto sulla cosa comune
posta in essere da altro condomino''.
La Cassazione condanna il
Viminale al risarcimento dopo un fermo troppo “muscoloso”
«Basta con gli eccessi delle forze
dell’ordine»
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Roma - Stop agli “eccessi” delle forze
dell’ordine “nell’adempimento di un dovere”. Lo intima la Corte di
Cassazione, che ha respinto un ricorso del ministero dell’Interno,
condannato dalla Corte d’appello di Firenze a risarcire un
fiorentino con diecimila euro per la “frattura di tre costole”
riportata in seguito all’operazione di “cinturamento” compiuta da un
poliziotto nel tentativo di immobilizzare l’uomo.
Per la Suprema Corte, che ha analizzato il ricorso del Viminale
nella qualità di “responsabile civile” dopo che la Corte d’appello
fiorentina, nell’aprile 2005, aveva dichiarato non doversi procedere
nei confronti del giovane fermato e del poliziotto, in maniera
legittima, il giudice di merito “ha ravvisato un evidente errore di
valutazione della situazione da parte dell’agente di polizia e un
altrettanto evidente eccesso nell’uso del mezzo usato per ottenere
il risultato di immobilizzare” la persona fermata, vale a dire “un
cinturamento compiuto con una pressione tale da produrre la frattura
di tre costole”.
In definitiva, per la Sesta sezione penale (sentenza 22266) la Corte
di merito “ha ricostruito e rappresentato in termini estremamente
concreti e realistici la situazione in cui si trovava l'agente della
Polizia di Stato nel momento in cui ha cagionato” al fermato “la
frattura di tre costole, sottolineando che l’agente operava insieme
ad altri due poliziotti e che il soggetto che aveva di fronte era
solo e di costituzione notevolmente più gracile della sua”.
La Cassazione conclude dicendo che è stato “correttamente
dimostrato” nei confronti del poliziotto “l'eccesso colposo
nell’adempimento del dovere”.
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Cassazione: E' reato filmare le
effusioni sentimentali del coniuge con l'amante
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La Quinta Sezione Penale della
Corte di Cassazione, in una recentissima Sentenza, ha stabilito che è
reato filmare le effusioni sentimentali della moglie con l’amante. I
Giudici di Piazza Cavour hanno infatti precisato che integra gli
estremi del reato di diffamazione girare video, diffonderlo e
comunicarne telefonicamente il contenuto. Aggiunge infatti la Corte
che l’uso combinato dei due mezzi (filmato e telefonata) rende
esplicito l’intento del soggetto di offendere la reputazione di
un’altra persona. Con questa decisione la Corte ha confermato la
condanna di diffamazione nei confronti di un marito che, in corso di
separazione con la moglie, aveva effettuato delle videoriprese nelle
quali la moglie veniva ritratta in momenti di effusione sentimentale
con un altro uomo. Il video era stato fatto pervenire ai parenti della
donna accompagnato da una telefonata nella quale il marito comunicava
ai suoceri il tradimento della figlia.
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Cassazione: si offende anche parlando
in dialetto, dire 'recchione' è reato
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Si puo' offendere anche parlando
in dialetto. Pertanto dire a qualcuno 'recchione', ad esempio,
costituisce ingiuria anche se l'espressione viene detta ad una persona
di ''un'altra area geografica'' dove non vige quel vernacolo. Lo dice
la Corte di Cassazione che, nel condannare il vocabolo 'recchione'
pronunciato da un militare nei confronti di un pari grado, sottolinea
come la parola ''di provenienza dialettale'' ma ''usata in ambito
nazionale e' riconosciuta dalla generalita' degli italiani come
espressione ingiuriosa''. L'espressione era stata pronunciata dal
22enne Giuseppe S. contro il paro grado Alessio D.F. durante il
servizio di ronda. 'Recchione, siciliano di m.' aveva detto Giuseppe
al collega e i due erano venuti anche alle mani. Di qui la condanna
per ingiuria e lesione personale (due mesi e quindici giorni di
reclusione con i benefici della sospensione condizionale e della non
menzione della condanna) inflitta dalla Corte d'appello militare di
Roma nel giugno 2005. Invano Giuseppe S. si e' rivolto alla
Cassazione, sostenendo, quanto all'offesa, che l'espressione
pronunciata in dialetto non poteva essere ''comprensibile da persona
proveniente da diversa area geografica''. La Prima sezione penale,
sentenza 19967, ha respinto il ricorso e ha annotato che ''le parole
usate dall'imputato erano scurrili e lesive dell'onore e del decoro
della persona offesa ed erano comprensibili da parte di chiunque, al
di la' della provenienza dialettale di alcune di esse, in quanto usate
in ambito nazionale e riconosciute dalla generalita' degli italiani
come espressioni ingiuriose''. Ecco perche', concludono gli
'ermellini' ''deve ritenersi provato che la persona offesa abbia
percepito le espressioni ingiuriose in tutta la loro carica
specificamente offensiva'' |
Cassazione: cognome madre a figli
riconosciuti in ritardo
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I figli naturali, riconosciuti
dal padre in ritardo, potranno da oggi scegliere di mantenere il
cognome della madre. Lo ha stabilito la Cassazione, respingendo il
ricorso di un padre naturale contro la donna dalla quale aveva avuto
un bambino nel 1997, riconoscendone la paternita' solo in un secondo
momento. L'uomo si era rivolto alla suprema corte chiedendo che il
bambino portasse il suo cognome, ma si e' visto respingere la
richiesta in quanto la Cassazione ha stabilito che il criterio di
trasmissione del cognome, basato sul modello patriarcale, 'non e' piu'
attuale. La Cassazione ha inoltre esortato il Parlamento ad adeguare
la norma sulla trasmissione del cognome alle mutate condizioni della
societa' attuale, nella quale il modello patriarcale stesso sembra
oramai in declino |
Cassazione:Obbligo del locatore ottenere il
certificato di abitabilità dell'immobile
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La Terza Sezione della Corte di Cassazione (Sent.
n. 8409/2006) ha stabilito che rientra tra le obbligazioni del
locatore quella di procurare al conduttore il certificato di
abitabilità dell’immobile. I Giudici del Palazzaccio hanno infatti
precisato che “in giurisprudenza di legittimità si è già affermato che
[…] in assenza di patto contrario, incombe all'alienante o disponente
[…] l'obbligo di curare l'ottenimento del certificato di abitabilità,
posto a tutela delle esigenze igieniche e sanitarie nonché degli
interessi urbanistici, richiedenti l'accertamento pubblico della
sussistenza delle condizioni di salubrità, stabilità e sicurezza
dell'edificio […], attestante l'idoneità dell'immobile ad essere
"abitato" e più generalmente ad essere frequentato dalle persone
fisiche”. Detto obbligo sussiste qualunque sia la destinazione del
bene locato (abitativo, commerciale, deposit0 ecc.). Aggiunge inoltre
la Corte che nel caso di contratto di locazione tale obbligo deve
ritenersi incombere al locatore, quale proprietario o comunque
titolare del potere di disposizione sulla cosa e che “la mancanza del
certificato di abitabilità si è ritenuta determinare, sul piano
civilistico, la nullità del contratto per illiceità dell'oggetto” e
“il definitivo diniego del rilascio del certificato di abitabilità
legittima il ricorso ai rimedi della risoluzione del contratto e del
risarcimento del danno”.
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IL DANNO ESISTENZIALE PRODOTTO
DALLA PERDITA DI UN CONGIUNTO HA NATURA NON PATRIMONIALE ED E’ DIVERSO DAL
DANNO BIOLOGICO –
La sua esistenza è
presunta, salvo prova contraria (Cassazione Sezione Terza Civile n. 13546
del 12 giugno 2006, Pres. Nicastro, Rel. Scarano).
Angelo C. è morto nel febbraio 1993 a causa di un incidente stradale. La
vedova Lidia ed i figli Alex e Massimiliano hanno chiesto al Tribunale di
Brescia la condanna del responsabile dell’incidente e della compagnia
presso la quale questi era assicurato al risarcimento di tutti i danni da
loro subiti ivi compreso il danno biologico. Il Tribunale ha condannato i
convenuti al pagamento delle somme di lire 285 milioni a titolo di danno
patrimoniale subito per la perdita dell’apporto di contribuzione economica
che era dato dal defunto ai suoi famigliari e di lire 200 milioni a titolo
di danno morale; ha rigettato invece la domanda di risarcimento del danno
biologico per mancanza di prove di malattie psico-fisiche insorte a causa
della scomparsa del congiunto. In grado di appello la Corte di Brescia ha
condannato i convenuti al pagamento dell’ulteriore somma di lire 90
milioni a titolo di risarcimento del danno subito dai congiunti della
vittima “jure proprio”
in ragione della “permanente alterazione del rapporto familiare
conseguente alla perdita dello stretto congiunto e alla privazione
improvvisa di tutti quei legami affettivi, etici e psicologici che
costituivano il suo modo d’essere anche nei rapporti esterni e che erano
una componente fondamentale dell’equilibrio e armonia del nucleo
familiare”. La Corte ha fatto rientrare questa permanente alterazione o
danno esistenziale nel concetto di danno biologico, osservando che “in una
moderna concezione della persona intesa come portatrice di valori,
aspettative e diritti che trova il suo punto di riferimento costituzionale
negli artt. 2, 29 e 32 della Costituzione, l’ordinamento giuridico deve
tutelare il diritto alla salute, ossia il benessere fisico e psichico
inteso in senso ampio, da ogni ingiusta offesa altrui”. In proposito la
Corte ha rilevato, tra l’altro, che il defunto conviveva pacificamente con
la moglie ed i figli ed aveva con loro anche rapporti di collaborazione.
La compagnia assicuratrice ha proposto ricorso per cassazione censurando
la decisione della Corte di Brescia per vizi di motivazione e violazione
di legge; essa ha tra l’altro rilevato che la Corte avrebbe dovuto porre a
carico dei congiunti della vittima la prova del danno esistenziale.
La Suprema Corte (Sezione Terza Civile n. 13546 del 12 giugno 2006, Pres.
Nicastro, Rel. Scarano) ha rigettato il ricorso, pur correggendo la
motivazione della Corte di Brescia nel senso che il danno esistenziale
costituisce un pregiudizio non patrimoniale diverso dal danno biologico.
In proposito essa ha richiamato la recente decisione delle Sezioni Unite
n. 6572 del 24 marzo 2006, secondo cui il danno esistenziale consiste in
“ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma
oggettivamente accertabile) provocato sul fare areddittuale del soggetto,
che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo
a scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua
personalità nel mondo esterno”.
Per quanto attiene alla prova la Suprema Corte ha affermato che nel caso
di perdita del congiunto il danno esistenziale va presunto, ferma restando
la possibilità della prova contraria. Provato il fatto-base della
sussistenza di un rapporto di coniugio o di filiazione e della convivenza
con il congiunto defunto, è da ritenersi – ha affermato la Corte – che la
privazione di tale rapporto presuntivamente determini ripercussioni (anche
se non necessariamente per tutta la vita) sia sull’assetto degli stabiliti
ed armonici rapporti del nucleo familiare, sia sul modo di relazionarsi
degli stretti congiunti del defunto (anche) all’esterno di esso rispetto
ai terzi, nei comuni rapporti della vita di relazione.
Incombe allora alla parte in cui sfavore opera la presunzione – ha
aggiunto la Corte – dare la prova contraria al riguardo, idonea a vincerla
(es. situazione di mera convivenza “forzata”, caratterizzata da rapporti
deteriorati, contrassegnati da continue tensioni e screzi; coniugi in
realtà “separati in casa” ecc.).
Cumulo dei periodi di svolgimento
alle mansioni superiori ai fini della promozione automatica – Per
frequenza e sistematicità dell’assegnazione –
In base all’art.
2103 cod. civ. il lavoratore ha diritto alla promozione automatica in
caso di assegnazione a mansioni superiori per un periodo fissato dai
contratti collettivi e comunque non superiore a tre mesi. Il
compimento del periodo di assegnazione a mansioni superiori, cui
consegue, ai sensi dell’art. 2103 cod. civ., il diritto del lavoratore
alla promozione automatica, può risultare anche dal cumulo di vari
periodi, quando le prestazioni di mansioni superiori abbiano assunto –
indipendentemente da un intento fraudolento dell’imprenditore diretto
ad impedire la maturazione del diritto alla promozione – carattere di
frequenza e di sistematicità, desumibile dal numero di assegnazioni e
dal tempo intercorso fra un’assegnazione e l’altra (Cassazione Sezione
Lavoro n. 14466 del 22 giugno 2006, Pres. Mercurio, Rel. Miani
Canevari).
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