Per definire nazionale un organizzazione sindacale si deve fare riferimento ai contratti collettivi che essa stipula – Più che alla diffusione territoriale – In base all’art. 28 St. Lav. sono legittimati ad agire giudiziariamente per la repressione dei comportamenti antisindacali gli organismi locali delle associazioni sindacali nazionali che vi abbiano interesse. Ai fini del riconoscimento del carattere “nazionale” dell’associazione sindacale assume rilievo più che la diffusione della articolazione territoriale delle strutture dell’associazione, la capacità di contrarre con la parte datoriale accordi o contratti collettivi che trovano applicazione in tutto il territorio nazionale e che non possono che essere, a loro volta, espressione di una forza e capacità negoziale comprovanti un generale e diffuso collegamento del sindacato con il contesto socio-economico dell’intero paese. La concreta ed effettiva organizzazione territoriale può configurarsi come elemento di riscontro del suo carattere nazionale e non certo come elemento condizionante il requisito della nazionalità (Cassazione Sezione Lavoro n. 212 del 9 gennaio 2008, Pres. Ciciretti, Rel. Vidiri).

Il passaggio dei dipendenti pubblici ad una fascia funzionale superiore deve avvenire per pubblico concorso – In base all’art. 97 della Costituzione – Il passaggio dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni ad una fascia funzionale superiore – comportando l’accesso ad un nuovo posto di lavoro corrispondente a funzioni più elevate – è soggetto alla regola del pubblico concorso enunciata dal terzo comma dell’art. 97 Cost., atteso che, come è stato affermato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 194/2002, “il pubblico concorso in quanto metodo che offre le migliori garanzie di selezione dei più capaci è un meccanismo strumentale rispetto al canone di efficienza dell’amministrazione, il quale può dirsi pienamente rispettato qualora le selezioni non siano caratterizzate da arbitrarie forme che possono considerarsi ragionevoli solo in presenza di particolari situazioni, che possono giustificarle per una migliore garanzia del buon andamento dell’amministrazione” (Cassazione Sezione Lavoro n. 27127 del 21 dicembre 2007, Pres. Sciarelli, Rel. Balletti).

IL LAVORATORE CHE, PER GIUSTIFICARE UN’ASSENZA, OTTIENE UN CERTIFICATO MEDICO DICHIARANDO, CONTRARIAMENTE AL VERO, UNA SINTOMATOLOGIA DOLOROSA, PUO’ ESSERE CONDANNATO PER TRUFFA E FALSO IDEOLOGICO – In base agli articoli 640, 48 e 481 codice penale (Cassazione Sezione Seconda Penale n. 1402 dell’11 gennaio 2008, Pres. Cosentino, Rel. Ambrosio).
              Giuseppe C., dipendente del Ministero di Giustizia con mansioni di conducente di automezzi, affetto da artrosi lombo sacrale con doppia discopatia, ha ottenuto alcuni certificati medici attestanti la sua necessità di riposo, dichiarando al sanitario una sintomatologia dolorosa acuta. Nei periodi di assenza dal lavoro giustificati con tali certificati, egli si è recato in luoghi di vacanza ove ha praticato gli sport dello sci e del tennis. Conseguentemente egli è stato sottoposto a processo penale e condannato alla pena di un anno di reclusione e 300,00 euro di multa dal Tribunale di Ancona, che lo ha dichiarato responsabile del reato di truffa in danno dello Stato (art. 640 cpv. n. 1 cod. pen.) e di induzione a commettere falsità ideologica (artt. 48 e 481 cod. pen.).
              Il Tribunale ha ritenuto che l’imputato, dichiarando, contrariamente al vero, inesistenti sintomi di lombalgia acuta, abbia indotto i medici in errore, inducendoli a rilasciare false attestazioni di inabilità al lavoro. I medici escussi come testi – ha osservato il Tribunale – hanno fornito un riscontro tecnico a un dato di comune esperienza e, cioè, che la lombalgia acuta comporta un irrigidimento del rachide, una limitazione delle capacità deambulatorie e una impossibilità di svolgere le comuni mansioni, con necessità di riposo assoluto almeno nei primi giorni e, successivamente, di una modesta attività fisioterapica; si trattava perciò di una situazione del tutto incompatibile con la pratica dello sci e del tennis, cui invece risultava essersi dedicato il lavoratore, posto che tali attività sportive implicavano una iperattività dei muscoli lombari e una sollecitazione della schiena particolarmente intensa.
              Questa decisione è stata confermata dalla Corte di Appello di Ancona. Giuseppe G. ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione impugnata per illogicità della motivazione e violazione di legge, sostenendo in particolare che avrebbe dovuto essere disposta una perizia medica.
              La Suprema Corte (Sezione Seconda Penale n. 1402 dell’11 gennaio 2008, Pres. Cosentino, Rel. Ambrosio) ha dichiarato il ricorso inammissibile. L’affermazione di responsabilità – ha osservato la Corte – poggia sul positivo accertamento della presenza del dipendente in luoghi di vacanza, dove si dedicava ad attività del tutto incompatibili con l’asserito stato di malattia o la necessità di cure termali-fisioterapiche; l’accertamento peritale – per sua natura mezzo di prova “neutro” – non può ricondursi al concetto di “prova decisiva”, la cui mancata assunzione possa costituire motivo di ricorso per Cassazione, ai sensi dell’articolo 606, comma 1, lettera “d”, del cod. proc. pen., in quanto il ricorso o meno a una perizia è attività sottratta al potere dispositivo delle parti e rimessa essenzialmente al potere discrezionale del giudice, la cui valutazione, se assistita da adeguata motivazione, è insindacabile in sede di legittimità. Nel caso in esame – ha affermato la Corte – i Giudici di appello hanno implicitamente, ma inequivocamente affermato l’inutilità del mezzo tecnico, osservando che i sanitari assunti come testi avevano fornito un “riscontro tecnico” di nozioni che fanno parte del bagaglio della comune esperienza.
 

IL LICENZIAMENTO DISCIPLINARE PUO’ ESSERE RITENUTO ILLEGITTIMO SE IN CASI ANALOGHI L’AZIENDA HA APPLICATO UNA SANZIONE MINORE – Ad altri dipendenti (Cassazione Sezione Lavoro n. 144 dell’8 gennaio 2008, Pres. Mattone, Rel. Roselli).
              Carmine L., dipendente della s.p.a. Telecom Italia, è stato sottoposto a procedimento disciplinare e licenziato con l’addebito di avere contravvenuto al divieto di inviare messaggi scritti di natura personale con l’apparecchio telefonico portatile di servizio. Egli ha impugnato il licenziamento davanti al Tribunale di Napoli, rilevando, tra l’altro, l’eccessività della sanzione. Il Tribunale ha annullato il licenziamento ordinando all’azienda di reintegrare il lavoratore e di risarcirgli il danno. La Corte d’Appello di Napoli ha confermato questa decisione affermando che la sanzione doveva ritenersi sproporzionata, considerato che per fatti analoghi l’azienda aveva inflitto ad altri lavoratori la sanzione della sospensione di tre giorni e che non era stata provata alcuna ragione di differenziazione fra il comportamento di Carmine L. e quello degli altri suoi colleghi responsabili della stessa infrazione. L’azienda ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione della Corte di Napoli per avere, tra l’altro, ritenuto applicabile la regola della parità di trattamento, che non può ritenersi vigente nel  rapporto di lavoro privato.
              La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 144 dell’8 gennaio 2008, Pres. Mattone, Rel. Roselli) ha rigettato il ricorso. La discrezionalità del datore di lavoro nel graduare la sanzione disciplinare – ha affermato la Cassazione – non equivale ad arbitrio e perciò egli deve illustrare in forma persuasiva le ragioni che lo inducono a ritenere grave il comportamento illecito del dipendente, tanto da giustificare la più grave delle sanzioni; pertanto esattamente la Corte di Napoli ha ritenuto,  prescindendo da un’asserita assenza del dovere di trattare i lavoratori nello stesso modo, che l’inflizione di sanzioni conservative ad altri lavoratori per fatti illeciti analoghi inducano nel caso concreto a ritenere sproporzionato il licenziamento, in mancanza di ulteriori e specifiche ragioni di diversificazione.
              In conclusione – ha rilevato la Corte – l’asserita inesistenza di un obbligo dell’imprenditore di attribuire ai dipendenti, versanti nella medesima situazione di fatto, lo stesso trattamento economico e normativo non esclude che il licenziamento non ad nutum debba essere motivato in modo completo e coerente e che un’incoerenza possa essere ravvisata, con conseguente illegittimità del licenziamento, dal giudice di merito nell’essere stata inflitta sanzione conservativa ad altri dipendenti per il medesimo illecito disciplinare senza specifiche ragioni di diversificazione, ciò che ne esclude una gravità tale da giustificare la sanzione espulsiva.