LA SOSPENSIONE CAUTELARE DAL SERVIZIO DEL
PUBBLICO IMPIEGATO SOTTOPOSTO A PROCESSO PENALE NON PUO’ SUPERARE I CINQUE
ANNI – Interpretazione, da parte della Suprema Corte, del
contratto collettivo (Cassazione Sezione Lavoro n. 8210 del 23 maggio 2003,
Pres. Ciciretti, Rel. Celentano).
Mario D., dipendente del Ministero delle Finanze, nel
giugno del 1994 è stato arrestato con l’imputazione del reato di
concussione. In seguito a ciò egli è stato sospeso dal servizio. Dopo cinque
anni di sospensione, egli ha chiesto di essere riammesso in servizio, con
ripristino del trattamento economico. Egli ha sostenuto l’applicabilità
dell’art. 27 del contratto collettivo del comparto ministeri firmato nel
maggio 1995, che, al comma ottavo, stabilisce per la sospensione
dell’impiegato sottoposto a processo penale, una durata massima di cinque
anni. L’amministrazione ha respinto la domanda in quanto ha ritenuto
applicabile il comma terzo dello stesso articolo del contratto collettivo,
secondo cui, cessato lo stato di restrizione della libertà personale, il
periodo di sospensione può essere prolungato fino alla sentenza definitiva
del giudizio penale. Il Tribunale di Verona, al quale Mario D. si è rivolto,
ha dato ragione all’amministrazione finanziaria. La Corte d’Appello di
Verona ha invece ritenuto applicabile il termine di cinque anni e pertanto
ha disposto la riammissione in servizio del funzionario. L’amministrazione
finanziaria ha proposto ricorso per cassazione, censurando la sentenza della
Corte d’Appello per non avere correttamente applicato le regole stabile
dagli artt. 1362 e 1363 cod. civ. nell’interpretazione del contratto
collettivo.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 8210 del 23 maggio
2003, Pres. Ciciretti, Rel. Celentano) ha respinto il ricorso ricordando
preliminarmente che, in materia di pubblico impiego, essa può interpretare i
contratti collettivi. Essa ha quindi affermato che l’art. 27 del contratto
collettivo oggetto delle controversia deve essere interpretato nel senso che
il limite di durata quinquennale si applichi in ogni caso di sospensione dal
servizio determinata da un procedimento penale.
La Corte ha in particolare rilevato che l’art. 26 del
contratto collettivo comparto ministeri del 16 maggio 1995 prevede la
facoltà dell’Amministrazione di disporre, nel corso del procedimento
disciplinare per infrazione punibili con la sospensione dal servizio e dalla
retribuzione l’allontanamento dal lavoro del dipendente per un periodo non
superiore a trenta giorni, con conservazione della retribuzione. L’art. 27 (Sospensione
cautelare in caso di procedimento penale) dispone, ai primi quattro
commi:
“1. Il
dipendente che sia colpito da misura restrittiva della libertà personale è
sospeso d’ufficio dal servizio con privazione della retribuzione per la
durata dello stato di detenzione o comunque dello stato restrittivo della
libertà.
2. Il dipendente può essere sospeso dal
servizio con privazione della retribuzione anche nel caso in cui venga
sottoposto a procedimento penale che non comporti la restrizione della
libertà personale quando sia stato rinviato a giudizio per fatti
direttamente attinenti al rapporto di lavoro o comunque tali da comportare,
se accertati, l’applicazione della sanzione disciplinare del licenziamento
ai sensi dell’art. 25, commi 4 e 5.
3. L’amministrazione, cessato lo stato di
restrizione della libertà personale di cui al comma 1, può prolungare il
periodo di sospensione del dipendente fino alla sentenza definitiva, alle
medesime condizioni di cui al comma 2.
4. Resta fermo l’obbligo di sospensione nei
casi previsti dall’art. 15, comma 1, della legge n. 55/1990, come sostituito
dall’art. 1, comma 1, della legge n. 16/1992”.
Il comma 8 poi dispone:
“Quando vi sia stata sospensione cautelare dal
servizio a causa di procedimento penale, la stessa conserva efficacia, se
non revocata, per un periodo di tempo comunque non superiore a cinque anni.
Decorso tale termine la sospensione cautelare è revocata di diritto e il
dipendente riammesso in servizio. Il procedimento disciplinare rimane,
comunque, sospeso sino all’esito del procedimento penale”.
Il dettato contrattuale – ha osservato la Corte – è
chiaro: vi è una sospensione cautelare obbligatoria dal servizio in caso di
misura restrittiva della libertà personale, anche se per fatti estranei al
rapporto di lavoro, peraltro limitata alla durata dello stato restrittivo
della libertà (comma 1); vi è, poi, una sospensione facoltativa nel caso di
sottoposizione a procedimento penale, che non comporti la restrizione della
libertà personale, quando sussista un rinvio a giudizio per fatti
direttamente attinenti al rapporto di lavoro o comunque tali da comportare,
se accertati, la sanzione del licenziamento (comma 2); identica facoltà di
sospensione, con prolungamento del periodo di cui al primo comma, fino alla
sentenza definitiva, è prevista dal comma 3, ove ricorrano le condizioni di
cui al comma 2. Ulteriore forma di sospensione obbligatoria è quella
prevista dal quarto comma, peraltro mai invocato in questa controversia,
sospensione che, per effetto della legge 13 dicembre 1999, n. 475, è ora
applicabile solo per la sentenza definitiva e va comunque coordinata con le
norme enucleate nei commi precedenti. Le amministrazioni ricorrenti – ha
rilevato la Corte – sostengono che il termine di durata massima di cui al
comma 8 è applicabile solo alla sospensione di cui al comma 2, atteso che il
comma tre contiene già un termine di durata, costituito dalla sentenza
penale definitiva; ma questo assunto non è fondato.
L’interpretazione
corretta e conforme ai parametri costituzionali di ragionevolezza,
presunzione di innocenza e buon andamento della pubblica amministrazione -
ha affermato la Corte - è quella secondo la quale il termine massimo dei
cinque anni, fissato dal comma 8 dell’art. 27 cit., opera per ogni
sospensione cautelare dal servizio determinata da un procedimento penale;
sia, quindi, per il rinvio a giudizio non preceduto (o accompagnato) da una
misura restrittiva della libertà personale, di cui al secondo comma, sia per
la sospensione che, nella ricorrenza delle stesse condizioni di cui al comma
2, fa seguito alla cessazione dello stato di restrizione della libertà
personale di cui al comma 1.
L'utente può sapere i numeri chiamati
dal suo telefono
(Gar. Privacy 27.5.2003)
GARANTE PER LA PROTEZIONE DEI DATI PERSONALI. Oggetto : fatturazione
dettagliata
relativa ai numeri a tariffazione specifica (numerazione 899 e 709).
Newsletter
182 27.5.2003
Con riferimento alle segnalazioni, numerose, che continuano a pervenire in
materia di fatturazione dettagliata, relative anche alla numerazione a
tariffazione specifica quali ad esempio i numeri 899 e 709, si comunica che
all'esito degli accertamenti svolti, questa Autorità è in procinto di
adottare
un nuovo procedimento al riguardo.
Nelle more della sua adozione, l'Autorità ha constatato che, malgrado quanto
segnalato a codesta società già con decisione del 5 ottobre 1998, si
determino
ancora situazioni nelle quali, ad abbonati lesi da attività ingannevoli di
terzi, articolazioni di codesta non permettono di esercitare agevolmente i
relativi diritti, nonostante quanto previsto dalla legge 675/1996.
Riassumendo nuovamente quanto evidenziato in varie decisioni riguardanti
anche
singoli ricorsi al Garante, va ricordato ancora una volta che, fermo
restando
l'obbligo di non evidenziare le ultime tre cifre dei numeri chiamati in
occasione del primo invio delle fatturazioni (articolo 5 comma 3 decreto
legislativo 13 maggio 1998, n.171), deve essere successivamente riconosciuta
all'abbonato una duplice possibilità.
Da un lato, tale soggetto può ottenere la comunicazione dei numeri completi
delle utenze contatatte qualora emerga un'esigenza di tutela rispetto a
verifiche da compiere sull'esattezza o sulla legittimità di determinati
addebiti, o i contestazione riferita a delimitati periodi o chiamate, nei
limiti
previsti dal citato provvedimento del 5 ottobre 1998 (cfr. articolo 20,
comma 1,
lettera g della legge 31 dicembre 1996, n. 673, nonché provvedimenti
citato).
Dall'altro lato l'abbonato ha diritto di esercitare i diritti di cui
all'articolo 13 della stessa legge, per ottenere "in chiaro" dal fornitore
telefonico i numeri contattati. Come più volte rappresentato, in
quest'ultimo
caso l'abbonato non è tenuto a fornire alcuna particolare motivazione ai
fini
dell'esercizio del diritto di recesso e può rivolgersi al titolare del
trattamento con una procedura snella ( ex. Articolo 17, comma 1, del d.P.R.
n.501/1998). Ciò ferma restando la necessità, per il fornitore del servizio,
di
verificare l'identità del soggetto istante.
L'osservanza dei principi richiamati nel menzionato provvedimento del 1998 e
nel
predetto art.13 È rilevante sul piano della liceità e concorrenza del
complessivo trattamento dei dati.
Con riserva di dare comunicazione del nuovo provvedimento di ordine
generale, in
ordine al quale codesta società potrà fornire, ove ritenuto utile, altri
elementi di valutazione, si invita quindi a tener conto, nel frattempo,
delle
indicazioni già formulate dal Garante.
I GIOVANI CHE SI
ARRUOLANO NELL’ARMA DEI CARABINIERI, IN SOSTITUZIONE
DEL SERVIZIO OBBLIGATORIO DI LEVA, NON SONO PUBBLICI IMPIEGATI –
Essi devono rivolgersi al giudice ordinario per ottenere il pagamento di
differenze di retribuzione (Cassazione Sezioni Unite Civili n. 7899 del 20
maggio 2003, Pres. Ianniruberto, Rel. Ravagnani).
Gianluigi B. ed altri suoi colleghi hanno svolto il servizio
militare di leva nell’Arma dei Carabinieri. Essi si sono rivolti al Pretore
di Roma, giudice del lavoro, sostenendo di avere percepito una retribuzione
inferiore a quella loro dovuta e chiedendo la condanna del Ministero della
Difesa a corrispondere loro le relative differenze. Il Pretore ha dichiarato
il difetto di giurisdizione del giudice ordinario, in quanto ha ritenuto che
la controversia concernesse un rapporto di pubblico impiego e fosse devoluta
alla giurisdizione amministrativo. Questa decisione è stata riformata, in
grado di appello, dal Tribunale di Roma, che ha escluso la sussistenza di un
rapporto di pubblico impiego ed ha affermato la giurisdizione del giudice
ordinario, trattandosi di diritti soggettivi di natura patrimoniale.
Il Ministero ha proposto ricorso per cassazione, sostenendo che
il servizio prestato dagli ausiliari dell’Arma dei Carabinieri in
sostituzione del servizio di leva sia assimilabile al rapporto di pubblico
impiego. La Suprema Corte (Sezioni Unite Civili n. 7899 del 20 maggio 2003,
Pres. Ianniruberto, Rel. Ravagnani) ha rigettato il ricorso, dichiarando la
giurisdizione del giudice ordinario. Tra le “ferme di leva particolari” – ha
osservato la Corte – sono indicate nel nostro ordinamento giuridico quelle
dei giovani che chiedono di poter svolgere il servizio militare di leva
nell’Arma dei Carabinieri in qualità di ausiliari (legge 24 dicembre 1986 n.
958, art. 6). Trattasi dunque di servizio militare obbligatorio, così come
quello degli ufficiali di complemento di prima nomina e di chiunque altro
sia chiamato a “rendere coattivamente prestazioni a difesa della Patria”.
Esula, quindi, dalle prestazioni rese dai predetti - ha affermato la Corte -
la natura di prestazioni lavorative subordinate, proprio per la mancanza di
quel requisito della spontaneità – rinvenibile nell’elemento essenziale
della volontà negoziale diretta alla costituzione del rapporto di impiego –
dal quale il Ministero ricorrente ritiene invece che si possa prescindere.
Ed al riguardo – ha aggiunto la Corte – devesi rilevare che la domanda
proposta ai fini dell’assunzione quale ausiliario dell’Arma dei Carabinieri,
al pari della domanda di partecipazione al corso per allievi ufficiali di
complemento, non presenta alcun profilo di spontaneità né di idoneità alla
costituzione del rapporto, ma è soltanto espressione di una scelta tra le
possibili modalità di adempimento del servizio militare comunque dovuto.
Nei casi ora considerati – ha concluso la Corte – è piuttosto
configurabile un rapporto di servizio, che, in generale, non è
necessariamente connesso con un rapporto di pubblico impiego, come, nella
specie, per la mancanza del requisito volontaristico, e comunque si
caratterizza per l’esistenza di una relazione funzionale – tra soggetto
obbligato e Amministrazione – che implica la partecipazione del medesimo al
conseguimento dei fini pubblici, previo il suo inserimento nell’apparato
organico dell’ente; è pertanto esclusa l’esistenza di una controversia
sussimibile tra quelle espressamente devolute alla giurisdizione esclusiva
del giudice amministrativo, e, quindi, vertendosi in materia di diritti
soggettivi di natura patrimoniale, fatti valere nei confronti della P.A.,
deve essere affermata la giurisdizione del giudice ordinario.