REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

N.188/2009

Reg.Dec.

N. 7371 Reg.Ric.

ANNO   2003

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) ha pronunciato la seguente

DECISIONE

sul ricorso in appello n. 7371/03 proposto dal signor @@@@@@@ @@@@@@@ @@@@@@@ rappresentato e difeso dall’Avv. -

contro

IL MINISTERO DELL’INTERNO, costituitosi in giudizio, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato ed elettivamente domiciliato ex lege presso la stessa in Roma, Via dei Portoghesi n. 12

per l'annullamento

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia, sede di Bari, Sez. I, n. 1349 del 21.3.2003;

     Visto il ricorso con i relativi allegati;

     Visto l'atto di costituzione in giudizio della parte appellata;

     Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;

     Visti gli atti tutti della causa;

     Relatore, alla pubblica udienza del 18 novembre 2008, il Consigliere -

     Udito l’Avv. dello Stato -

     Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue:

FATTO E DIRITTO

     Attraverso l’atto di appello in esame, notificato il 25.7.2003, si contestava la sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia, sede di Bari, sez. I, n. 1349 del 21.3.2003, con la quale veniva respinto il ricorso del sig. @@@@@@@ @@@@@@@ @@@@@@@ – dipendente della Polizia di Stato con la qualifica di vice perito telefonico – avverso il diniego di equo indennizzo, emesso con atto n. @@@@@@@/96, notificato il 21.6.1996. Le ragioni del predetto diniego erano enunciate – in conformità al parere espresso dal Comitato per le pensioni privilegiate ordinarie (CPPO) – con riferimento alle caratteristiche dell’infermità (“gastrite erosiva”) riscontrata nel dipendente in questione, trattandosi di “patologia che si manifesta in soggetti costituzionalmente predisposti per una specifica e particolare labilità del sistema neurovegetativo…”, con conseguente ininfluenza dell’”attività espletata dall’interessato….in senso causale o concausale efficiente e determinante, perché non caratterizzata da specifici, gravosi e prolungati disagi di carattere ambientale o alimentare”.

     Nella citata sentenza si rilevava la palese infondatezza delle censure dedotte, censure concernenti l’omessa pronuncia del CPPO entro 30 giorni, l’omessa motivazione circa la divergenza del parere anzidetto da quello della Commissione medica ospedaliera (CMO), il mancato previo annullamento di quest’ultimo parere e la richiesta – asseritamene contraddittoria – dell’Amministrazione al Collegio medico legale presso il Ministero della difesa di fornire un parere: secondo il Giudice di primo grado, infatti, il termine (non di 30 ma di 540 giorni, secondo la regolamentazione adottata dal Ministero dell’interno con D.M n. 284 del 2.2.1993), per l’adozione dell’atto rimesso alla competenza del CPPO, sarebbe stato nella fattispecie rispettato; tale atto, inoltre, avrebbe dovuto ritenersi sufficientemente motivato e correttamente non sarebbe stato preceduto dall’annullamento del contrastante parere della CMO, essendo diversi i fini e la valenza degli atti in questione; quanto all’ulteriore richiesta di parere al Collegio medico legale sopra citato, non avrebbe potuto che ravvisarsi a tale riguardo una “iniziativa lodevole ed ispirata alla responsabile preoccupazione di acquisire ulteriori elementi di conoscenza e di giudizio, in presenza di avvisi di segno contrario, resi da organi tecnici intervenuti nei due distinti e successivi procedimenti”.

     In sede di appello, i motivi di gravame già sopra sintetizzati venivano ribaditi, con le seguenti specificazioni e integrazioni:

1) alla data di proposizione dell’istanza (26.3.1992) il regolamento ministeriale sui tempi della procedura in questione non era ancora stato emanato, con conseguente applicabilità della disposizione generale di cui all’art. 2 della legge n. 241/90; l’art. 9, comma 2 del D.P.R. n. 349/1994, inoltre, prevede un termine di 19 mesi per la conclusione del procedimento: un termine abbondantemente superato nel caso di specie, risultando emesso il diniego impugnato solo il 17.5.1996;

2) il CPPO – dopo avere confermato la sussistenza degli eventi e confermato la patologia lamentata dall’interessato – avrebbe immotivatamente escluso il nesso di causalità, senza considerare l’obbligo del datore di lavoro di “adottare le misure necessarie… per tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”; in tale situazione, l’Amministrazione non avrebbe potuto “semplicemente uniformarsi ad uno dei due pareri, ma avrebbe dovuto motivare sulle ragioni in forza delle quali...” si dovesse ritenere preferibile “il parere del CPPO, che non è organo tecnico, a quello della CMO”;

3) non sarebbe stata comprensibile la ragione per cui, “seguendo l’iter logico argomentativo” contestato, il giudizio reso dalla CMO avrebbe avuto “valore definitivo solo a determinati fini, quali le spese di cura e la misura degli assegni durante il periodo di aspettativa, ma non anche ai fini dell’equo indennizzo”, mentre sarebbe sembrato logico attribuire alla CMO il compito di accertare l’infermità e le relative cause ed alla CPPO la “funzione liquidativa del quantum della prestazione previdenziale, mediante iscrizione dell’infermità accertata ad una scala di categorie indennizzabili”;

4) il diniego di equo indennizzo in base al parere del CPPO sarebbe stato illegittimo senza previo annullamento del discordante parere della CMO, dato il carattere provvedimentale impresso a quest’ultimo dall’art. 5 bis della legge 20.11.1987, n. 472;

5) la condanna del ricorrente, in primo grado di giudizio, al pagamento delle spese giudiziali, avrebbe dovuto ritenersi contrastante con l’art. 152 disp. att. c.p.c., in forza del quale “il lavoratore, soccombente nei giudizi promossi per ottenere prestazioni previdenziali non è assoggettato al pagamento di spese, competenze ed onorari a favore degli Istituti di assistenza e Previdenza, a meno che la pretesa non sia manifestamente infondata e temeraria”.

     Premesso quanto sopra, il Collegio stesso è chiamato innanzi tutto ad effettuare – seguendo un ordine di priorità logica, ai fini della decisione da assumere - una duplice valutazione, circa il rapporto intercorrente fra il parere della Commissione Medica Ospedaliera (CMO) e quello, in ipotesi divergente, del Comitato per le Pensioni Privilegiate Ordinarie (CPPO), in materia di dipendenza da causa di servizio di un’infermità, nonchè in merito alla congruità del secondo di tali pareri nel caso di specie.

     Sotto il primo profilo, il Collegio condivide il pre@@@@@@@ indirizzo giurisprudenziale, secondo cui l’art. 5 bis del D.L. 21.9.1987, n. 387, nel testo aggiunto dalla legge di conversione 20.11.1987, n. 472 - ove stabilisce che i giudizi delle Commissioni Medico-Ospedaliere sono da considerare definitivi - deve  considerarsi riferito ad alcuni particolari fini, quali la misura dell’assegno durante il periodo di aspettativa, le spese di cura ecc., mentre tale carattere definitivo non investe anche il riconoscimento della dipendenza di un’infermità da causa di servizio, ai fini specifici della pensione privilegiata e dell’equo indennizzo, fini - questi ultimi - per i quali occorre sempre, in quanto esplicitamente previsto, il parere del CPPO (cfr. in tal senso Corte dei Conti, sez. contr. Stato, 18.2.1988, n. 1895; Cons. Stato, sez. II, 14.3.1990, parere n. 1232; Cons. Stato, sez. VI, 11.6.1990, n. 587 e 19.5.1989, n. 662). In base al principio sopra indicato, deve ritenersi che il procedimento, attivato per la concessione dell’equo indennizzo, abbia carattere parzialmente autonomo rispetto a quello nel cui ambito, per le contingenti finalità sopra specificate, è previsto il parere della citata CMO. Quando - dopo il riconoscimento della dipendenza da causa di servizio di un’infermità, sulla base soltanto di tale parere - venga presentata domanda di pensione privilegiata o di equo indennizzo, si apre una fase procedurale nuova, nell’ambito della quale anche la predetta dipendenza viene assoggettata a riesame, ad opera di un diverso organo consultivo particolarmente qualificato (CPPO), che può discostarsi dalle conclusioni precedentemente raggiunte al riguardo, senza che ciò implichi preventivo annullamento degli atti antecedentemente emanati, in quanto - come già ricordato - aventi diversa diretta finalizzazione. Non va trascurato, peraltro, che le valutazioni della CMO e degli altri organi sanitari, che intervengono nella fase iniziale del procedimento, vengono conclusivamente assorbite nel giudizio finale del CPPO, competente a valutare non solo gli aspetti medico-legali della patologia, ma anche tutti gli altri fattori individuati dall’ordinamento come rilevanti ai fini del decidere, ivi comprese le specifiche condizioni di lavoro del dipendente, ed i preponderanti rapporti di concausalità.

     Deve ritenersi, in conclusione, che in presenza di un parere negativo del CPPO, non conforme a quello in precedenza emesso - per più ridotte finalità - dalla CMO, l’Amministrazione possa aderire al primo, purchè la motivazione del medesimo sia di per sè ampia e completa, tanto da rendere ragione del denegato riconoscimento della dipendenza da causa di servizio dell’infermità riscontrata. Ove poi, come nel caso di specie, l’Amministrazione abbia ritenuto opportuno acquisire l’ulteriore parere del Collegio medico legale presso il Ministero della difesa, tale decisione non può certo essere assunta come indice di illogicità e contraddittorietà nell’operato dell’Amministrazione stessa, dovendosi al contrario ritenere l’iniziativa – come osservato nella sentenza appellata – “ispirata dalla responsabile preoccupazione di acquisire ulteriori elementi di conoscenza e di giudizio, in presenza di avvisi di segno contrario resi da organi tecnici , intervenuti nei due distinti e successivi procedimenti”: una decisione non obbligatoria quindi, per le ragioni già in precedenza illustrate, ma comunque assunta nell’interesse dell’appellante e da quest’ultimo non censurabile. Appaiono da respingere, per le ragioni indicate, la seconda, la terza e la quarta delle argomentazioni difensive sopra sintetizzate, riferite al contrasto fra i pareri della CMO e del CPPO (mentre deve ritenersi ex se pre@@@@@@@ nella procedura di equo indennizzo, come in precedenza illustrato, il parere specifico prescritto per tale procedura, ovvero quello del CPPO), nonché la censura di eccesso di potere per contraddittorietà, riferita all’ulteriore acquisizione di un parere non obbligatorio. Quanto alla motivazione del provvedimento negativo, non può che riconoscersi come la stessa sia riconducibile – “per relationem” –  ai due esaurienti e concordi pareri del CPPO e del Collegio medico legale sopra citati, tali da assorbire e superare le diverse considerazioni, fatte proprie dalla CMO e da consentire, pertanto, il rigetto dell’istanza di equo indennizzo. Non appare indice di eccesso di potere il fatto che l’apprezzamento negativo del CPPO risulti frutto di  valutazione dei medesimi dati istruttori, già con differente esito esaminati dalla CMO: quanto sopra, sia perché – come già esposto nell’ambito della presente decisione – il più volte citato CPPO opera una valutazione particolarmente qualificata, nell’ambito di una procedura disciplinata in modo autonomo dall’ordinamento (senza che risulti necessaria l’esplicitazione dei motivi della divergenza da altre valutazioni, espresse da altri Organi consultivi per diversi e più ridotti fini), sia perché esiste un’ulteriore conferma (insindacabile nel merito) sul piano tecnico-discrezionale, circa la riconducibilità della patologia lamentata dall’appellante a “squilibri del sistema neuroendocrino, che presentano una base endogeno-costituzionale e che non possono pertanto essere influenzati dall’attività lavorativa dell’individuo interessato”.

     Tenuto conto, quindi, dell’ampia discrezionalità e della non dimostrata irragionevolezza delle valutazioni compiute dall’Organo tecnico consultivo, non può disconoscersi la legittimità del diniego, con cui l’Amministrazione ha fatto proprie le argomentate motivazioni degli organi tecnici sopra indicati. Quanto alla tardività del diniego stesso, contestata sia in primo grado di giudizio che in appello, il Collegio condivide le conclusioni negative della sentenza appellata, anche se in base ad una motivazione parzialmente diversa. E’ vero, infatti, che il regolamento sui tempi della procedura in questione, emanato con D.M. 2.2.1993, n. 284, risulta posteriore alla data di presentazione dell’istanza (26.3.1992), di modo che avrebbe dovuto considerarsi vigente, a tale data, il termine di 90 giorni di cui all’art. 2, comma 3, della legge n. 241/1990; è anche vero, tuttavia, che tale termine non può che avere carattere ordinatorio, idoneo a consentire all’interessato i rimedi sollecitatori ed eventualmente risarcitori previsti dall’ordinamento, ma non anche una fattispecie di silenzio-assenso, o di impossibilità per l’Amministrazione di provvedere. Al riguardo sembra opportuno ricordare che solo il comma 6 ter dell’art. 3 della legge n. 80/2005 sostituisce l’art. 20 della legge n. 241/90, rendendo residuale (in quanto riferito solo a determinate materie, ovvero conseguente ad esplicita disposizione di legge) l’equiparazione del silenzio ad inadempimento: è infatti previsto che – al di fuori delle predette ipotesi – l’inerzia dell’Amministrazione “nei procedimenti ad istanza di parte per il rilascio di provvedimenti amministrativi” sia equiparata a tacito assenso. Quest’ultima fattispecie, peraltro, oltre ad essere maturata successivamente all’emanazione dell’atto impugnato, deve considerarsi eccezionale, avendo di regola l’Amministrazione l’obbligo di concludere il procedimento con un provvedimento espresso ed esistendo situazioni, in cui non si può effettivamente prescindere da una concreta ponderazione – da parte dell’Amministrazione stessa – degli interessi coinvolti.

     Il ricorso appare dunque, conclusivamente, da respingere, per quanto riguarda le censure prospettate in ordine al provvedimento impugnato; resta da valutare l’argomentazione difensiva, secondo cui la il ricorrente non avrebbe potuto essere condannato, in primo grado di giudizio, al pagamento delle spese giudiziali, in applicazione dell’art. 152 disp. att. c.p.c., in forza del quale “il lavoratore, soccombente nei giudizi promossi per ottenere prestazioni previdenziali non è assoggettato al pagamento di spese, competenze ed onorari a favore degli Istituti di assistenza e Previdenza, a meno che la pretesa non sia manifestamente infondata e temeraria”. Anche quest’ultima argomentazione non appare condivisibile, avendo il TAR ravvisato, appunto, la “palese infondatezza del ricorso”, tenuto conto della applicabilità, nel caso di specie, di disposizioni normative già oggetto di consolidata giurisprudenza. Nemmeno sotto tale ultimo profilo, pertanto, il Collegio ritiene che la sentenza in esame debba essere riformata, pur ravvisando il Collegio stesso giusti motivi per la compensazione delle spese giudiziali nella presente fase di appello, nella quale l’Amministrazione non ha prodotto nuove allegazioni difensive.

P.Q.M.

     Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, RESPINGE l’appello n. 7371/03, specificato in epigrafe; COMPENSA le spese giudiziali.

     Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'Autorità amministrativa.

     Così deciso in Roma, il 18 novembre 2008 dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale - Sez.VI - in Camera di Consiglio, con l'intervento dei Signori: