Consiglio di Stato

Commissione Speciale Pubblico Impiego

 

ADUNANZA DELLA COMMISSIONE SPECIALE PUBBLICO IMPIEGO

DEL 5 FEBBRAIO 2001

 

 

N° 1553/2000 – Sezione  II

N.482/2000 –Comm. Spec. P.I.                            

Oggetto

Restitutio in integrum per i periodi di sospensione dal servizio eccedenti la durata della sanzione disciplinare.

Art. 9 della legge 7 febbraio 1990, n. 19, recante norme in materia di modifiche in tema di circostanze, sospensione condizionale della pena e di destituzione dei pubblici dipendenti.

 

 

LA COMMISSIONE SPECIALE PER LE QUESTIONI RELATIVE AL RAPPORTO DI PUBBLICO IMPIEGO

 

Vista la relazione in data 27 luglio 2000, con cui il Ministero delle Finanze ha chiesto il parere del Consiglio di Stato sul quesito in oggetto;

Visto il decreto del Presidente del Consiglio di Stato del 5 dicembre 2000, con cui, ai sensi dell’art. 22 del R.D. 26 giugno 1924 n. 1054, l’esame dell’affare è stato deferito alla Commissione speciale del Pubblico impiego;

Esaminati gli atti ed udito il relatore ed estensore cons. Armando Pozzi;

Premesso

Con la relazione in epigrafe il Ministero delle Finanze, anche  a fronte degli opposti indirizzi interpretativi di questo Consiglio e della Corte dei Conti in tema di sospensione cautelare dal servizio dei pubblici dipendenti, ed in relazione alle disposizioni dell’art. 72 del d. lgs. n. 29/1993, pone  a questo Consiglio il duplice, seguente quesito:

a)      se in materia di reintegrazione patrimoniale del dipendente sospeso cautelarmente  debba prevalere l’orientamento espresso da questo Consiglio soprattutto con il par. della sez. III n. 96/98 ovvero quello, più restrittivo e penalizzante per il dipendente, da ultimo espresso dalla Corte dei Conti con delibera n. 60/99, nella quale si ritiene che in base al chiaro tenore dell’art. 27, comma 7, del c.c.n.l. del comparto ministeri 1994-1996; l’ipotesi di restitutio in integrum valga solo in caso di sentenza di assoluzione con formula piena, mentre nelle altre ipotesi di sentenza di condanna nulla sia dovuto al dipendente a titolo reintegrativo per tutto il periodo di sospensione cautelare; 

b)      se dopo la novella introdotta  dall’art. 72 del d. lgs. n. 29/1993 sia ancora vigente la legge n. 19 del 1990 e se, in caso negativo, debba applicarsi ai procedimenti penali pendenti prima del c.c.n.l. del comparto ministeri 1994-1997 e conclusi in epoca posteriore  il termine di 180 giorni previsto dall’art. 25, comma 8, del medesimo contratto collettivo, per la riattivazione del procedimento disciplinare, in luogo del più breve termine di 20 giorni previsto in via generale dalla normativa contrattuale per la contestazione degli addebiti.

 

CONSIDERATO

            Per rispondere adeguatamente al duplice  quesito posto dall’amministrazione, riguardante i due distinti procedimenti disciplinare e cautelare relativi al pubblico dipendente, occorre esporre il quadro normativo in cui si colloca la tematica della sospensione cautelare del dipendente pubblico.

            L’art. 91 del T. U. n. 3 del 1957 disciplinava l’istituto della sospensione cautelare, impropriamente rubricata onnicomprensivamente come “obbligatoria”, del dipendente pubblico in connessione con procedimenti penali, cui quest’ultimo fosse stato sottoposto, prevedendo che in tali ipotesi e  in caso di reato  particolarmente grave, il dipendente potesse essere sospeso dal servizio con decreto del Ministro. Nelle ipotesi, invece, in cui fosse stato emesso mandato od ordine di cattura, l'impiegato doveva essere immediatamente sospeso dal servizio con provvedimento del capo dell'ufficio.

            L’art. 92 disponeva in materia di “sospensione cautelare facoltativa” indipendente dal procedimento penale e connessa al procedimento disciplinare.

            L’art. 96 del medesimo testo unico provvedeva, poi, a disciplinare le modalità di computo della sospensione cautelare “autonoma”, non connessa cioè al procedimento penale, con disposizione del seguente tenore: “Qualora a seguito del procedimento disciplinare venga inflitta all'impiegato la sospensione dalla qualifica, il periodo di sospensione cautelare deve essere computato nella sanzione.

“Se la sospensione dalla qualifica viene inflitta per durata inferiore alla sospensione cautelare sofferta o se viene inflitta una sanzione minore o se il procedimento si conclude con il proscioglimento dell'impiegato, debbono essere corrisposti all'impiegato tutti gli assegni non percepiti, escluse le indennità o compensi per servizi e funzioni di carattere speciale o per prestazioni di carattere straordinario, per il tempo eccedente la durata della punizione o per effetto della sospensione”.

            Per la sospensione collegata alle vicende penali disponeva invece il successivo art. 97, con le seguenti disposizioni rubricate come  revoca della sospensione: “Quando la sospensione cautelare sia stata disposta in dipendenza del procedimento penale e questo si concluda con sentenza di proscioglimento o di assoluzione passata in giudicato perché il fatto non sussiste o perché l'impiegato non lo ha commesso, la sospensione è revocata e l'impiegato ha diritto a tutti gli assegni non percepiti, escluse le indennità per servizi e funzioni di carattere speciale o per prestazioni di lavoro straordinario e salva deduzione dell'assegno alimentare eventualmente corrisposto.

“Se il procedimento penale si conclude con sentenza di proscioglimento o di assoluzione passata in giudicato per motivi diversi da quelli contemplati nel comma precedente, la sospensione può essere mantenuta qualora nei termini previsti dal successivo comma venga iniziato a carico dell'impiegato procedimento disciplinare.

“Il procedimento disciplinare deve avere inizio, con la contestazione degli addebiti, entro 180 giorni dalla data in cui è divenuta irrevocabile [rectius, in cui è depositata:  C. Cost.,  25 luglio 1995, n. 374] la sentenza definitiva di proscioglimento od entro 40 giorni dalla data in cui l'impiegato abbia notificato all'amministrazione la sentenza stessa .

“La sospensione cessa se la contestazione degli addebiti non ha luogo entro il detto termine ed il procedimento disciplinare, per i fatti che formarono oggetto del procedimento penale, non può più essere iniziato. In tal caso l'impiegato ha diritto agli assegni previsti nel primo comma.

“Qualora il procedimento disciplinare sia stato sospeso a seguito di denuncia all'autorità giudiziaria, la scadenza del termine predetto estingue altresì il procedimento disciplinare che non può più essere rinnovato”.

            Su tale tessuto normativo si è innestata la disposizione dell’art. 9 della L. 7 febbraio 1990, n. 19, contenente modifiche in tema di circostanze, sospensione condizionale della pena e destituzione dei pubblici dipendenti, il quale, dopo avere disposto, in ossequio alla sentenza della Corte Costituzionale n. 971 del 1988, che il pubblico dipendente non può essere destituito di diritto a seguito di condanna penale, abrogando ogni contraria disposizione di legge, ha disposto, al comma 2, che la destituzione può sempre essere inflitta all'esito del procedimento disciplinare che deve essere proseguito o promosso entro centottanta giorni dalla data in cui l'amministrazione ha avuto notizia della sentenza irrevocabile di condanna e concluso nei successivi novanta giorni.

La norma aggiunge che quando vi sia stata sospensione cautelare dal servizio a causa del procedimento penale, la stessa conserva efficacia, se non revocata, per un periodo di tempo comunque non superiore ad anni cinque,  decorso il quale la sospensione è revocata di diritto.

            Su tale disciplina è intervenuta ancora la Corte costituzionale, con  sentenza 24 ottobre 1995, n. 447, dichiarando non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 9, comma 2, sollevata in riferimento agli articoli 3, 4 e 97 della Costituzione, atteso che il presunto vulnus all’art. 97 Cost. derivante dalla necessità di riassumere, allo scadere del quinquennio, il dipendente sospeso cautelarmente ex. art. 91 T.U. n. 3/1957 veniva compensato dalla possibilità di attivare la sospensione facoltativa ex art. 92 stesso T.U.

Successivamente la  Corte, chiamata a pronunciarsi sulla stessa questione senza addurre argomenti nuovi, con  ordinanza 8 maggio 1996, n. 149, ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale e con successiva  sentenza 28 maggio 1999, n. 197 (seguita dall’ordinanza 2 marzo 2000, n. 67) ha dichiarato non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale sempre dell'art. 9, comma 2.

Non pare inutile ricordare che nelle ricordate sentenze n. 447/1995 e n. 197/1999 la Corte rilevò che il termine quinquennale per la revoca automatica della sospensione non appariva irragionevole con riferimento all’interesse del dipendente di non trovarsi esposto sine die alla sospensione ed al procedimento disciplinare e che i termini introdotti dalla legge n. 19  per la conclusione del procedimento disciplinare si giustificavano con le acquisite risultanze del processo penale utilizzabili dall’amministrazione (eccetto la sentenza su patteggiamento per la quale valevano i termini ordinari del t.u. n. 3/1957)  e miravano a garantire, attraverso la certezza dei tempi del procedimento, la posizione del dipendente nonché il principio di buon andamento, che impone, tra l’altro, il sollecito espletamento delle procedure disciplinari.

In tale contesto sono intervenuti i c.c.n.l. dei vari comparti del pubblico impiego per il quadriennio giuridico 1994-1997, che hanno tutti dettato disposizioni in materia disciplinare, disapplicando altresì – in conformità all’autorizzazione conferita dall’art. 72 del d. lgs. 29/1993 - le omologhe norme del T.U. n. 3 del 1957 nonché in materia di sospensione cautelare.

 Prendendo a parametro il comparto ministeriale (ma identiche disposizioni si ritrovano per tutti gli altri comparti), il contratto collettivo, la cui sottoscrizione è stata autorizzata con il Provv. P.C.M. 3 marzo 1995, ha distintamente disciplinato all’art. 26 l’ipotesi della sospensione cautelare in corso di procedimento disciplinare ed all’art. 27 la sospensione cautelare in caso di procedimento penale.

Quanto alla prima, si prevede che ove l'Amministrazione riscontri la necessità di espletare accertamenti su fatti addebitati al dipendente a titolo di infrazione disciplinare punibili con la sanzione della sospensione dal servizio e dalla retribuzione, essa può disporre, nel corso del procedimento disciplinare, l'allontanamento dal lavoro per un periodo di tempo non superiore a trenta giorni, con conservazione della retribuzione.

Quando il procedimento disciplinare si conclude con la sanzione disciplinare della sospensione dal servizio con privazione della retribuzione, il periodo dell'allontanamento cautelativo deve essere computato nella sanzione, ferma restando la privazione della retribuzione limitata agli effettivi giorni di sospensione irrogati.

Quanto alla seconda è previsto, oltre la sospensione obbligatoria in connessione con misure restrittive della libertà personale, che il dipendente può essere sospeso dal servizio con privazione della retribuzione anche nel caso in cui venga sottoposto a procedimento penale quando sia stato rinviato a giudizio per fatti direttamente attinenti al rapporto di lavoro o comunque tali da comportare, se accertati, l'applicazione della sanzione disciplinare del licenziamento, ai sensi dell'articolo 25, commi 4 e 5 del medesimo contratto collettivo. La sospensione facoltativa può anche essere disposta alla cessazione dello stato di restrizione della libertà personale, prolungandosi il periodo di sospensione del dipendente fino alla sentenza definitiva, alle medesime condizioni.

Lo stesso articolo, facendo salvo l'obbligo di sospensione obbligatoria dalla funzione o dall'ufficio ricoperti  nei casi di condanna o rinvio a giudizio o misura di prevenzione previsti dall'art. 15, comma 1, della legge 19 marzo 1990, n. 55, dispone che nei casi da esso previsti si applica quanto stabilito, in tema di rapporti tra procedimento disciplinare e procedimento penale, dall'articolo 25, commi 6, 7 e 8 del medesimo contratto  ( i quali fissano i principi, rispettivamente, di contestualità e pregiudizialità del procedimento penale  rispetto a quello disciplinare per le infrazioni costituenti gravi fatti illeciti di rilevanza penale,  di sospensione necessaria, ove l’amministrazione ne venga a conoscenza,  del procedimento disciplinare ove attivato prima del processo penale e fino alla sentenza definitiva, di riattivazione del procedimento disciplinare entro 180 giorni dalla notizia della sentenza stessa) .

Quanto agli aspetti economici, la norma contrattuale prevede che ( art. 27, comma 6) al dipendente sospeso  sono corrisposti un'indennità pari al 50% della retribuzione fissa mensile e gli assegni del nucleo familiare, con esclusione di ogni compenso accessorio, comunque denominato, anche se pensionabile.

Ripetendo le previsioni dell’art. 97 del t.u. del 1957 il comma 7 dell’art. 27 citato stabilisce che in caso di sentenza definitiva di assoluzione o proscioglimento con formula piena, quanto corrisposto nel periodo di sospensione cautelare a titolo di indennità verrà conguagliato con quanto dovuto al lavoratore se fosse rimasto in servizio.

Infine, il comma 8 dispone che in caso di sospensione cautelare (evidentemente facoltativa) a causa di procedimento penale, la stessa conserva efficacia, se non revocata, per un periodo di tempo comunque non superiore a cinque anni. Decorso tale termine la sospensione cautelare è revocata di diritto e il dipendente viene riammesso in servizio, rimanendo comunque il procedimento disciplinare  sospeso sino all'esito del procedimento penale. La norma contrattuale non ripete tuttavia la ricordata disposizione dell’art. 97, comma 3, del t.u., in tema di effetti patrimoniali dell’estinzione del potere disciplinare per decorrenza dei termini.

La nuova disciplina contrattuale, che si riallaccia alla previsione dell’art. 59 del d. lgs.  n. 29/1993, pone non facili problemi, tenuto oltretutto conto che il contratto collettivo ha disposto – andando oltre la previsione disapplicativa dell’art. 74, comma 3, d. lgs. n. 29/1993 relativa a soli artt. 100-123 del testo unico del 1957 -  la disapplicazione di tutte le norma del t.u. n. 3/1957 in materia disciplinare e cautelare: artt. 78-87, 91-99 e 134, espressamente richiamati tra le norme “disapplicate” dall’art. 43 del contratto collettivo.

Il primo problema introdotto dalla disciplina contrattuale, come evidenziato nel quesito dell’amministrazione, è quello relativo alla sopravvivenza del ricordato art. 9, comma 2, della legge n. 19/1990, il quale ha stabilito, per l’attivazione e la conclusione del procedimento disciplinare termini diversi da quelli stabiliti in via generale dall’art. 24, commi 2 e 6, del citato contratto collettivo. Termini che evidentemente assumono rilevanza anche per gli aspetti cautelari, atteso che l’estinzione del procedimento disciplinare per mancato rispetto dei predetti termini comporta la decadenza del sospensione in corso. 

La domanda  viene motivata con riferimento alla norma transitoria contenuta nel citato art. 72 del d. lgs. n. 29/1993, secondo cui “salvo che per le materie di cui all'articolo 2, comma 1, lettera c), della legge 23 ottobre 1992, n. 421, gli accordi sindacali recepiti in decreti del Presidente della Repubblica in base alla legge 29 marzo 1983, n. 93, e le norme generali e speciali del pubblico impiego, vigenti alla data di entrata in vigore del presente decreto e non abrogate, costituiscono, limitatamente agli istituti del rapporto di lavoro, la disciplina di cui all'art. 2, comma 2. Tali disposizioni sono inapplicabili a seguito della stipulazione dei contratti collettivi disciplinati dal presente decreto in relazione ai soggetti e alle materie dagli stessi contemplati. Le disposizioni vigenti cessano in ogni caso di produrre effetti dal momento della sottoscrizione, per ciascun ambito di riferimento, del secondo contratto collettivo.

Al riguardo vale rilevare che la forza delegificante conferita al contratto collettivo dall’art. 72 del d.lgs. n. 29 non è assoluta né tipica.

 Non è assoluta per due motivi: in primo luogo essa è limitata alle materie non ricomprese nell’art. 2, comma 1, lett. C) della legge n. 421/1992, in secondo luogo perché essa è riferita solo ai soggetti ed alle materie ed  ai soggetti espressamente contemplati dagli stessi contratti collettivi.

Non è tipica perché essa si esprime non mediante l’istituto tradizionale dell’abrogazione esplicita od implicita, ma attraverso le formule della disapplicazione e della cessazione di efficacia, peraltro già usate nell’art. 2, comma 3, dello stesso decreto 29.

E’ sulla base di tali osservazioni che alla domanda posta può rispondersi nel senso che la legge n. 19 del 1990, per la parte non assorbita dalle analoghe previsioni del contratto, non può ritenersi venuta meno.

Non potendo operare, per quanto detto, l’istituto dell’abrogazione implicita – espressamente rifiutato dal legislatore anche per parare i problemi di costituzionalità che essa avrebbe comportato ove rimessa ad un contratto collettivo – le previgenti disposizioni legali sulla cui efficacia ha inciso il contratto collettivo non possono essere che quelle espressamente ridisciplinate dallo stesso.

 In secondo luogo è da osservare che tra le norme espressamente disapplicate dall’art. 43 del contratto collettivo non è indicata la legge n. 19/1990.

 Tale mancanza appare significativa per due ordini di ragioni.

 In primo luogo, se attraverso anche l’indicazione espressa delle previgenti norme legislative disapplicate la contrattazione assolve, come rilevato in dottrina, alla stessa funzione di regolazione posseduta dai vari precetti costitutivi, la predetta elencazione non può ritenersi meramente indicativa, assolvendo invece ad una finalità  ricognitiva assai importante per la certezza dei rapporti giuridici, la  quale presuppone un potere  costitutivo della disciplina del rapporto di lavoro che si estende anche all’individuazione delle norme non più operanti.

In secondo luogo, poiché la possibilità di disapplicazione ha un duplice limite per materia  (uno negativo derivante dalla legge n. 421/1992, l’altro positivo connesso agli aspetti del rapporto concretamente disciplinati) ove un aspetto della regolamentazione rientri nel primo ambito - limite ovvero non rientri nel secondo, essa deve ritenersi sopravvissuta all’intervento della disciplina negoziale.

Ora,  da un lato, la materia della sospensione cautelare sembra poter rientrare in quelle non sicuramente ed integralmente  privatizzabili (ammesso che quella disciplinare lo fosse in base ai criteri direttivi della legge n. 421), essendo nota la sua natura non sanzionatoria e la sua finalità tesa a tutelare tipici interessi amministrativi di credibilità dell’amministrazione e di fiducia dei cittadini nelle istituzioni e negli apparati pubblici riportabili nell’ambito del principio costituzionale di buon andamento [cfr. C. Cost., 3 giugno 1999, n. 206, in materia di costituzionalità della sospensione obbligatoria dei pubblici impiegati ex art. 15, comma 4 septies della legge n. 55/1990].

D’altro canto, la disciplina contrattuale della sospensione cautelare non appare esaustiva  né innovativa, in parte ripetendo le formule legislative circa la durata massima della sospensione e del termine di 180 giorni per la riattivazione del procedimento disciplinare dopo la sentenza di condanna, in parte omettendo di provvedere su numerosi e delicati aspetti del procedimento cautelare, già disciplinati dal testo unico e come anche emersi dalla cospicua giurisprudenza sul tema, tra cui quello, qui rilevante,  dell’estinzione del potere disciplinare per decorrenza dei termini, già previsto dall’art. 97, comma 4, del testo unico del 1957 e dei relativi effetti sul trattamento economico del dipendente ( cfr. anche le problematiche derivanti dalla sentenza penale non di assoluzione con formula piena,  dall’estinzione o annullamento del procedimento disciplinare, etc.). La stessa disciplina contrattuale non manca d’altra parte di ammettere implicitamente la specialità della materia rispetto agli interessi coinvolti, rinunciando a dettare espresse prescrizioni per aspetti di rilevanza pubblicistica, come quelli di sospensione obbligatoria per i casi di cui alla legge n. 55 del 1990, cui si fa espresso rinvio come innanzi visto.

Le lacune della normativa pattizia nella materia in oggetto sono rimaste anche a seguito dei più recenti interventi negoziali (c.d. “code contrattuali”) posti in essere nel quadro del processo di completamento della privatizzazione contemplato dall’art. 35, comma 2, del c.c.n.l. comparto ministeri  1998-2001.

In tale contesto può dunque concludersi nel senso che  la disciplina della legge n. 16 del 1990, ove non riproposta o assorbita dalle disposizioni contrattuali deve ritenersi ancora in vigore, con la conseguente applicazione, per quel che qui interessa in relazione al quesito posto, del termine di 180 giorni per l’attivazione (o la ripresa, potendosi dare ipotesi che il procedimento disciplinare fosse già stato iniziato al momento della conoscenza del procedimento penale per gli stessi fatti disciplinarmente perseguiti) dei procedimenti disciplinari successivamente alla sentenza penale, anche se il relativo processo fosse iniziato prima del contratto del 1995 e del più breve termine di  conclusione del procedimento di 90 giorni, la cui abbreviazione rispetto all’ordinario termine di 120 giorni stabilito dall’ art. 24, comma 6, del contratto collettivo si spiega con l’avvenuta acquisizione dei dati istruttori in sede penale [C. Cost., n. 197/1999, cit., sub punto 4 della motivazione].

In definitiva, lo scostamento dal paradigma procedimentale disegnato dall’art. 24 del contratto collettivo del 1995 per effetto del sovrapporsi della disciplina legale si spiega con la specialità del procedimento disciplinare connesso alle risultanze del processo penale ed alla valutazione che discrezionalmente deve effettuare l’amministrazione in relazione a dati acquisiti aliunde e non frutto di un’istruttoria preliminare interna alla stessa amministrazione.

Per converso, il minor termine di 90 giorni fissato dalla stessa normativa di fonte legale rispetto a quello di 120 giorni fissato dalla fonte negoziale si spiega con il maggior termine concesso all’amministrazione per decidere se e perché attivare il procedimento disciplinare sulla base dei predetti dati istruttori “esterni”.

Può scendersi all’altro quesito posto dall’amministrazione, circa i limiti della restitutio in integrum del dipendente sospeso cautelarmente.

 Il quesito trae origine, come esposto in premessa, dai diversi orientamenti emersi, in sede di controllo, dalla Corte dei Conti rispetto a quelli ormai consolidati nell’ambito della giurisprudenza amministrativa.

 Il giudice contabile, infatti, ritiene, in sintesi, che l’interruzione del rapporto sinallagmatico inerente al rapporto di lavoro e conseguente alla sospensione cautelare in dipendenza di procedimento penale non pienamente favorevole al dipendente è subita dall’amministrazione come factum principis ed è conseguenza diretta del fatto illecito del dipendente, per cui in caso di sentenza non di assoluzione con formula piena (art. 27, comma 7, c.c.n.l. comparto ministeri 1994 - 1997) nulla sia dovuto al dipendente oltre l’indennità del 50% della retribuzione fissa mensile percepita dal dipendente stesso nel periodo di sospensione [C. Conti, sez. contr. Stato, 25 giugno 1999, n. 60/99; n. 17 febbraio 1998, 23/98; 16 aprile 1992, n. 69].

Questo Consiglio, oltre a quanto già ritenuto in sede consultiva con il parere della sez. III, 13 luglio 1998, n. 96/98, richiamato dall’amministrazione nella sua relazione, ha invece ritenuto che nel caso in cui l’amministrazione non si sia avvalsa delle prestazioni del dipendente sottoposto a sospensione cautelare, a questo non debbano essere corrisposti gli emolumenti non pagati per il periodo corrispondente a quello per il quale il dipendente risulti condannato in sede penale ad una pena detentiva, anche se non concretamente eseguita [Sez. V, 12 gennaio 2000, n. 169; 13 marzo 2000, n. 1308; 10 luglio 2000, n. 3848; Sez. VI, 17 ottobre 2000, n. 5540; cfr. anche Cons. Giust. Sic., 22 settembre 1999, n. 392].

Questo indirizzo del Consiglio di Stato trae origine da un orientamento espresso dall’Adunanza Plenaria del medesimo Consiglio, 16 giugno 1999, n. 15, successiva alla ricordata delibera n. 60/99 della Corte dei Conti.

 L’Adunanza, prendendo atto del contrasto insorto in seno alle sezioni giurisdizionali e del diverso orientamento espresso dai Giudici Contabili, ha ritenuto che:

-         i rapporti tra artt. 96 e 97 del t. u. n. 3/1957 non sono (erano, vista l’intervenuta disapplicazione delle predette norme) di regola ed eccezione: le due norme operano su piani distinti, quello strettamente disciplinare e quello penale con riflessi disciplinari;

-         conseguentemente, la sospensione cautelare connessa a procedimento penale sottostà alla regola che se il procedimento disciplinare si estingue per mancata attivazione entro il termine di 180 giorni, non scatta la reintegrazione nell’intero trattamento economico, come previsto per le ipotesi di sentenze assolutorie piene dal primo comma dell’articolo 97, che privano di ogni titolo giuridico la sospensione cautelare, ma la reintegrazione viene depurata o dedotta degli importi corrispondenti al periodo della pena detentiva inflitta dal giudice penale, ancorché essa non debba essere concretamente scontata.

Corollario di tale impostazione è che quando alla condanna penale segua tempestivamente anche il procedimento disciplinare, in tale ipotesi scatti il meccanismo aggiuntivo dell’art. 96, e cioè che il limite alla restitutio in integrum sia duplice: quello corrispondente al periodo detentivo irrogato seppure non scontato e quello corrispondente al periodo sospensivo sanzionatorio irrogato.

Per converso, ove alla sentenza di condanna non segua il procedimento disciplinare la sospensione cautelare (facoltativa) viene a perdere, con efficacia ex tunc, i suoi effetti per mancanza sopravvenuta di  qualsiasi titolo giuridico che legittimi la sospensione stessa; conseguentemente il dipendente ha diritto alla restituzione delle differenze retributive non percepite, salvi naturalmente gli effetti della sentenza penale di condanna a periodi detentivi, che non si computano agli effetti della restituzione, così come ovviamente ai periodi di detenzione subita, che attengono alla sospensione obbligatoria [cfr.,  Sez. V, 10 luglio 2000, n. 3848].

A tali conclusioni, d’altronde, già era implicitamente pervenuta la precedente Adunanza Plenaria 6 marzo 1997, n. 8, la quale, riconoscendo all’amministrazione il potere - dovere di attivare il procedimento disciplinare anche quando il dipendente fosse  già cessato dal servizio, aveva statuito che:

-         all’esito del processo penale la sospensione cautelare deve essere sostituita da un diverso titolo giuridico costituito dal provvedimento disciplinare;

-         conseguentemente la sorte del provvedimento cautelare è rimessa all’iniziativa dell’amministrazione, cui spetta il potere di valutare, anche ai fini dell’eventuale destituzione, il comportamento del dipendente, onde  regolare in maniera definitiva l’assetto degli interessi provvisoriamente determinato dal provvedimento di sospensione cautelare;

-         in caso di destituzione la sospensione cautelare resta assorbita nel provvedimento di licenziamento, che retroagisce al momento della sospensione.

In definitiva, l’orientamento espresso dal Giudice contabile, seppur mosso da evidenti e condivisibili intenti di contenere i costi rilevanti, anzi spaventosi, delle reintegrazioni patrimoniali connessi alle sospensioni cautelari dal servizio (nella ricordata determinazione n. 60/99 si riferisce di una spesa diretta per reintegrazioni patrimoniali a seguito di sospensioni cautelari di 6 miliardi e 414 milioni per il triennio 1995-1997 per i soli dipendenti del Min. Finanze e di una spesa riflessa di oltre 16 miliardi) , non appare condivisibile in punto di diritto, facendo assumere al provvedimento di sospensione, seppur connesso ad una sentenza di condanna, una portata effettuale definitiva che esso non può avere.

La sentenza di condanna non può costituire il titolo giuridico per stabilizzare , a fini patrimoniali, il provvedimento cautelare, il quale,  come detto, va riportato nell’ambito del procedimento disciplinare.

 La sentenza penale, oltre il caso positivamente disciplinato di assoluzione con formula piena, assume rilevanza autonoma e diretta, al fine degli effetti della sospensione, solo ove l’amministrazione, per scelta consapevole o comportamento negligente, non dia seguito al procedimento disciplinare. Soltanto in tal caso, infatti, il periodo detentivo comminato dal giudice penale costituisce ostacolo per una piena reintegrazione anche se non concretamente scontato, essendo evidente che il giudizio di qualificazione della sospensione e di imputabilità al dipendente della rottura del rapporto sinallagmatico tra le rispettive prestazioni per la parte di tempo coperta dalla condanna è stato fatto dal giudice penale  e non può essere sostituito da un  apprezzamento dell’amministrazione.

            Al di fuori ed oltre tale ipotesi riprendono vigore i principi in tema di rapporti tra sospensione e provvedimento disciplinare, come enunciati, oggi, dall’art. 26, comma 2, del c.c.n.l. 1994 –1997.

            Oltretutto, le argomentazioni della Corte dei Conti possono essere ribaltate sulla base dello stesso presupposto della condanna penale. Infatti, se è vero, da un lato, che il procedimento penale sospende automaticamente quello disciplinare, è altrettanto vero che la sospensione facoltativa dopo quella obbligatoria per detenzione preventiva è il frutto di un’autonoma valutazione e determinazione dell’amministrazione. In tale contesto non appare corretto parlare di una non imputabilità all’amministrazione della interruzione del rapporto sinallagmatico

            A conclusione del ragionamento, la Commissione, per completezza espositiva, non può non rilevare come le ulteriori osservazioni formulate dalla Corte dei Conti a sostegno del proprio indirizzo, e cioè la natura consultiva dell’orientamento espresso da questo Consiglio e, comunque, l’avvenuta devoluzione al giudice ordinario della materia in esame, non sembrano cogliere nel segno.

            In primo luogo, come visto, le opinioni di questo Consiglio sono state espresse anzitutto e principalmente in sede contenziosa e soltanto riproposte in sede consultiva.

            In secondo luogo, la devoluzione al giudice ordinario non può ritenersi idonea a cancellare d’un sol colpo – anche in mancanza, allo stato, di concreti riferimenti giurisprudenziali dei giudici ordinari - i principi di diritto legittimamente e doverosamente formulati da un organo di giurisdizione dotato di competenza decisionale.

            In terzo luogo, non appare conforme ad esattezza che nell’ambito della giurisdizione ordinaria si sia formato un orientamento contrario a quello espresso da questo Consiglio. Infatti, da un lato, va osservato che la materia della sospensione dei lavoratori pubblici non risulta sia mai stata ancora affrontata dalla Corte di Cassazione; dall’altro, le pronunce della stessa Corte di Cassazione in tema di sospensione cautelare dei lavoratori privati – la cui disciplina non si rinviene nelle fonti legali ma solo in quelle negoziali – confermano, al contrario, l’avviso espresso da questo Consiglio, laddove la Corte ha affrontato il tema della liceità del comportamento del datore di lavoro privato che si sia rifiutato di corrispondere gli arretrati relativi al periodo di sospensione, le quante volte il lavoratore sia stato colpito dalla sanzione del licenziamento disciplinare a seguito di sentenza penale di condanna e previo procedimento disciplinare [Cass., 23 gennaio 1998, n. 624; 22 marzo 1996, n. 2517].

 Ed appunto, come innanzi visto, anche questo Consiglio ha ritenuto non restituibili le differenze retributive relative al periodo di sospensione quando il provvedimento disciplinare successivo alla sentenza di condanna abbia comminato la destituzione (oggi licenziamento) disciplinare, che retroagisce al momento della sospensione.

P.Q.M.

La Commissione speciale nelle esposte considerazioni rende il richiesto parere.

 

                                                                                  Per estratto dal verbale

                                                                           Il segretario della Commissione

 

Visto

Il Presidente della Commissione

(Alfonso Quaranta)