T.A.R. Lombardia–Milano – Sez. III - Sentenza 5 marzo 2009, n. 1747 
 
 

REPUBBLICA  ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO 
 

TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE

PER LA LOMBARDIA

MILANO

SEZIONE III   
 

Registro Sentenze:  1747/2009

            Registro Generale:  584/2007  
 

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso 584/2007 proposto da:

@@@@@@@ @@@@@@@

rappresentato e difeso da:

-

-

-

presso

-

 
 

contro

Ministero Dell’Interno 

rappresentato e difeso da:

Avvocatura distr. Dello stato 

con domicilio in MILANO

via Freguglia, 1

presso la sua sede; 
 

per l’annullamento, previa sospensione dell’esecuzione, 
 

del decreto n. 333-D/89100 del Ministero dell’Interno, datato 19.12.2006 e notificato in data 03.01.2007, nonché di tutti gli atti connessi. 
 

Visti gli atti e i documenti depositati con il ricorso;

Vista la domanda di sospensione della esecuzione del provvedimento impugnato, presentata in via incidentale dal ricorrente;

Visto l'atto di costituzione in giudizio di: Ministero Dell’Interno   
 

Udito il relatore Ref. ----uditi altresì i procuratori delle parti presenti come da verbale;

FATTO

 Con ricorso ritualmente notificato il 26 febbraio 2007 e depositato il 19 marzo 2007, il ricorrente, all’epoca dei fatti in servizio presso la Questura di Milano con funzione di assistente di Polizia di Stato operante al quarto turno della sezione volanti dell’ufficio prevenzione generale soccorso pubblico di Milano, ha impugnato il provvedimento del Capo della Polizia con cui è stata lui inflitta la sanzione disciplinare espulsiva della destituzione, adducendo vizi procedimentali e, nel merito, l’infondatezza dei fatti posti a fondamento della sanzione. Tanto premesso, ha chiesto al Tribunale Amministrativo di annullare o riformare il provvedimento impugnato, previa sospensiva, con condanna al risarcimento del danno e vittoria di spese, diritti, onorari.

 Si è costituito in giudizio il Ministero dell’Interno chiedendo il rigetto del ricorso e della domanda incidentale di sospensione.

 All’esito della camera di consiglio del 29 marzo 2007, con ordinanza n. 500 del 2006, il Tribunale Amministrativo ha respinto l’istanza incidentale di sospensione motivando ampiamente sotto il profilo della insussistenza del fumus boni iuris.

 Sul contraddittorio così istauratosi, all’udienza pubblica del 22 gennaio 2009, quindi, la causa è stata discussa e, poi, al fine di approfondire l’esame di alcune specifiche censure, richiamata alla camera di consiglio del 5 febbraio 2009 dove è stata decisa con sentenza definitiva. 
 

DIRITTO

 1. Il ricorso non può essere accolto perché infondato.

 In via preliminare, è opportuno ripercorrere, per quanto di interesse nella presente controversia, i tratti essenziali della disciplina delle sanzioni disciplinari per il personale dell'Amministrazione di pubblica sicurezza contenuta nel decreto del Presidente della Repubblica 25 ottobre 1981, n. 737.

 1.1. L’appartenente ai ruoli dell’Amministrazione della pubblica sicurezza che viola i doveri specifici e generici del servizio e della disciplina indicati dalla legge, dai regolamenti o conseguenti alla emanazione di un ordine, qualora i fatti non costituiscano reato, commette infrazione disciplinare ed è soggetto alle sanzioni del  richiamo orale, richiamo scritto, pena pecuniaria; deplorazione; sospensione dal servizio; destituzione. Le predette sanzioni devono essere graduate in relazione alla gravità delle infrazioni ed alle conseguenze che le stesse hanno prodotto per la Amministrazione o per il servizio ed il provvedimento che infligge la sanzione deve essere motivato (art.1).

 Sotto il profilo procedimentale, ogni superiore è competente a rilevare le infrazioni. Questi, dopo essersi qualificato, deve far constatare la mancanza al responsabile; procedere alla sua identificazione; astenersi, di massima, dal richiamarlo in presenza di altre persone, tranne che le circostanze non impongano l'immediata repressione; in tal caso deve riferirsi unicamente al particolare fatto del momento; dare le eventuali disposizioni atte ad eliminare o ad attenuare le conseguenze della infrazione; inoltrare rapporto sui fatti all'organo competente ad infliggere la sanzione. Il rapporto deve indicare chiaramente, e concisamente tutti gli elementi utili a configurare l'infrazione e non deve contenere alcuna proposta relativa alla specie e all'entità della sanzione (art. 12). Ogni sanzione deve essere inflitta previa contestazione degli addebiti e dopo che siano state sentite o vagliate le giustificazioni dell'interessato. Per infliggere una sanzione più grave del richiamo orale, la contestazione degli addebiti dev’essere fatta per iscritto (art. 14). Essa deve indicare succintamente e con chiarezza i fatti e la specifica trasgressione di cui l'incolpato è chiamato a rispondere. Con lo stesso atto formale l'incolpato dev'essere avvertito che, entro il termine di dieci giorni dalla notifica, egli potrà presentare giustificazioni, documenti o chiedere l'audizione di testimoni o indicare le circostanze sulle quali richiedere ulteriori indagini o testimonianze. L'organo competente ad infliggere la sanzione deve: tener conto di tutte le circostanze attenuanti, dei precedenti disciplinari e di servizio del trasgressore, del carattere, dell'età, della qualifica e dell'anzianità di servizio; sanzionare con maggior rigore le mancanze commesse in servizio o che abbiano prodotto più gravi conseguenze per il servizio, quelle commesse in presenza o in concorso con inferiori o indicanti scarso senso morale e quelle recidive o abituali (art. 13).

 La destituzione, in particolare, consiste nella cancellazione dai ruoli dell'appartenente ai ruoli dell'Amministrazione della pubblica sicurezza la cui condotta abbia reso incompatibile la sua ulteriore permanenza in servizio (art. 7 d.P.R. cit.). La destituzione è inflitta: 1) per atti che rivelino mancanza del senso dell'onore o del senso morale; 2) per atti che siano in grave contrasto con i doveri assunti con il giuramento; 3) per grave abuso di autorità o di fiducia; 4) per dolosa violazione dei doveri che abbia arrecato grave pregiudizio allo Stato, all'Amministrazione della pubblica sicurezza, ad enti pubblici o a privati; 5) per gravi atti di insubordinazione commessi pubblicamente o per istigazione all'insubordinazione; 6) per reiterazione delle infrazioni per le quali è prevista la sospensione dal servizio o per persistente riprovevole condotta dopo che siano stati adottati altri provvedimenti disciplinari; 7) per omessa riassunzione del servizio, senza giustificato motivo, dopo cinque giorni di assenza arbitraria. La destituzione è inflitta con le stesse modalità previste per la sospensione dal servizio.

 L'istruttoria (art. 19 d.P.R. cit.) per irrogare la sospensione dal servizio o la destituzione deve svolgersi attraverso le seguenti fasi: il capo dell'ufficio o il comandante del reparto che abbia notizia di un'infrazione commessa da un dipendente, per la quale sia prevista una sanzione più grave della deplorazione, se il trasgressore appartiene a qualifica dirigenziale o direttiva o, comunque, è in servizio presso il dipartimento della pubblica sicurezza, ne dà comunicazione all'autorità centrale competente a infliggere la sanzione; se invece appartiene al restante personale, informa il questore della provincia in cui lo stesso presta servizio. Le predette autorità, ove ritengano che l'infrazione comporti l'irrogazione della sospensione dal servizio o della destituzione, dispongono che venga svolta inchiesta disciplinare affidandone lo svolgimento ad un funzionario istruttore che appartenga a servizio diverso da quello dell'inquisito, e che rivesta qualifica dirigenziale o direttiva superiore a quella dell'incolpato. Per il funzionario istruttore valgono le norme sulla astensione e sulla ricusazione dei componenti i consigli di disciplina. Egli provvede, entro dieci giorni, a contestare gli addebiti al trasgressore invitandolo a presentare le giustificazioni nei termini e con le modalità di cui all'art. 14 e svolge, successivamente, tutti gli altri accertamenti ritenuti da lui necessari o richiesti dall'inquisito. L'inchiesta dev'essere conclusa entro il termine di quarantacinque giorni, prorogabile una sola volta di quindici giorni a richiesta motivata dell'istruttore. Questi riunisce tutti gli atti in un fascicolo, numerandoli progressivamente in ordine cronologico e apponendo su ciascun foglio la propria firma, e redige apposita relazione, alla quale allega tutto il carteggio raccolto, trasmettendola all'autorità che ha disposto l'inchiesta. Detta autorità, esaminati gli atti, se ritiene che gli addebiti non sussistono, ne dispone l'archiviazione con provvedimento motivato, ovvero li trasmette con le opportune osservazioni, all'organo competente a infliggere una sanzione minore. Qualora gli addebiti sussistano, trasmette il carteggio dell'inchiesta, con le opportune osservazioni, al consiglio di disciplina competente in base al disposto degli articoli 6 e 7.

 Da ultimo, resta fermo che, per quanto non previsto dal predetto decreto in materia di disciplina e di procedura, si applicano, in quanto compatibili, le corrispondenti norme contenute nel testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato, approvato con D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 (art. 31).

Tanto premesso, possono ora esaminarsi partitamente le ragioni di doglianza.

 2. Il Collegio, confermando la delibazione già compiuta in sede cautelare, ritiene che il ricorso debba essere rigettato per i seguenti motivi.

 2.1. In particolare, con riferimento alla dedotta violazione dell’art. 11 del d.P.R. n. 737/1981 (riguardante la mancata sospensione del procedimento amministrativo in attesa di quello penale: quando l'appartenente ai ruoli dell'Amministrazione della pubblica sicurezza viene sottoposto, per gli stessi fatti, a procedimento disciplinare ed a procedimento penale, il primo deve essere sospeso fino alla definizione del procedimento penale con sentenza passata in giudicato), l’orientamento giurisprudenziale seguito dalla Sezione anche in altri giudizi (T.A.R. Lazio Roma, sez. I, 10 giugno 2006, n. 4462; Consiglio Stato , sez. VI, 23 maggio 2006, n. 3069; Cons. Stato, sez. IV, 7 maggio 1998, n. 780), riteneva che costituisse presupposto ostativo alla attivazione o alla prosecuzione dell’iter disciplinare soltanto l’esercizio dell’azione penale ravvisabile nel momento in cui il soggetto indagato acquista la veste di imputato con la richiesta di rinvio a giudizio (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 28.2.2006, n. 3069), ovvero con la formulazione degli altri atti tipici con i quali egualmente si investe il Giudice penale di decidere sulla pretesa punitiva (447, 449, 453, 459, 555 c.p.p.).

 2.1.1. In senso contrario, si era recentemente osservato (Consiglio di Stato 413/09; Consiglio Stato, sez. VI, 29 luglio 2008 , n. 3777; cfr. anche il parere del Consiglio di Stato n. 2309/07 reso dall’adunanza della sezione I  il 20 giugno 2007) che la nozione di "procedimento penale" recepita dall'art. 11 del d.P.R. n. 737/1981 non vada ristretta alle sole fasi processuali in cui si determina l'ascrizione della "notitia criminis" ad un soggetto determinato (inizio dell'azione penale in senso formale), ma sia comprensivo anche delle precedenti attività istruttorie e di indagine in base alle quale può pervenirsi o all'istanza di archiviazione o alla formale richiesta di rinvio a giudizio per il prosieguo dell'accusa (cfr. in fattispecie analoga Cons. St., Sez. VI^, n. 5421/2005 del 06.10.2005). L'art. 11 del d.P.R. n. 737/1981 enuclea, invero, una norma di garanzia chiamata ad operare in raccordo con l'art. 653 c.p.p., che attribuisce alla sentenza penale irrevocabile di assoluzione efficacia di giudicato nel giudizio di responsabilità disciplinare davanti alle pubbliche autorità quanto all'accertamento che il fatto non sussiste, non costituisce illecito penale o che l'imputato non lo ha commesso. Non ha senso quindi distinguere, agli effetti dell'applicazione dell'art. 11 del d.P.R. n. 737/1981, all'interno del processo penale le fasi procedimentali di istruttoria e di indagine indirizzate verso un soggetto determinato rispetto al momento di inizio formale dell'azione penale, poiché in entrambe in casi ricorre l'"eadem ratio" sottesa all'art. 11, che è quella di prevenire antinomie fra gli esiti del procedimento penale e di quello disciplinare e di consentire all'inquisito di avvalersi della pronunzia assolutoria a discarico dell'addebito di trasgressione del codice disciplinare. La nozione di "procedimento penale" fissata nel vigente codice di procedura penale assume, quindi, a riferimento il sorgere di un procedimento giudiziario per un'astratta ipotesi di reato. Detto momento si identifica nella registrazione della "notizia criminis" presso la Procura della Repubblica, che se indirizzata verso soggetto determina contestualmente, o dal momento in cui ciò risulti anche l'iscrizione della persona indagata (cfr. art. 335 c.p.p.). Tale conclusione è conforme al modello processuale accusatorio cui si ispira il codice di procedura penale, che distingue chiaramente tra "procedimento" e "processo", riservando quest'ultima espressione alle fasi del procedimento posteriori all'esercizio dell'azione penale. Sotto altro aspetto, stabilisce l'art. 61 c.p.p. che "i diritti e le garanzie dell'imputato si estendono alla persona sottoposta alle indagini preliminari. Alla stessa persona si estende ogni altra disposizione relativa all'imputato, salvo sia diversamente stabilito". Dalla su riferita disposizione si ricava un principio di carattere ordinamentale che parifica i diritti e le garanzie dell'inquisito quale sia la fase del procedimento penale in cui esso sia coinvolto. Detto principio esplica, quindi, effetto anche in ordine al diritto dell'indagato di veder subordinata, secondo quanto stabilito dall'art. 653 c.p.p., la definizione del giudizio disciplinare all'esito del giudizio penale, per ciò che attiene all'insussistenza del fatto addebitato ed alla mancata commissione dello stesso. Nel caso trovasse ancora ingresso la regola della sospensione del procedimento disciplinare solo in presenza dell'inizio in senso formale dell'azione penale, sarebbero favoriti proprio i soggetti più gravemente sospettati (e cioè nei cui confronti con immediatezza è intervenuta l'ascrizione dell'imputazione per fatto determinato) per i quali il procedimento disciplinare sarebbe sospeso, mentre questo procederebbe inesorabilmente nei confronti dei soggetti solo in fase indagatoria. Le medesime conclusioni trovano conforto nella giurisprudenza del Consiglio di Stato che, in fattispecie afferente alla sospensione cautelare dal servizio dell'impiegato "sottoposto a procedimento penale" (art. 91 del d.P.R. 10.01.1957, n. 3), ha ripudiato la tesi riduttiva della pendenza del procedimento penale ai soli casi di inizio formale dell'azione penale secondo le situazioni processuali previste dagli artt. 60. 405 e 416 c.p.p., ammettendo la possibilità di adottare la misura cautelare anche in un momento antecedente, in relazione all'attività istruttoria del giudice penale per fatti ascritti al pubblico dipendente (cfr. da ultimo Cons. Stato n. 398 del 27.01.2003). La riconduzione dell'obbligo di sospendere il procedimento disciplinare in presenza anche di un' attività di indagine preliminare nei confronti dell'inquisito non introduce un'ipotesi atipica di sospensione idonea a determinare effetti interruttivi dei termini di perenzione dell'azione disciplinare. L'obbligo di sospensione si raccorda al contenuto prescrittivo dell'art. 11 del d.P.R. n. 737/1981 che, con riguardo alla nozione di "procedimento penale" è più ampio, per le ragioni innanzi esposte, di quello ad esso ascritto dall'Amministrazione appellante.

 2.1.2. L’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato ha recentemente composto il contrasto giurisprudenziale confermando l’indirizzo da sempre seguito dalla Sezione: l’art. 11 d.P.R. n. 737/1981, laddove viene stabilito che, nel caso un appartenente ai ruoli della Polizia di Stato venga sottoposto, per gli stessi fatti, a procedimento disciplinare ed a procedimento penale, il procedimento disciplinare deve essere sospeso fino alla definizione del procedimento penale con sentenza passata in giudicato, va interpretato nel senso che presupposto ostativo all’attivazione o alla prosecuzione del procedimento disciplinare è l’esercizio dell’azione penale (ossia la richiesta del Pubblico Ministero di rinvio a giudizio a norma dell’art. 416 c.p.p.) e la conseguente assunzione della veste di imputato del soggetto al quale è attribuito il fatto di rilevanza penale (Ad. Plen. 29 gennaio 2009 n. 1)

 2.1.3. Orbene, nel caso di specie l’azione disciplinare è avvenuta in parallelo all'attività di indagine della procura di Milano. Il procedimento disciplinare risulta essersi concluso prima dell’acquisizione della qualità di imputato del ricorrente; difatti, alla data del provvedimento di destituzione (19 dicembre 2006) al ricorrente era stato unicamente notificato l’avviso di conclusione delle indagini per il medesimo fatto oggetto di accertamento da parte dell’amministrazione intimata.

 In definitiva, il Collegio, ritenendo doveroso uniformarsi all’indirizzo dall’adunanza plenaria del Consiglio di Stato, ritiene che la sanzione espulsiva impugnata non sia stata inflitta in violazione della norma di garanzia dettata dall'art. 11 del d.P.R. n. 737/1981 che, soltanto in presenza dei presupposti sopra specificati, rende prioritaria alla definizione del procedimento disciplinare la conclusione con decisione irrevocabile del giudizio in sede penale.

 3. Occorre scrutinare le restanti censure.

 3.1. Per quanto concerne la mancata audizione dei testi indicati dall’incolpato non sembra che, nel caso di specie, incombesse sull’amministrazione uno specifico obbligo di procedere all’assunzione delle testimonianze, giacché la responsabilità del dipendente emergeva con sufficiente chiarezza dalla attività istruttoria svolta dall’Amministrazione (corroborata dall’esito dagli elementi ricavati dalle registrazioni video) (cfr. sul punto T.A.R. Veneto Sez. I n. 150/2004; T.A.R. Liguria, Sez. II, 11 novembre 2002; T.A.R. Puglia, Lecce, 29 marzo 2000 n. 1901).

 Il procedimento disciplinare, invero deve svolgersi in modo tale da consentire nel modo più ampio e completo possibile l'accertamento dei fatti e la verifica delle ragioni difensive addotte dall'incolpato; pertanto, in presenza di totale smentita dei fatti contestati da parte dell'interessato, deve essere l’accusa a fornire prova positiva dei fatti stessi e, quindi, l'eventuale esclusione di testimoni o di altri mezzi istruttori indicati dall'incolpato richiede adeguata giustificazione logica. Tuttavia, essendo il procedimento disciplinare configurato dalla legge in termini “inquisitori” e non “accusatori”, non esiste ivi un diritto alla prova dell’inquisito assimilabile a quello garantito nel processo penale. Pertanto, al diritto dell’incolpato di indicare testimoni o altri mezzi istruttori a difesa, fa senza dubbio riscontro il potere-dovere dell'autorità disciplinare di valutare preliminarmente l'ammissibilità e la rilevanza delle prove offerte.

 Nel caso di specie, la mancata assunzione di ulteriori testimonianze non ha conculcato il pieno ed immediato esercizio del diritto di difesa all'interno del procedimento disciplinare dal momento che l’organo decisionale, con apprezzamento discrezionale esente da irragionevolezza, ha valutato che la condotta del ricorrente fosse chiaramente desumibile dalle riprese televisive. Inoltre, in ossequio dell’art. 6 d.P.R. 25 ottobre 1981 n. 737 l’organo competente ha preso in considerazione le controdeduzioni dello stesso.

 3.2. Le medesime argomentazioni sopra svolte valgono a confutare l’asserita violazione delle norme del codice di procedura penale in materia di accertamenti tecnici irripetibili, che sottoporrebbero l’estrapolazione e la duplicazione dei fotogrammi delle registrazioni video all’osservanza di particolari cautele. Si tratta, anche qui, di garanzie che riguardano il processo penale non estensibili ai procedimenti amministrativi.

 Al pari, le deduzioni relative alla violazione delle norme in tema di trattamento dei dati personali sono del tutto generiche: non si comprende, invero, quali norme siano state violate.

 3.3. In termini generali, il giudizio disciplinare nei confronti del personale della Polizia, si svolge con una larga discrezionalità da parte dell'Amministrazione in ordine al convincimento sulla gravità delle infrazioni addebitate e della conseguente sanzione da irrogare, sicché in sede di impugnativa del provvedimento disciplinare, il giudice amministrativo non può sostituirsi agli organi dell'Amministrazione nella valutazione dei fatti contestati all'inquisito e nel convincimento cui tali organi siano pervenuti, se non nei limiti in cui la valutazione contenga un travisamento dei fatti, ovvero il convincimento non risulti formato sulla base di un processo logico e coerente. La valutazione della gravità di un comportamento ai fini disciplinari e della proporzione tra la sanzione irrogata ed i fatti contestati costituisce manifestazione del discrezionale apprezzamento dell'amministrazione, suscettibile di sindacato di legittimità solo per macroscopici vizi logici (cfr. Consiglio di Stato Sez. IV, 25 maggio 2005, n. 2705; idem, 15 maggio 2003, n. 2624; idem, 30 ottobre 2001, n. 5868; idem, 12 aprile 2001, n. 2259; idem, 31 luglio 2000, n. 3647), che non sembrano ricorrere nel caso di specie attesa la condotta tenuta dal ricorrente.

 Ritiene il Collegio che la sanzione espulsiva irrogata non sia irragionevole rispetto al comportamento imputato al ricorrente e per il quale è intervenuta anche sentenza penale di condanna.

 La destituzione è inflitta, tra le altre ipotesi, per atti che rivelino mancanza del senso dell'onore o del senso morale; che siano in grave contrasto con i doveri assunti con il giuramento; per grave abuso di autorità o di fiducia; per dolosa violazione dei doveri che abbia arrecato grave pregiudizio allo Stato, all'Amministrazione della pubblica sicurezza, ad enti pubblici o a privati. Ai sensi del d.P.R. 28 ottobre 1985 n. 782 (Approvazione del regolamento di servizio dell'Amministrazione della pubblica sicurezza), il personale della Polizia di Stato deve avere in servizio un comportamento improntato alla massima correttezza, imparzialità e cortesia e deve mantenere una condotta irreprensibile, operando con senso di responsabilità, nella piena coscienza delle finalità e delle conseguenze delle proprie azioni in modo da riscuotere la stima, la fiducia ed il rispetto della collettività, la cui collaborazione deve ritenersi essenziale per un migliore esercizio dei compiti istituzionali, e deve astenersi da comportamenti o atteggiamenti che arrecano pregiudizio al decoro dell'Amministrazione. Il personale anche fuori servizio deve mantenere condotta conforme alla dignità delle proprie funzioni (art. 13, Norme generali di condotta). Rientrano, inoltre, tra i doveri del personale della Polizia di Stato: 1) non abusare a proprio vantaggio dell'autorità che deriva dalla funzione esercitata; 2) non denigrare l'Amministrazione e i suoi appartenenti; 3) non contrarre debiti senza onorarli e in nessun caso contrarne con i dipendenti o con persone pregiudicate o sospette di reato; 4) non mantenere, al di fuori di esigenze di servizio, relazioni con persone che notoriamente non godono pubblica estimazione, non frequentare locali o compagnie non confacenti alla dignità della funzione; 5) non frequentare senza necessità di servizio o in maniera da suscitare pubblico scandalo persone dedite ad attività immorali o contro il buon costume ovvero pregiudicate (art. 12 Doveri del personale).

 Il Collegio ritiene che la gravità dell’episodio di cui il ricorrente si è reso protagonista ostacoli gravemente il recupero del rapporto fiduciario poiché il mercimonio dell’interesse pubblico lede il prestigio e l’immagine dell’Amministrazione, significa venir meno agli imprescindibili doveri di lealtà e rettitudine e denota basso profilo morale.

 3.4. Il ricorrente deduce la disparità del trattamento a lui riservato rispetto agli altri due agenti coinvolti nel medesimo fatto (@@@@@@@ e @@@@@@@), i quali hanno sofferto sanzioni di tipo non espulsivo.

 La sentenza del Tribunale di Milano del 22 aprile 2008, n. 5237/08, pronunciandosi sulla richiesta delle parti di applicazione della pena ai sensi dell’art. 444 c.p.p., ha irrogato al ricorrente la pena di anni uno e sette mesi di reclusione, a @@@@@@@ la pena di anni uno e mesi quattro di reclusione; a @@@@@@@ la pena di mesi otto di reclusione.

 Ritiene il Collegio che la maggiore severità riservata al ricorrente dall’amministrazione in sede disciplinare, trovi adeguata giustificazione nelle specifiche mansioni di capo pattuglia da lui rivestite cui non possono non seguire anche specifiche responsabilità giuridiche; nonché nella recidiva (quella impugnata è la III punizione), contestata al solo ricorrente e non anche agli altri agenti inquisiti.

 4. In definitiva, il ricorso è infondato.

 5. Le spese di lite sono interamente compensate tra le parti, sussistendo giusti motivi ravvisabili nella oscillazione degli orientamenti giurisprudenziali in merito ad alcune delle questioni implicate nella presente controversia.  
 

P.Q.M.

 Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia, sezione III, definitivamente pronunciando sul ricorso in epigrafe, così provvede: 
 

Rigetta il ricorso;

Compensa interamente tra le parti le spese di lite.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità Amministrativa. 
 

 Così deciso in Milano nelle camere di consiglio del 22 gennaio e del 5 febbraio 2009, con l’intervento dei seguenti magistrati: