Tribunale di Monza
Sezione I civile
Sentenza 26 gennaio 2006, n. 388
SVOLGIMENTO
Con ricorso depositato in data 3 novembre 2004 M.A. adiva
questo Tribunale perché pronunziasse, con addebito di responsabilità alla
resistente, la separazione coniugale da P.D., con la quale ebbe a contrarre
matrimonio il 30 giugno 2000 in Vimercate (MI).
A tale scopo esponeva:
- di non avere avuto figli in costanza di matrimonio;
- di ritenere impossibile la prosecuzione della convivenza coniugale, in
conseguenza del comportamento della moglie (che, dopo avere interrotto una
gravidanza contro la volontà del marito, ebbe ad abbandonare la casa coniugale),
indicato come contrario ai doveri nascenti dal matrimonio.
Della pendenza della domanda era debitamente notiziato il Pubblico Ministero.
Comparsi entrambi i coniugi all'udienza ex art. 708 c.p.c., fallito il tentativo
di riconciliazione il Presidente, adottati i provvedimenti provvisori di propria
competenza, disponeva per l'ulteriore prosecuzione del processo.
Innanzi al G.I. designato si costituivano entrambe le parti: parte ricorrente
insisteva nella domanda di separazione con addebito alla moglie, mentre parte
resistente ne invocava l'addebitabilità al marito (che ebbe ad indurla ad
abortire e, dopo l'abbandono concordato della casa coniugale da parte della
moglie, mantenne plurime relazioni extra-coniugali).
Compiutamente trattato ed istruito in via documentale il processo, precisate
come in epigrafe le conclusioni delle parti, la causa era trattenuta dal
Collegio per la decisione allo spirare dei termini di cui all'art. 190 c.p.c.
MOTIVI
La domanda di separazione coniugale appare meritevole di
accoglimento.
Dal tenore degli atti di causa, dal comportamento processuale ed extra
processuale delle parti, nonché dalle reciproche accuse rivolte dall'un coniuge
all'altro, deve senz'altro reputarsi come venuta meno la comunione materiale e
spirituale tra i coniugi stessi e, comunque, come intollerabile la prosecuzione
della loro convivenza.
Non v'è dubbio, pertanto, che debba essere pronunziata la separazione dei
coniugi M.A. e P.D.
Più complesso appare l'esame delle rimanenti domande svolte in giudizio dai
coniugi, con particolare riferimento, in primo luogo, alle reciproche richieste
di addebito della separazione.
M.A. imputa, innanzitutto, alla moglie di essersi sottoposta, in costanza di
matrimonio, ad un intervento di interruzione della gravidanza, nonostante la
contraria volontà del marito ed in assenza delle condizioni a tal fine previste
dalla legge.
La resistente, a propria volta, sostiene che il marito reagì negativamente alla
notizia della gravidanza, manifestando la propria contrarietà (motivata sia
dalle proprie diverse scelte di vita, sia dalle condizioni di salute della
moglie) a che fosse portata a compimento e prestandosi fattivamente affinché ciò
non avvenisse.
La lettura delle reciproche accuse dei coniugi potrebbe, in verità, produrre un
inopportuno sviamento dall'unica questione veramente rilevante ai fini del
decidere.
Essendo, infatti, pacifico che alfine P.D., indipendentemente dalle ragioni e
dai motivi che la indussero a ciò, autonomamente "decise che era meglio
interrompere la gravidanza" (comparsa conclusionale resistente, pag. 3), se da
un lato dovrà essere esclusa in relazione a tale circostanza ogni ipotesi di
addebito della separazione al ricorrente ("la Sig.ra P. non ha mai accusato il
marito di averla indotta ad abortire": comparsa conclusionale pag. 3, cit.),
d'altro canto tale decisione dovrà essere vagliata dal Tribunale, ai fini della
richiesta di addebito avanzata dal marito, facendo esclusivo riferimento alla
disciplina dettata in materia dalla l. 22 maggio 1978 n. 194.
Trattandosi di una legge speciale intervenuta in epoca successiva a quella di
entrata in vigore della generale nuova disciplina del diritto di famiglia, è
innanzitutto evidente che la stessa ben possa derogare a taluni dei principi
generali introdotti dalla l. 19 maggio 1975, n. 151, che il ricorrente ha
invocato allo scopo di suffragare la propria domanda di addebito.
In particolare, M.A. ha invocato il diritto alla paternità che, a suo dire,
avrebbe imposto alla moglie "di tenere conto delle sue ragioni eventualmente
contrarie", dovendo in difetto "ritenersi illecito, nell'ambito del matrimonio,
un ingiustificato rifiuto della donna a far partecipare il marito-padre alle
procedure in cui essa è chiamata per ottenere la autorizzazione abortiva"
(comparsa conclusionale ricorrente, pag. 6).
Senonché, non può l'interprete non rilevare, in estrema sintesi:
- che la l. 22 maggio 1978, n. 194 ha inteso esplicitamente disciplinare le
ipotesi di interruzione della gravidanza, senza alcuna distinzione correlata
alla condizione personale della donna (se, cioè, la fecondazione sia avvenuta o
meno all'interno di un rapporto matrimoniale);
- che, pertanto, la legge stessa tutela la "donna" in quanto tale, in modo cioè
indipendente dalla natura e dalle condizioni giuridiche del rapporto con il
padre del concepito;
- che, inoltre, l'art. 5 della legge in esame attribuisce alla donna la facoltà
("ove lo consenta") di rendere partecipe la "persona indicata come il padre del
concepito" della procedura prodromica alla decisione abortiva;
- che, infine, la stessa norma speciale attribuisce in via esclusiva alla donna,
una volta maturato l'eventuale periodo di ripensamento di sette giorni
richiestole con "invito" ad hoc dal medico interpellato, la facoltà di decidere
la interruzione della gravidanza.
I principi di diritto sostanziale che, ai fini della presente decisione, possono
essere enucleati dalla disciplina speciale in materia di aborto, sono in tutta
evidenza di segno contrario alla tesi, prospettata dal ricorrente, che vorrebbe
affermare ed introdurre l'obbligo per la donna (ed il corrispondente diritto del
partner) di rendere partecipe il "marito-padre" della procedura e della
decisione finale di interruzione della gravidanza.
Gioverà rammentare che, nella ricorrenza delle condizioni previste dalla legge,
la Corte di Cassazione ha affermato l'esistenza di un vero e proprio "diritto
della madre all'aborto" (Cass. 1° dicembre 1999, n. 12195).
Tale conclusione deve considerarsi legittima anche con riferimento ai principi
costituzionali (artt. 2, 32, 25 e 30 Cost.) invocati dalla difesa di M.A., ai
quali la riforma generale del diritto di famiglia ha dato pressoché completa
attuazione.
La stessa Suprema Corte, infatti, ha avuto modo di considerare "irrilevante la
questione di legittimità costituzionale dell'art. 5 della l. n. 194/1978 nella
parte in cui, consentendo alla madre l'interruzione della gravidanza entro i
primi novanta giorni dal concepimento, non considera il diritto alla paternità
del padre del concepito, nonché il diritto alla vita di quest'ultimo" (Cass. 5
novembre 1998, n. 11094).
Del resto, sarebbe quantomeno incongruo stabilire che la donna, quando abbia
assunto anche la condizione di "moglie", debba essere sanzionata (con l'addebito
della separazione e con le rilevanti conseguenze giuridiche a tale pronunzia
direttamente riconducibili) a causa e per effetto dell'esercizio di un diritto
riconosciutole dalla legge.
Incongruità che, per altro verso, appare ancor più evidente laddove si consideri
che non può neppure attribuirsi alle scelte attinenti la maternità una
qualsivoglia valenza "bilaterale", in assenza della quale non possono essere
invocati gli inderogabili principi di parità ed uguaglianza dei coniugi sanciti
dall'art. 29 Cost. e dall'art. 160 c.c.
Dunque, la resistente ha esercitato in modo legittimo, indipendentemente dalle
dinamiche relazionali e psicologiche interne al matrimonio, il proprio diritto
di interruzione della gravidanza, dovendo il rispetto delle ragioni e delle
procedure previste dalla l. n. 194/1978 presumersi fino a prova contraria (in
alcun modo offerta dal marito, che al riguardo si è limitato a sollecitare, a
scopo inammissibilmente esplorativo, un ordine di esibizione della relativa
documentazione medica).
Pertanto, la interruzione della gravidanza non potrà essere in alcun modo
considerata quale questione rilevante ai fini dell'addebito della separazione.
Di talché, tutte le conseguenziali pretese risarcitorie del ricorrente dovranno
essere disattese.
Miglior sorte, peraltro, non può essere riservata alle altre circostanze che i
coniugi hanno addotto allo scopo di ottenere una pronunzia di addebito.
Depurata la controversia dalle, pur pregevoli, altre schermaglie difensive delle
parti, l'esame del Tribunale deve essere limitato alla sola accusa rivolta alla
moglie di abbandono ingiustificato della casa coniugale.
Irrilevanti e, in ogni caso, fatte oggetto di generiche istanze istruttorie,
debbono considerarsi le diatribe, largamente rammentate negli atti di causa,
riguardanti le modalità di esplicazione dei rapporti personali e patrimoniali
tra i coniugi, non essendo in esse ravvisabile alcuna reciproca o unilaterale
violazione dei doveri previsti dall'art. 143 c.c.
Quanto, invece, al preteso illegittimo abbandono della abitazione familiare da
parte della moglie, reputa il Tribunale che possa considerarsi dimostrata, per
tabulas, la sua irrilevanza ai fini della richiesta di addebito avanzata dal
ricorrente.
Come è noto, qualsivoglia pretesa violazione dei doveri coniugali, per poter
legittimare una pronunzia di addebito della separazione, deve rivestire
efficacia causale nella determinazione della crisi familiare (vedansi in tema:
Cass. 16 novembre 2005, n. 23071; Cass. 26 maggio 2004, n. 10273; Cass. 28
settembre 2001, n. 12130; Cass. 12 gennaio 2000, n. 279; Cass. 14 agosto 1997,
n. 7630).
Conseguentemente, "in caso di mancato raggiungimento della prova che il
comportamento contrario ai doveri nascenti dal matrimonio, tenuto da uno dei
coniugi o da entrambi, sia stato la causa del fallimento della convivenza, deve
essere pronunciata la separazione senza addebito" (Cass. 12130/2001).
Nel caso di specie, dalla lettura della corrispondenza inviata dal M. alla
moglie dopo l'allontanamento dalla casa familiare (che la resistente assume
essere stato concordato tra le parti), si evince in tutta evidenza che le cause
del fallimento della convivenza coniugale erano ben preesistenti a tale momento,
essendo individuabili proprio nell'ormai patologico stato delle relazioni
personali e psicologiche dei coniugi.
Non altrimenti possono essere interpretate le parole del marito, laddove (docc.
n. 1 fasc. resistente) questi ha ammesso alcune proprie mancanze (di essere
"stato stupido" nei confronti della moglie e di averla "ferita"), se ne è
assunta l'esclusiva responsabilità ("ti chiedo perdono... per i momenti aspri
che ho avuto con te, i miei scatti, i nervosismi") ed ha riconosciuto che
l'allontanamento della resistente ha avuto meri scopi difensivi ("tu ti stai
solo difendendo, lo capisco").
Dunque, non solo il M. non ebbe a contestare alla moglie il preteso unilaterale
abbandono della casa coniugale, ma dimostrò di comprenderne le ragioni e di non
considerarlo come motivo di rottura del vincolo coniugale ("forse un giorno
aprirai una porticina, io sarò lì": lett. 15 aprile 2004, docc. 1).
Va da sé che anche la circostanza in esame non possa costituire motivo di
accoglimento della domanda di addebito della separazione.
Non risultando idoneamente dedotte né dimostrate, da parte di entrambi i
coniugi, altre circostanze a tal fine rilevanti, non rimane al Tribunale che
l'esame della sola domanda svolta dalla resistente al fine di ottenere la
liquidazione di un contributo al proprio mantenimento.
Premesso che, per pacifico accordo tra i coniugi, la casa coniugale dovrà
rimanere assegnata al marito, dall'esame degli atti e documenti di causa si
evince, senza ombra di dubbio, una notevole disparità tra la attuale situazione
reddituale del ricorrente e quella della resistente.
In effetti, quest'ultima non risulta godere di adeguati redditi propri: proprio
il ricorrente, in comparsa conclusionale, ha dedotto che, mentre per gli anni
1999 e 2000 la moglie presentò dichiarazioni dei redditi rispettivamente per
Lire 56.551.000 e per Lire 43.935.000, "dal gennaio del 2000 la P., convivente
con il M., è stata totalmente a carico dello stesso".
Né il ricorrente ha saputo dedurre idonee istanze istruttorie al fine di provare
che, dopo aver abbandonato il lavoro, la resistente abbia ripreso a produrre
redditi adeguati e consoni al tenore di vita precedentemente goduto.
Al contrario, oltre a godere dell'utilità derivante dall'assegnazione della casa
coniugale, il M. ha esplicitamente riconosciuto di disporre di rilevanti
capacità reddituali e patrimoniali.
Egli, ad esempio, ha ammesso di aver versato sul proprio conto corrente, per il
solo anno 2003, stipendi per Euro 152.375,48 (comparsa conclusionale, pag. 3)
nonché di aver sopportato, per l'arredamento della casa coniugale, esborsi pari
a Lire 144.000.000 nel solo bimestre novembre/dicembre 2000 (pag. 9), altresì
lamentando di aver versato dal 2001 alla suocera l'importo mensile di Euro
1.100,00 "fino ad aprile del 2004" (pag. 2).
Il ricorrente, inoltre, ha rammentato il notevole tenore di vita consentito alla
moglie durante la convivenza matrimoniale (pagg. 2-3).
Equa e congrua, dunque, deve considerarsi la liquidazione, già operata in via
provvisoria alla udienza presidenziale, di un contributo al mantenimento della
moglie in misura pari ad Euro 2.000,00 mensili, oltre Istat annuale.
Le spese processuali possono essere dichiarate compensate in ragione della metà,
in considerazione della natura della controversia e dei motivi della decisione:
la rimanente metà segue la soccombenza del ricorrente.
P.Q.M.
Il Tribunale, pronunziando sul ricorso proposto in data 3
novembre 2004 da M.A. nei confronti di P.D., così provvede:
1) pronunzia la separazione personale dei coniugi M.A. e P.D.;
2) pone a carico del marito, a titolo di concorso nel mantenimento della moglie,
l'obbligo di corrisponderle entro il giorno 5 di ogni mese un assegno pari ad
Euro 2.000,00 da rivalutarsi automaticamente ogni anno secondo gli indici Istat;
3) assegna al ricorrente la casa coniugale, con quanto l'arreda;
4) respinge ogni ulteriore domanda proposta in giudizio;
5) dichiara compensate le spese processuali in ragione della metà e condanna il
ricorrente a corrispondere alla resistente la rimanente metà liquidata in Euro
3.400,00 (di cui Euro 50,00 per esborsi, Euro 850,00 per diritti ed Euro
2.500,00 per onorari), oltre spese generali, IVA e CPA come per legge;
6) dichiara la presente sentenza provvisoriamente esecutiva.